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    Le parole del nostro tempo

    Francesco Provinciali


    Immersi nel magma della comunicazione, risulta sempre più difficile distinguere la realtà dalla sua rappresentazione e il vero dal falso. Al punto che prevale ormai la logica del punto di vista personale e di una lettura totalmente soggettiva dei fatti. Una deriva di cui soffre soprattutto il nostro uso della lingua, sempre più orientato al monologo e, di fatto, quasi disinteressato alla capacità di ascoltare e comprendere dell'altro.

    Si vocifera

    I toni miti non sembrano appartenere alle consuetudini comunicative del nostro tempo. Difficile trovare consensi parlando sottovoce: le ragioni si conquistano con modi sovrastanti, vince l'effetto domino, non ci si può sottrarre alla gratificante soddisfazione dell'essere i depositari dell'ultima battuta. Si parla, ci si scambiano idee e opinioni, si partecipa più o meno convintamente a questo straordinario palcoscenico planetario della recita a soggetto, dove ormai nessun contatto ci è precluso. Si pensa, si parla, si dice: ma si sa anche ascoltare? C'è una selezione naturale nelle scelte di quello che si ascolta, operata dalla nostra mente, dai nostri interessi e dalla nostra attenzione, ma non sempre ci riesce di escludere quello che vorremmo restasse fuori. Viviamo infatti nel magma indistinto della comunicazione al punto che ci riesce difficile separare la realtà dalla sua rappresentazione.
    In una società definita complessa, senza centro e senza periferie, finisce per essere vero il tutto, ma anche il suo contrario, prevalgono sempre i punti di vista, la soggettività. Siamo solisti che ambiscono di appartenere al coro, ma abbiamo la velleità di pensare che il consenso è meglio acquisirlo partendo dalle nostre personali valutazioni. Il vociare indistinto che ci circonda finisce col diventare un limbo di soggettività. La complessità consiste infatti nella multicorde compresenza delle voci dove poco resta sottotraccia: tutti devono dire, esprimersi, aggiungere, puntualizzare. Si alzano i toni senza preoccuparsi di elevare pure le altezze: quelle dei contenuti, dell'etica che li ispira e dei messaggi, del rispetto verso gli interlocutori. Più che sussurrare, ormai si vocifera convintamente, per abitudine o per scelta non ci si può escludere da questo presenzialismo della parola. C'è una sorta di brusio diffuso che abbraccia l'umanità e la pervade ma non sempre si riesce a decifrarne il senso: vociferare, infatti, significa esprimersi comunque, senza riguardo a un principio di identità, essendo sempre più importante partecipare. Più del messaggio in sé diventa significativa la presenza: esserci, dire.
    A partire dai "si dice", tutto diventa ipotetico e possibile, non c'è miglior palestra per esercitare la nostra fantasia: fare congetture, diffondere notizie incerte, mormorare, insinuare. Si parla per dire o si parla per parlare? C'è un autocompiacimento celebrativo nell'eloquio: ad esempio, i politici "migliori" sono quelli che usano la retorica per mascherare la carenza di senso pratico. Trovo che oggi ci si pongano meno domande di un tempo, che l'umiltà del dubbio abbia ceduto il posto alla spavalderia, che tutti si affrettino ad accreditarsi come depositari di autorevoli risposte. Questo mondo ci fa crescere in fretta, troppo in fretta, e ci proietta sulla ribalta della vita con il solo paracadute dei luoghi comuni, facendoci credere che la rete della comunicazione possa sostenere l'onere della prova e delle scelte. Ma questa rete ha maglie troppo larghe e sottili per reggere la trama della vita e, a volte, quando si alza il sipario, siamo chiamati a qualche monologo senza partitura. Trovo che il vociare collettivo produca ingolfamenti nell'anima, un surplus di stimoli che spesso genera azioni uguali e contrarie: ci "resettiamo" solo nel silenzio, se ne siamo capaci. Si dice, si vocifera: nel bene o – più sovente – nel male finiamo col vivere una condivisione inconsapevole, priva di autenticità.

    Quel che resta delle parole

    La metafora del viaggio, anche nella suggestione della rivisitazione intimista, ben si presta a concedere pause di stacco dalle assorbenti consuetudini ed è occasione di riflessione sulle cose della vita. Qualcuno rammenterà come fosse ben descritta nel romanzo Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro, dal quale prese spunto il regista James Ivory per un omonimo film che ci fece dono della magistrale interpretazione di Anthony Hopkins. Ciascuno, a un bel punto della propria esistenza, ha modo di ripercorrere il senso delle cose fatte, delle occasioni mancate e delle opportunità realizzate. È un cammino a ritroso nel labirinto dei ricordi, un percorso introspettivo che rinnova memorie, rimpianti, soddisfazioni, fatti, parole, e che traccia sempre provvisori bilanci. L'allegoria del ricordo riaffiora nei chiaroscuri dei dubbi e delle improbabili identità del signor Onoff (un grandioso Gerard Depardieu) in un'altra celebre pellicola – Una pura formalità di Giuseppe Tornatore – e nel leit motiv della sua colonna sonora: «ricordare, ricordare è un po' come morire... perché tutto ritorna anche se non vuoi. E scordare, scordare è più difficile... se vuoi ricominciare. Ricordare, ricordare quel che c'è da cancellare».
    Quello che resta della nostra esistenza ha i nomi, le situazioni, i suoni, gli odori, i colori e le voci del nostro passato e il viaggio a ritroso non sempre è indolore: come ha scritto Rainer M. Rilke, a volte è importante ricordare, ma altre volte è ancora più importante dimenticare. Aggiungerei: "saper" dimenticare, infatti sovente il ricordo è legato alla sofferenza e al dolore e non sempre questa censura ci è facilitata, riaffiora il rammarico e a volte anche l'angoscia che si accompagna ai sensi di colpa. La sola memoria evoca í fatti, ripuliti dai loro sedimenti, dai depositi, dalle scorie, ma le parole si materializzano nel ricordo e lasciano traccia nell'anima, specialmente quelle legate a contesti esistenziali per noi significativi. A volte ci sembra di udire le voci che accompagnano quei ricordi, come se fossero vive accanto a noi e invece sono solo ombre nella nostra mente.
    Più delle movenze e dei gesti, le stesse parole, le cose dette e ascoltate, ci rinnovano la loro presenza, ora rassicurante ora inquieta, ora furtiva, ora preponderante. Anche i silenzi riempiono la memoria, il riemergere di quegli spazi apparentemente vuoti tra le parole e tra i gesti, gli intervalli tra le presenze: pure il silenzio ha una sua dignità, c'era allora e si rinnova oggi se lo facciamo galleggiare nei chiaroscuri del nostro passato. È come se il silenzio fosse silenzio due volte: per come era e per come lo ripensiamo ripresentandolo alla nostra mente. Di tutte le cose dette, sentite, fatte, vissute ci resta quello che la nostra memoria riesce a selezionare, a volte per difetto di volontà, altre volte per esplicita rimozione, spesso in modo piacevole oppure con rimpianti o rinnovato dolore. Le voci restano dentro, come sopite e latenti, e sono parole, domande, risposte in tutte le loro sfumature espressive. Dovremmo reciprocamente ricordarci che le parole rimangono retaggio della nostra memoria e che quelle cattive, fuori luogo, che umiliano, che offendono sono come fotografie che il tempo può sbiadire ma non cancellare, foto ingiallite che escono dal cassetto e che ti possono far male, ti feriscono l'anima ogni volta che le riprendi in mano. Quando parliamo, narriamo, raccontiamo, scriviamo e ogni volta che ci rivolgiamo al prossimo dobbiamo avere ben presente che molta parte delle parole che usiamo - e non si tratta sempre di quelle che vorremmo fossero dette a noi - può, nel bene e nel male, lasciare un segno indelebile nell'animo umano, più di un'impronta sulla sabbia, più di un segno sulla pelle - sia esso una carezza, un bacio o una ferita - che invece il tempo rimuove e cancella.

    Resistere alle parole

    Non è forse la parola la più straordinaria — espressione dell'intelligenza umana? Ma
    non sempre la sua presenza è così neutrale. A volte la parola è il nemico invisibile con cui dobbiamo combattere, la catena opprimente che vorremmo spezzare, la verità apparente che ci preme di confutare. Volenti o no, siamo più che mai immersi in un oceano di cose dette e sentite, partecipiamo al chiacchiericcio universale che prende le sembianze dei tempi nuovi specie quando si materializza e si alimenta con l'uso delle nuove tecnologie. È come se l'intero pianeta trattenesse il respiro, avvolto e soffocato dall'abbraccio stretto e infinito delle voci che si levano ovunque e che, se potessero darsi la mano, il nostro mondo sarebbe come impacchettato in una rete impenetrabile. Un tempo le parole si muovevano con le gambe della gente o si spostavano con misurata lentezza: oggi si mischiano ai fatti in tempo reale, li seguono e li anticipano, sono qui e altrove, davanti a noi e ovunque. Persino le immagini senza il supporto delle spiegazioni e del commento sono inespresse, sbiadite, spente, indecifrabili.
    Nel turbinio incessante del dire e del commentare, le parole vanno misurate, tenute a bada, usate con discernimento: sono apparentemente innocue ma si caricano di valore e di senso, ora appartengono al bene, ora si impregnano del male, hanno un peso, una misura, un esito. Sono un tesoro da spendere con parsimonia, una risorsa per dare senso alla nostra presenza in mezzo agli altri, un talento per conoscersi e ri-conoscersi. Se ne pronunciano talmente tante, tutti i giorni, e altrettante se ne sentono dire che capita a tutti, prima o poi, di rimanerci impigliati come pesci nella rete, di essere smentiti dall'incoerenza del giorno dopo. Oltre la cultura della comunicazione e delle immagini sembra materializzarsi quella prevalente del commento, che prende le mutevoli sembianze della riflessione, del dialogo, dell'esternazione, del gossip.
    Arriverà il giorno in cui ci scambieremo messaggi con il pensiero? Lasciamo alle neuroscienze e alle ricerche sull'intelligenza artificiale la risposta a questo affascinante e forse inquietante quesito. Ma certamente possiamo gíà fare molto oggi, con i nostri mezzi, per evitare di impostare un rapporto esclusivamente difensivo con le parole. Per quanto sia diffusa la consuetudine del parlare a vanvera e della chiacchiera, per quanto possa risultarci fastidioso il mormorio delle voci indistinte, per quanto sia sottile e pervasivo il tambureggiare delle mail e dei messaggi di testo, per quanto si possa essere ogni giorno blanditi dai convincimenti mediatici, ci resta pur sempre - a un bel punto - l'opportunità di tacere.
    Uno scorcio in direzione della Sala del Paradiso nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze.
    La società muove all'assalto delle coscienze con la lancia della persuasione occulta: cerchiamo di armarci con lo scudo del discernimento e della ragionevolezza, per resistere alle parole che vogliono insinuarsi con l'inganno nella nostra intimità o che finiscono per turbare il nostro già faticoso equilibrio esistenziale. Mi pare che nello sciocco e inconcludente brusio delle voci senza appartenenza occorra dotarsi di un ponderato senso della misura. Non possiamo ascoltare tutto né possiamo subire un significato prevalentemente commerciale della comunicazione. L'aristocrazia della parola non dimora nelle gerarchie dei ceti sociali, ma nella nobiltà d'animo di chi ne sa dosare con sapienza e criterio l'uso più appropriato.

    Quelle parole non dette

    Ci sono momenti nella vita in cui basta una parola, una sensazione, un'immagine, un incontro per farci attraversare in un lampo tutto il tempo che ci appartiene e rivisitare il passato come se un raggio di luce inondasse improvvisamente la nostra esistenza, dandole quel senso che inutilmente andiamo cercando nella inconcludente abitudine dei discorsi complessi e delle spiegazioni razionali. Il vero senso delle cose a volte si fa leggere con più spontaneità, emerge da solo, ci viene a cercare e ha radici lontane. Aveva scritto Kant: «ci sono due cose che non cesseranno mai di stupirmi con rinnovata meraviglia, il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me». Un dentro e un fuori che ci accompagnano sempre e a cui spesso non sappiamo prestare la dovuta attenzione fermandoci un attimo per ascoltarne le voci. Solitamente guardiamo altrove, sono più effimeri e accecanti i bagliori che ci affascinano e ci parlano di un presente che sfugge e di un futuro senza identità.
    Non siamo più abituati al silenzio, al ricordo: quel vuoto ci spaventa o forse siamo semplicemente incapaci di conviverci, per questo gli opponiamo tutti i segni possibili e invadenti della nostra presenza. Ma perderci nell'oblio, che è memoria e astrazione, aiuterebbe forse a ritrovarci con maggiore e più sincera intimità. Credo che il rammarico più grande che possa impadronirsi di un uomo sia quello del bene non fatto. Eppure, la vita ci dispensa a piene mani le occasioni per essere buoni senza per questo essere eroi. Raffaele Morelli mi aveva confidato in un'intervista di amare i quadri di Jan Vermeer, pittore olandese del '600, dove fasci di luce inondano i piccoli gesti della quotidianità domestica. Ciascuno potrebbe attingere da questa metafora il senso di un ravvedimento: guardarsi attorno per leggere con occhi nuovi e più benevolenza i segni delle presenze, a cominciare da quelle più vicine, che solitamente trascuriamo cercando l'alibi di verità lontane e irraggiungibili.
    Non ho mai capito fino in fondo i silenzi di mio padre, ma li ricordo a uno a uno: se forse in quei momenti avessi saputo abbracciarlo ci saremmo aperti alla parola, spiegati, capiti. Quelle parole non dette riecheggiano nella mia mente e le sento tutte come se fossero state pronunciate, perché bussano con insistenza alla porta del mio cuore e della mia coscienza. Se c'è da far del bene, se si può tendere una mano, rischiarare un sorriso, pronunciare una parola di conforto, dare una carezza è meglio farlo subito, non rinviare nulla al domani. Il bene intentato è un bene perduto. Il 'gusto' di amare – mi aveva spiegato il cardinal Tonini – è una sensazione ineguagliabile di pienezza della condizione umana, il modo più autentico dell'essere e dell'esserci. La vera felicità è una felicità vuota, priva di tornaconti interessati: vivere la gioia del bene, non pentirsi mai di farne abbastanza, guardare agli altri come a un dono, un completamento, un fine. Leggere nei sentimenti inespressi la potenzialità del presente, affinché ogni gesto che ci attende si faccia carico del loro riscatto. E fare tutto questo perché dal bene germogli altro bene, donare per insegnare che l'esempio dimostra più di ogni dottrina, il gesto sa educare meglio di ogni convincente spiegazione. Nel lungo cammino dell'umanità si ricompone il bene e il male di ciascuno di noi, tutto è importante affinché di ogni singola esistenza nulla sia dimenticato e la vita stessa si tramandi come grande speranza collettiva. Chi viene dopo ha la possibilità di essere migliore.

    (FONTE: Feeria, 59 /2021/1), pp. 10-13)


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