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    Riunioni di verifica



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1968-08/09-60)

    NECESSITÀ

    Affermare la necessità di lavorare in équipe, è ricorrere ad un facile luogo comune.
    L'argomento è scontato; ma profondamente vero ed esistenziale. Per forza di cose, e per fortuna, si è in tanti a dividere responsabilità e compiti.
    Un lavoro educativo condotto su rapporti individualistici, a genio personale, è destinato al fallimento: è la casa costruita sulla sabbia. L'eccezione, che salva l'intervento di forti personalità di educatori, conferma, anche qui, la regola.
    Ma un lavoro in équipe presuppone necessariamente l'esistenza di una comunità: viva, organica, compaginata, sintonizzata. Trasformare i molti collaboratori in comunità operativa diventa quindi problema di vita o di morte.
    La comunità può avere un volto esteriore giuridico perfetto, può rispondere ad una sua funzionalità burocratica. E non esistere affatto interiormente.
    Non c'è comunità solo perché ci si ritrova assieme in momenti segnati della giornata; o perché c'è un'intesa di fondo di competenza di presenza e di servizi; o perché non ci sono grossi elementi di discrepanza. Questo è solo il volto esteriore della comunità: può manifestare una realtà interiore positiva, o soltanto – tristemente – celare un'assenza totale o parziale di fede-speranza-carità comunitaria, sotto il paravento di un volto imbellettato.
    C'è comunità quando ci si ama, veramente; si crede agli stessi ideali; c'è comunione di idee, di intenti, di motivazioni: quando c'è scambio di pareri, dialogo; per una costruzione comune della verità incarnata nel momento storico.
    I mezzi di realizzazione sono molti. Ne indichiamo uno:
    la ripetizione frequente, lungo l'arco dell'anno, di riunioni di verifica-ripensamento, a livello di comunità, per una continua circolazione di idee.
    • È necessario costruire assieme, per eseguire assieme; verificare assieme, per programmare assieme.
    Nessuno, penso, nonostante il posto occupato, può arrogarsi la capacità inappellabile di analisi della situazione o il monopolio della verità.
    La nostra capacità conoscitiva coglie la realizzazione di ogni azione: non l'intenzionalità dell'agente.
    Lo scambio dei fini proposti, delle intenzioni, delle motivazioni, porta ad una comprensione reciproca, all'accettazione della buona fede altrui, al lento adeguamento – costruito assieme nell'intesa e nella verifica – tra il fine da raggiungere e la tecnica per raggiungerlo.
     L'arricchimento è reciproco: si aprono nuovi orizzonti e possibilità d'intervento forse mai intravviste. Ogni cosa viene ridimensionata o esaltata.
    La realtà, prima sfuocata per l'angolazione ristretta perché personale, appare in tutta la sua portata.
    Una programmazione globale non può quindi non tener conto dell'esigenza di riunioni di ripensamento, a ciascuno dei tre livelli in cui si sviluppa ogni realizzazione:
    a) fase di previsione-programmazione (per studiare assieme il da farsi);
    b) fase di esecuzione
    (per agire assieme, comunitariamente; per conoscere il collaboratore, le sue tecniche, i suoi intenti, i suoi piani di sviluppo, per ovviare ogni suo eventuale limite);
    c) fase di revisione
    (per uno sguardo retrospettivo sul già fatto, per analizzare il come è stato realizzato: è impensabile – anche se purtroppo frequente – accontentarci di archiviare la realizzazione, senza averla prima passata al vaglio di una critica attenta e coraggiosa. Evidentemente, ogni realizzazione conclusa – sia perfettamente riuscita, sia deficitaria – è ininfluenzabile: ha il suo volto definitivo; ma il domani è figlio dell'oggi: esso è nelle nostre mani, più pronte, più disponibili, se ricche della riflessione sull'esperienza passata).

    DIFFICOLTÀ

    Sulla impostazione teorica, è facile trovarsi tutti d'accordo. Il nostro alibi è la pratica: la traduzione dal dire al fare. Le difficoltà che affiorano possono relegare i progetti più affascinanti tra i sogni irrealizzabili. Conviene prevederle, per prevenirle.

    a) La mancanza di tempo

    È constatazione immediata: ci sono tante cose da fare. Ma non si lascia un lavoro a metà, perché un altro incombe; e quando ci si trova al bivio tra due impegni precisi è saggio scegliere quello che è pastoralmente più efficace, anche se è meno visibile e non strappa l'applauso immediato.
    Il tempo per una serie di riunioni lo si trova, unicamente se si crede alla loro urgenza e si ha il coraggio di formulare una gerarchia di valori. Del resto, riunioni del genere, possono opportunamente sostituire, talvolta, pratiche (con calendario preciso nel ritmo della giornata) che per ripetizione standardizzata di metodi e contenuti, lasciano facilmente il tempo che trovano.

    b) La mancanza di abitudine

    La prima difficoltà si àncora soprattutto a questa: il ritrovarci per programmare e revisionare assieme, esula un po' dai nostri stili abituali di lavoro.
    Ci si butta a capofitto nella mischia delle cose da fare, le maniche rimboccate e il cuore pieno di ardore. Purché ci si lasci lavorare. In due (e quando poi è una comunità che deve impegnarsi...) è difficile: si preferisce dividere l'incombenza, piuttosto che affrontarla assieme: si alzano confini di competenza, invece di afferrare a quattro mani lo strumento di lavoro. L'azione in équipe esige la rinuncia all'individualismo, l'accettazione incondizionata del controllo, la presenza, a pieno diritto, dell'altro, il coraggio di voltare ogni tanto lo sguardo indietro.

    c) Il timore di discussioni

    Frequentemente i pareri sono discorsi: talvolta fortemente discordi.
    La riunione sfocia facilmente in discussione, accalorata, magari violenta.
    Per salvare la carità, si dice, è meglio... cambiare discorso.
    La tentazione di accettare l'esteriore, porta ad accontentarsi di una carità superficiale, che è assenza d'incontro (e solo per questo, di scontro) e convivenza su piani differenti. Il timore di intaccare pareri superiori, invita ad accantonare motivazioni e problemi, facendo decadere l'autorità dal ruolo di servizio al bene comune, a quello di paravento del proprio intransigente pensiero.
    La carità e l'obbedienza esigono, almeno ci pare, proprio una convergenza di tutta la comunità su di un piano di azione, anche se la convergenza è difficile e si nutre di accentuate divergenze, risolvibili (per non ridurre a marginali i loro sostenitori) solo mediante ripetuti scambi di parere.

    MODO DI CONDUZIONE

    Il modo di conduzione di queste riunioni di verifica potrebbe essere sintetizzato in una parola: capacità di dialogo.
    Ci pare opportuno però sviluppare alcuni concetti, per rendere meno generico un termine ormai abusato.

    a) Distinzione tra persona e fatto

    Nel valutare un fatto, per programmare o per revisionare, si pone facilmente, sul suo sfondo, il volto ben preciso di una persona. Per cui, o ci si trova condizionati nella ricerca dei fattori di analisi, o colui che si sente chiamato in causa impegna tutta la sua dialettica per giustificarsi, preoccupato soprattutto di far assumere al fatto gli aspetti favorevoli alla sua persona.
    Certo, così, nessuna valutazione può diventare oggettiva.
    È necessario rompere lealmente questo rapporto.
    Le intenzioni dell'agente sono la tavola di giudizio che il Signore ha avocato a sé: nessuno quindi varca questi limiti.
    Sul tavolo deve rimanere il fatto, nella crudezza della sua realtà, dalla cui efficacia molti soggetti (coloro per i quali noi ci siamo posti al servizio) saranno condizionati.
    Non è onesto che essi portino il peso dei nostri malintesi e di una nostra eventuale erronea concezione di carità..
    La missione di servizio diventa vera, quando sappiamo spostare la nostra presenza aldilà della stessa realtà che abbiamo costruito, per lasciarla giudicare dalla storia.

    b) Disponibilità a cambiar idea

    La disponibilità alla verità che deve condizionare ogni riunione coincide con la nostra disponibilità a cambiar idea. Se entriamo in discussione con altri, con il proposito, consapevole o inconscio, di convertirlo, la discussione nasce morta.
    La verità ricercata assieme è frutto di un giusto equilibrio tra questi fattori:
    conoscenza approfondita del problema
    – capacità dialettica di presentazione di idee e di tecniche
    possibilità di motivare e giustificare ogni comportamento
    ascolto disinteressato e disponibile dell'altrui parere
    spersonalizzazione di ogni intervento
    accettazione in prospettiva di ogni possibile soluzione
    – ricerca e accettazione di cause e relazioni e loro coordinamento disinteressato.

    c) Coraggio di scavare a fondo il problema

    Ogni soluzione e valutazione, per essere oggettiva, realista e possibilista, deve essere frutto di un'attenta disanima. La fretta (di cui spesso sono intessute molte nostre riunioni, per tanti motivi contingenti) sposa necessariamente una superficialità di giudizio, più dannosa che inutile.
    In alcuni casi può essere opportuna la presenza (ascoltata!) di esperti che aiutino (senza sostituirsi) nella diagnosi.
    Il livello di risultato da ottenere o di impegno da programmare determinerà il grado di studio richiesto.

    d) Con presenza di tutti gli interessati

    Le riunioni non hanno soltanto lo scopo di tracciare un piano di azione i I più possibile adeguato alla realtà o di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, ma anche di coinvolgere la responsabilità e la presa di coscienza personale di tutti gli interessati: di costruire un lavoro di équipe.
    Per questo pare necessaria la presenza di tutti i responsabili. Coloro che sono assenti o marginali alla riunione saranno assenti o marginali anche alla realizzazione: l'idea non discussa e non sviscerata nelle motivazioni e nelle implicanze, ben difficilmente diverrà principio di azione cui credere e per cui giocare tempo e entusiasmo.
    I l disinteresse e la disistima, la moltiplicazione di critiche demolitrici, nasce dal disimpegno.

    e) Col più largo potere decisionale possibile, in base a statuti e regolamenti

    Una consultazione che approdi sempre al bene, poi vedremo, porta alla sfiducia, a rifiutare la responsabilità, a non credere a ciò che si fa. Per crederci, ci si deve sentire cointeressati, fino in fondo.
    Tutto questo, con il coraggio di rivedere anche qualche struttura, se non permette un respiro più aperto.

    CONCLUSIONE

    Costruire una comunità che sappia agire in sintonia di fede-speranza-carità è la prima indispensabile premessa di un'opera educativa, efficace a tutti i livelli.
    La comunità si costruisce soprattutto dall'interno, attraverso una continua circolazione di ideali e di valori: la pratica esteriore avvicina, ma non fonde.
    La posta in gioco è tale che merita ogni impegno, che chiede il coraggio di ripensare interventi e strutture.


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