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    Punti fermi per una programmazione valida



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1969-89-43)

    UN QUADRO DELLA SITUAZIONE

    Nella conduzione di ogni impegno pastorale, il problema della programmazione educativa, ha già decisamente piantato le sue radici, un po' dappertutto.
    Ci siamo accorti - troppo spesso soltanto sotto il peso di un certo genericismo fallimentare - che non si può più vivere alla giornata. Un piano in prospettiva diventa questione di vita o di morte: per la piccola ditta e per la grande industria che non vogliano ritrovarsi con le mani vuote ed un pugno di cambiali da assolvere; per ogni comunità educativa che abbia il coraggio di chiedersi se urgente è unicamente sopravvivere o costruire invece uomini-cristiani in pienezza.
    D'accordo: chi ripensa con malcelata nostalgia, al passato, scopre che tante cose sono state realizzate, che tanta strada è stata percorsa, e decisamente in avanti, anche senza dedicare un sacco di tempo prezioso alle sedute di studio. Il primo tempo dello studio era, si dice, il tirarsi su le maniche con buona volontà e fare qualcosa.
    Forse è tutto profondamente vero. Forse una simile istanza può essere densa di carica costruttiva se argina la nostra tentazione di moltiplicare le parole, diminuendo in proporzione i fatti. D'altra parte però la ricerca e la scoperta di formule più qualificanti non è mai contestazione al passato, non può essere il tracciare una linea di demarcazione fra il tutto vero e il tutto falso. È solo risposta devota ai segni dei tempi (dove un termine abusato diventa carico di valori come: risposta alla realtà di oggi, alle urgenze di oggi, ricerca e valorizzazione di metodologie più produttive, rispetto alla presenza di salvezza di Cristo che si fa storia nell'oggi). E tutto ciò non è poco. Di certo.
    La programmazione educativa interessa un po' tutti i settori e i livelli della azione pastorale. Un altro alibi pericoloso contro gli stimoli nuovi  - quelli che turbano un po' il quieto vivere di noi, persone arrivate - sta nell'accettare e condividere in pieno quanto viene presentato, magari con una certa criticità nei confronti dell'esperienza passata e... trovare immediatamente altri che dovrebbero tradurlo in pratica, perché tutto sommato, «è importante, ma per quelli soltanto».
    Devono partire con un piano ben preciso:
    * i responsabili di un istituto educativo, a tutti i livelli (l'adattamento al livello «scuola media» non consiste nel rifiutare ciò che sembra più utile per il triennio superiore, ma nel cercare come rendere proporzionato ai propri ritmi, quanto è stato magari pensato e descritto per un diverso tipo di gruppo).
    * gli animatori di gruppi e movimenti giovanili (anche se una regia di ferro potrà nuocere gravemente alle spontanee dinamiche del gruppo: ma una cosa è la regia di ferro ed altro invece lo spontaneismo assoluto, il «disordine organizzato», l'arrembaggio al momento presente, senza prospettive né retrospettive);
    * gli operatori pastorali di parrocchie, centri giovanili, oratori (e forse, in questo settore, la strada da percorrere è ancora molta: troppo è lasciato allo stimolo del momento o, all'opposto, al calendario tradizionale. anche quando situazioni mutate lo hanno svuotato di ogni carica; perché sembra spesso assente un tentativo di coordinare lungo una direttrice ascendente, i vari interventi pastorali accettati o richiesti - e sarebbe troppo facile moltiplicare gli esempi a conforto di queste sottolineature);
    * e soprattutto coloro che hanno il ministero di correlazionare tutti questi movimenti (per non lasciarsi imbrigliare dalle suggestioni istintive di un luccichio di urgenze o per non redigere un macchinoso piano a priori che trova faticoso riscontro in una realtà che trabocca da tutti i pori).

    Note di Pastorale Giovanile, in una monografia apparsa sul numero 8-9 dello scorso anno, ha tentato di delineare alcune istanze relative alla programmazione. Purtroppo con due grossi handicaps: la necessità di restringere in poche pagine un discorso che chiedeva di essere molto più ampio (e non sempre, al bivio di una scelta, ciò che viene lasciato è il meno importante); e l'elezione di un angolo di prospettiva da cui partire: l'istituto di educazione (molti interessi sono stati tagliati fuori, a priori. L'invito a generalizzare le suggestioni proposte viene facilmente rifiutato quando lo sforzo di adattamento è troppo... improbo).
    Nel tentativo di verificare e di portare avanti le riflessioni contenute in quel numero della Rivista, la redazione ha convocato, nei giorni scorsi, un gruppo qualificato di amici, educatori e giovani. Con il contributo della loro esperienza, sono sorte queste note. Hanno la funzione di integrare e chiarificare lo studio sintetico già citato: ad esso quindi è facile il riferimento. Soprattutto mirano a confrontare i punti deboli di una certa prassi che può essere significativa (per l'alto campione esaminato) e le istanze più impegnative per una programmazione valida. I limiti, denunciati per il numero dello scorso anno, purtroppo, rimangono ancora.

    LE METE PRIMA DELLE TECNICHE

    Affermare che bisogna partire da una precisa chiarificazione di mete, prima di un'affannosa ricerca di mezzi e di tecniche, può sembrare la ripetizione di uno slogan scontato e invecchiato.
    Ed è vero.
    Ma purtroppo quello che è teoricamente pacifico, non lo è sempre, a fior di pratica.
    Nel campo della programmazione, prima di buttarsi a capofitto ad inventare nuove formule, a cercare come fare per realizzare prospettive accettabili, costruenti, funzionali, è necessario avere chiaro davanti agli occhi il punto di arrivo.
    La meta è: che cosa vogliamo ottenere, in concreto, quest'anno; dove vogliamo arrivare; cosa desideriamo che educatori e giovani assieme sappiano attuare.
    Il discorso è di fondo. Perché quando ci si trova con l'acqua alla gola, viene spontaneo afferrare la prima tavola che capita tra le mani, facendola oggetto di tutta la nostra fiducia.
    Quando un istituto non gira, i giovani vivono mordendo il freno quotidiano dell'orario, della disciplina, della scuola; quando un gruppo giovanile batte in testa, annaspa nella ricerca di qualcosa di positivo da fare; quando in un oratorio si è a contatto con grossi problemi da risolvere (gruppi sportivi che hanno tutt'altro in preventivo che preoccupazioni di ordine formativo, gruppi sociali consumativi e chiusi, gruppi di catechismo che si sfaldano, come neve al sole)... allora si conclude: qui bisogna cambiare qualcosa, altrimenti tutto crolla. Le avances si moltiplicano: si cercano formule nuove, diverse, più vive, più congeniali con i tempi cambiati. Lo zelo di realizzazione fa miracoli. Eppure, tanto presto, ci si ritrova al punto di partenza, con nuovi problemi alle porte. Il ritratto può essere esasperato: è messo in istato di punta, per farsi ascoltare.
    La strada da battere è un'altra, forse: a tempi più lunghi, ma più sicura. Ne indico una traccia, a titolo esemplificativo. Anche se il freddo schematismo non è la tattica più qualificante da trasportare di peso nella realtà.

    - Analisi delle situazioni
    La politica dello struzzo, che nasconde il capo nel momento del pericolo, non salva nessuna situazione.
    A tavolino, con freddezza, criticità e disponibilità (eventualmente mediante l'ausilio di tecniche proporzionate: inchieste, sondaggi, rilevamenti statistici...: la realtà risulta sempre più complessa di quanto riusciamo ad immaginarla) vanno elencati, tutti uno dopo l'altro, senza alcuna preoccupazione di ordine e di classificazione, i fenomeni possibili relativi alla situazione da esaminare, mediante un lavoro di ricerca, evidentemente, condotto in équipe: cento occhi vedono meglio di uno. A titolo di esempio prendiamo in considerazione lungo lo sviluppo di queste riflessioni un fatto: i gruppi di catechismo, in un oratorio, non funzionano; ci si vuole porre rimedio, si desidera programmare qualcosa per rimetterli in sesto. Gli interessati (responsabili pastorali, catechisti, giovani) preparano un elenco di tutti i fenomeni: i ragazzi arrivano tardi, disturbano volentieri, il catechista fuma in classe, esige che scendano dalla classe in fila ed in silenzio ed ha come risposta il caos, ecc.
    La fenomenologia della situazione non è che il primo passo.

    - Collegamento dei fenomeni
    Per fare oggetto di riflessione questa panoramica informe è necessario costruire in essa un certo ordine, tentare i primi collegamenti, unificando gli aspetti complementari (la discesa a... ruota libera di tutte le classi di catechismo, con la lunghezza delle scale da percorrere, per esempio). Il mosaico assume già alcune sfumature interessanti: non è più un'accozzaglia di fatti negativi, capace di spaventare e scoraggiare per il peso eccessivo, ma una catena di fenomeni in cui incominciano ad evidenziarsi i più e i meno rilevanti, quelli collegati ad altri e quelli isolati, «strani», i presunti e i reali.

    - Ricerca delle cause
    L'intervento educativo ha bisogno ancora di un ulteriore coordinamento, per potersi muovere con sicurezza, senza disperdersi nel generico. Questa serie di fenomeni sottende una gamma di cause. Su di esse si spari a zero perché è qui il punto nevralgico! Il passaggio dai fenomeni alle cause è di capitale importanza. È perfettamente inutile, per esempio, insistere in tutti i toni perché i ragazzi delle classi di catechismo si impegnino in aula. La mancanza di impegno è il «fenomeno»: il punto da colpire è la «causa». Forse il disimpegno dipende da una metodologia superata, dal contenuto della catechesi, dall'impreparazione del catechista, dalla sua «disinvoltura»... È in questo contesto che bisogna intervenire.
    Anche le cause vanno soppesate con attenzione. Di esse alcune sono decisamente secondarie, altre concomitanti, altre invece sono le principali, quelle che fondano tutto il resto. Il disordine, a conti fatti, dipende soprattutto dalle ultime. Non è quindi sufficiente preparare un elenco amorfo di cause: vanno indicate secondo il peso di incidenza, con scalarità crescente. Per non correre il rischio di puntare tutte le armi educative su aspetti parziali, tralasciando o sottovalutando il centro del problema.
    Questo processo va fatto oggetto di attenti e ripetuti esami: la mobilità della realtà sposta facilmente l'asse centrale; perciò la verifica cui la programmazione viene sottoposta periodicamente, può determinare nuove urgenze, sostitutive o integrative delle precedenti. La fissità di metodi e tecniche svuota molto presto, quanto prima era oggettivamente di notevole carica formativa.

    - Ricerca delle mete
    La dinamica della programmazione giunge così al movimento centrale. Situate e sintetizzate le cause non è opportuno passare subito allo studio dei mezzi per risolvere le difficoltà. Rimane intermedio un altro momento: la ricerca delle mete.
    Tutta la comunità educativa, una volta analizzata la situazione, deve essere protesa a chiarirsi il punto d'arrivo cui voler tendere, nel preciso istante di azione e in tensione di prospettiva.
    I mezzi saranno ricercati in proporzione alla meta convenuta. Questo vuol dire, tutto sommato: le mete prima delle tecniche.
    Il discorso sulle mete è di notevole densità; merita di essere sviluppato ulteriormente.
    Ora è sufficiente ricordare in sintesi gli aspetti che lo debbono caratterizzare:
    * le mete vanno ricercate in atteggiamento possibilista, mediante una fusione attenta di spontaneo, reale e ideale;
    * le mete vanno ricercate da tutta la comunità educativa perché le senta congeniali alle proprie urgenze e possibilità:
    * le mete vanno ricercate tenendo come complementari i due princìpi della scalarità (la perfezione è il punto d'arrivo, non quello di partenza) e della completezza (ogni intervento per essere formativo, costruttivo di uomini-cristiani, deve tener conto di precisi fattori: l'intensità può essere proporzionata, ma l'efficacia, anche nel poco, esige completezza).

    - Ricerca delle tecniche
    Ora - e soltanto ora - è il momento di passare in rassegna i possibili modi di intervento. Quando è chiaro donde si è costretti a partire e dove si vuole arrivare, la ricerca dei mezzi riesce facile, adeguata, stimolante. L'inventiva pastorale ha largo spazio.
    Ma non corre il rischio del qualunquismo. Proprio perché è sicuramente radicata alla situazione storica di origine e sa con precisione ove mirare. Anche la verifica ha il gioco facilitato. Nessun mezzo è un assoluto: ciascuno è funzionale alla meta. Se, dopo la necessaria sperimentazione, nel punto critico dell'efficacia, si è dimostrato inetto, improduttivo, e evidente il rifiuto. Ed è spontanea la nuova ricerca. [1]
    Il fare non diventa un «fare tanto per fare» ma una continua tensione di adeguatezza, disponibilità ed efficienza educativa.

    Una meta possibilista

    Quando il punto d'arrivo è troppo lontano si respira una percezione inconscia di impossibilità e di disinteresse. Diventa spontaneo incrociare le braccia e piantare tutto.
    Un atteggiamento del genere è molto pericoloso quando è trasportato in campo educativo. I giovani sentono che il tutto è sproporzionato alle loro forze: ogni impegno è a vuoto, inutile. S'ammoscia la tensione meravigliosa del desiderio di raggiungere una meta fascinosa: difficile ma a portata di mano, faticosa ma capace di appagare ogni sforzo. Gli educatori sanno di chiedere troppo: i loro interventi non sono convinti, ma solo professionali. Manca quella fiduciosa speranza, capace di far fare miracoli.
    L'assioma «per ottenere 50 bisogna puntare a 100», merita di essere demitizzato, quando la sproporzione è eccessiva.
    La proposta educativa, per essere stimolante, ha bisogno perciò di articolarsi in termini progressivi, accessibili, in sottomète facilmente conquistabili, per riprendere il fiato e l'entusiasmo, prima della nuova strada da percorrere.
    Il punto di «possibilità» non può evidentemente essere lasciato al caso o commisurarsi con l'entusiasmo o la depressione momentanea della comunità educativa.
    È frutto di un vero processo matematico: è la sommatoria di fattori che, pur essendo fluttuanti perché vivi, possono essere identificati abbastanza agevolmente.
    Il possibile è la sintesi del reale, dello spontaneo e dell'ideale; è quindi l'integrazione di questi tre quadri:
    - il reale è la constatazione dei fatti, il più possibile oggettiva e libera delle incrostazioni mentali di coloro che li analizzano. Il reale è una lettura dei segni dei tempi giovanili, delle situazioni specifiche dell'ambiente, delle suggestioni del contesto sociale;
    - l'ideale è lo studio teorico delle istanze educative così come sono espresse, per esempio, nei documenti conciliari (troppo poche volte il Gravissimum educationis è la piattaforma di una programmazione...), nello spirito dell'Istituto, del Fondatore, della Chiesa locale, ecc., nelle urgenze che l'ambiente concreto di vita pone ai giovani. L'ideale è tutto quel patrimonio culturale (nel senso sociologico del termine) che noi vorremmo fosse ben assimilato dai «nostri» giovani;
    - lo spontaneo è il germogliare delle richieste, degli interessi, delle tendenze, dei desideri che possono venire a coloro che sono dentro il fatto, senza aver ancora una conoscenza approfondita dell'ideale: tutto il fermento che pullula all'interno del mondo degli educatori e del mondo giovanile.
    Il «possibile» è quindi intermedio tra il realismo e lo spontaneismo assoluto e l'idealismo acritico. Non si getta a corpo morto nell'attuazione di una prospettiva educativa, solo perché ha scoperto che è la migliore, quella più consona allo spirito e alle istanze conciliari. Né lascia decantare pigramente ogni proposta nuova, perché la realtà o il rispetto alla spontaneità giovanile, non ne consente ancora una sufficiente realizzazione.
    Il reale, più lo spontaneo, più l'ideale, ci permettono di fare una programmazione valida, che rispetta e progredisce verso l'ideale e non cambia strada, non fa una deviazione o una involuzione; ma contemporaneamente è abbastanza prossima alla realtà e alle tendenze spontanee da poter essere attuata.
    Purtroppo, spesso, il «sistema» (la parola di moda è certamente espressiva. Vuol dire: l'impossibilità di porre in discussione alcuni dati di fatto - se i gruppi di catechismo non funzionano non è forse perché è superato il tipo di catechesi? -; l'ingranaggio «scuola» che schiaccia e condiziona ogni altra iniziativa; il blocco economico che detta legge; i fini subordinati alle strutture; il servizio che diventa autoritarismo o paternalismo. Per non fare che alcuni esempi, tra i più ripetuti) non permette una elasticità come quella postulata dalle riflessioni precedenti.
    Il sistema, nel casellario, fa parte del reale. Ha quindi tutto il suo peso positivo nella stesura della programmazione. Non è fatto oggetto di contestazione a priori con la scusa che blocca lo sviluppo dell'ideale: fa parte della storia, ci piaccia o no. Non può essere buttato, facendo d'ogni erba un fascio.
    Ma non è un assoluto. Non può essere la norma dell'agire, se è vero il dono della libertà dei figli di Dio che il mistero pasquale ci ha portato.
    La sua densità, anche soffocante, va immersa nel confronto dell'ideale e dello spontaneo, per ridimensionarla, con coraggio, a tutti i livelli. Non è rifiuto. Ma utilizzazione libera e prudente, nella costruzione del bene comune reale.
    Questo mi pare possa significare «È meglio ubbidire a Dio, prima che agli uomini». Il termine di paragone è la persona, quella concretissima dei giovani che ci stanno di fronte, l'unico vero assoluto in questione, perché ogni persona è «uno per cui Dio è morto».

    Una meta completa

    Scalarità di mete non comporta incompletezza e parzialità, né tanto meno, qualunquismo educativo.
    Ogni passo, anche il più breve e incerto, per non disperdersi nel nulla, deve essere passo in avanti, verso la meta finale. Chi pone il secondo mattone, deve innestarsi sul primo, per non vanificare se stesso e gli altri. Molte volte, su Note di Pastorale Giovanile, è stato avanzato il discorso delle tre dimensioni della Pastorale. È stato cioè affermato (queste riflessioni stanno diventando abbastanza comuni tra gli operatori della pastorale giovanile italiana) che non si riesce a fare opera costruttiva nel settore della educazione religiosa, se non si fa un cammino unidirezionale ma compaginato lungo le tre direttrici della
    coscienza = catechesi
    attività = liturgia
    socialità = comunione ecclesiale.
    L'uomo è formato, solo quando riesce a costruirsi una visione equilibrata delle cose, sa tradurre in attività questa sua mentalità e si inserisce in un processo di socializzazione sia nella riflessione che nella azione: la formazione quindi è frutto di contatto con gli altri, sul piano interiore ed esteriore, di riflessione e di traduzione in azioni.
    Il cristianesimo affonda le sue radici nell'umano. La pastorale mira quindi a formare una nuova visione delle cose «pasquale» (la mentalità di fede), che sa immediatamente tradursi in un processo di attività liturgiche in cui questa visione si frammenta e si compagina (dalle cose banali di tutti i giorni, fatte in movimento pasquale, alle celebrazioni liturgiche che diventano vero punto di convergenza di questo quotidiano passaggio). Il tutto però in consapevole rapporto con gli altri, nella Chiesa che è essenzialmente comunione. Per formare un cristiano ci si deve preoccupare di intervenire su tutti e tre i settori, in coordinato equilibrio: l'esperienza riflessa dell'amicizia, della comunità, diventa il momento più specifico della attività liturgica (dallo sport alla messa), in un tentativo continuo di adeguare la propria visione delle cose al Vangelo.
    Questo cammino organico nei tre movimenti, fa rientrare anche la distinzione pratica tra naturale e soprannaturale.
    Il soprannaturale fiorisce sul naturale, in tutti i settori educativi, dalla formazione culturale si passa alla visione pasquale delle cose; dallo sport alla liturgia; dall'esperienza di amicizia alla percezione concreta di Chiesa. Non esiste l'educatore che deve preoccuparsi solo dei valori naturali (disciplina e scuola, e basta) e quello specializzato nei valori soprannaturali (il tecnico della liturgia). Ogni educatore incontra l'uomo, in una delle sue dimensioni, ma l'uomo storico, in cui il naturale sbocca ormai spontaneamente nel soprannaturale: l'incaricato della liturgia non potrà, per esempio, che partire dallo sport (dai valori umani), proprio per dare sapore di verità alla celebrazione liturgica.[2]
    Il discorso ora diventa immediatamente pratico. Se quanto è stato indicato ha riscontro nella realtà della situazione umana e cristiana, una programmazione che voglia essere valida, deve necessariamente tenerne conto. Non è sufficiente ricercare quali mete perseguire, in rispetto ad un possibile concreto. Le mete, pur nella loro limitatezza, hanno bisogno di completezza, per non correre il rischio di costruire buchi in acqua. Va cercato cioè qualche punto d'arrivo in ciascuno di questi tre settori, giocando di equilibrio e di reciproca dipendenza. Il corpo umano concresce in armonico sviluppo: non dedica i primi anni alla maturazione dell'apparato osseo, i secondi a quello circolatorio e gli altri a quello cerebro-spinale.
    I giovani, al termine di un anno di attività, saranno un po' più uomini e un po' più cristiani, solamente se tutta la comunità educativa ha tentato di far progredire il discorso sulla formazione della coscienza (in genere è il settore più battuto: scuola, catechesi, circolazione diretta e indiretta dei valori, incontri, conferenzine, ecc.), in quello della attività (impegno a far vivere immediatamente le cose apprese in gesti, in azioni: dallo sport alla partecipazione alla Messa, in profondo collegamento) e in quello della comunione, dell'associazionismo, per usare una parola inadeguata ma forse più recepibile (un associazionismo che non sia soltanto mezzo per far funzionare abbastanza bene l'istituto o il centro giovanile o la parrocchia, nel bollore della contestazione, contenti che nessuno si lamenti, perché da noi c'è democrazia! La comunione è prima di tutto l'assaporamento della socialità, il clima «con gli altri» in cui è possibile assimilare i contenuti della catechesi ed esperimentare il significato della liturgia).
    Il problema è quindi, tutto sommato, duplice:
    * la programmazione deve tener conto di tutti e tre i settori, mettendo sul tappeto qualcosa in ciascuno di essi, per interessare tutto l'uomo;
    * la programmazione deve far ruotare questi tre settori in profonda reciprocità, perché non sono tre campi da cintare per salvare competenze individuali (colui che si interessa di scuola non mette il naso nelle faccende liturgiche, perché il tecnico della liturgia non sconfini nel suo campo!), ma l'unico modo per incontrare l'uomo: la distinzione è puramente nominale, come ogni distinzione che ha per oggetto una persona viva. L'analisi ha unicamente una funzione didattica.
    A completare il quadro, è opportuno aggiungere una ulteriore sottolineatura che pare interessante.
    Nell'ordinare le mete vanno tenuti in attenta considerazione:

    - il fattore «gerarchia»
    Le molte urgenze non possono avere uno stesso peso. Vanno poste in una precisa scala di valori (il cui contenuto è oggettivo e rispecchia una scelta ideologica e religiosa, decisa e condotta innanzi senza compromessi) e di funzionalità (ma con tutto il gioco di soggettività che sorge dalla mobilità delle situazioni, delle persone, delle suggestioni). La gerarchia delle mete tiene profondo conto del conflitto tra valori perenni e valori temporali di cui parla la Gaudium et Spes (n. 4).

    - il fattore «subordinazione»
    Un esempio di stile superato (per fortuna!) può aiutare a chiarire: il generale navigato sa che la conquista di alcuni punti strategici, fa presto crollare ogni resistenza del nemico.
    Vi sono nel piano educativo alcuni punti nevralgici: la loro conquista comporta un'efflorescenza di altre conquiste parziali. Sarebbe inefficiente l'affannarsi attorno alle situazioni parziali, assicurandole una dopo l'altra al movimento educativo; mentre tutte rimarrebbero consolidate e acquisite in blocco appena integrato nella personalità degli educandi il perno del sistema.
    È saggezza educativa il ricercare quindi quali siano i punti chiave; e fare essi oggetto di tutte le premure. Il resto verrà di conseguenza.

    Coinvolgendo tutta la comunità

    Una programmazione diventa valida solo quando in essa si sente coinvolta tutta la comunità educativa reale: educatori, giovani, contesto socio-culturale nelle sue espressioni più vive e sensibili (genitori, exallievi, amici, ecc.).
    Nessun lavoro educativo può essere lasciato allo zelo e alla buona volontà di pochi, fatti magari oggetto del sorriso benevolo di chi la sa lunga e ha già catalogato nelle cassettiere dell'esperienza, una serie di fuochi di entusiasmo presto smorzati e scomparsi.
    Non è questione di maggiore o minore produttività, ma di vita o di morte: l'espressione retorica morde nel vivo del problema. L'esperienza di ogni giorno lo comprova a dismisura.
    Coinvolgere nella programmazione tutta la comunità, vuol dire soprattutto due cose, complementari tra di loro.

    - L'impegno educativo va sentito come corresponsabilità in solido da tutti: tutti ci sono dentro, tutti hanno un ruolo da comprimari.
    L'educazione non è benigna donazione di alcuni verso altri: è lavoro continuo comune. Tutto il gruppo degli educatori vive gomito a gomito con le urgenze educative che affiorano nel gruppo dei giovani.
    Giovani ed educatori sono affiancati dal contributo di sensibilità del gruppo dei genitori, degli ex-allievi, degli amici, legati da vincoli ecclesiali all'impegno educativo. Anche per essi andranno studiate strutture che ne rendano possibile l'intervento, ascoltato e qualificante.
    Questa idea va facendosi strada: lentamente, perché cozza contro mentalità individualistiche, per formazione o deformazione professionale, ma con sicura progressione. Ma non è ancora tutto.

    - La programmazione non può mettere sul tappeto soltanto le mete e i mezzi per rendere funzionale il gruppo dei giovani. Sul tappeto, criticamente, va posta anche tutta la comunità degli educatori, nella ricerca di strutture, tecniche, punti d'arrivo, che la rendano capace di iniziare, con disponibilità, un vero dialogo educativo con i giovani.
    Troppo spesso, l'impegno di un gruppetto di «arrabbiati» (di persone che ci credono davvero e che sanno dove vogliono arrivare) si frantuma, contro il muro dell'impenetrabilità del «sistema» degli educatori.
    È stato programmato tutto, sono stati studiati i minimi particolari ma l'ingranaggio si è presto grippato. Manca l'opportuna lubrificazione. Manca un gruppo di educatori capaci di lasciarsi convertire, fino in fondo, per essere davvero «comunità educativa». Il passo è complicato e rischioso. Ma il secondo gradino sarà percorso solo quando è stato affrontato il primo.
    Programmare vuol dire quindi studiare mete e mezzi per far funzionare il gruppo dei giovani e studiare con priorità logica e cronologica, mete mezzi e strutture per rendere adeguato il gruppo degli educatori. Solo così la programmazione sarà veramente a livello di tutta la comunità.

    IL PROCESSO DI VERIFICA

    L'ingranaggio educativo non può procedere d'inerzia. Non è una macchina che richiede impegno e attenzione in fase di impostazione, ma che permette sogni tranquilli una volta avviata.
    Vi sono dentro persone vive, una realtà fluttuante, dinamica. La novità e l'inventiva, la scoperta e il ricambio, l'incostanza di ritmo, sono il suo modulo di viaggio e di lavoro.
    La programmazione, anche la più dettagliata, concreta, rispondente, ha bisogno di essere continuamente verificata. Non solo al termine dell'anno, per riscontrarne pregi e difetti, per «fare esperienza» per il successivo impegno. Ma lungo l'arco per un'adeguazione sempre pronta alla situazione in movimento.
    Il processo di verifica è un po' la chiave di volta della programmazione, lo strumento sicuro di efficienza. Soprattutto se è sentito come compito di tutta la comunità educativa: educatori e giovani, genitori, ex-allievi, amici.
    Per integrare quanto è stato scritto sul numero di Note di Pastorale Giovanile già citato in apertura (Le riunioni di verifica, 1968/8-9) pare opportuno aggiungere alcune sottolineature.

    Demitizzare le prime impressioni

    Quando si parte, anche con il minimo di entusiasmo capace di rompere l'inerzia tutto sembra funzionare a pennello. L'impegno, l'ardore, la collaborazione, smorzano i punti di frattura.
    Poi viene, inesorabilmente, il periodo di stanca. Né l'uno né l'altro sono misura espressiva per una valutazione costruttiva: il primo perché troppo ricco di entusiasmo, il secondo perché troppo inficiato di depressione. Il parametro è «il dopo»: il ritmo tranquillo, banale, del quotidiano. Lì ci si può rendere conto bene se la prospettiva lanciata era adeguata, stimolante, efficiente; se non lo era affatto o se solo parzialmente.
    La riunione di verifica ha questa funzione: analizzare il ritmo di cammino, quando questo ha raggiunto la battuta regolare. E prendere decisioni, in sintonia. Va quindi, essa stessa (e prima di ogni altra cosa) messa in programma. E al tempo giusto. E con ripetizione graduale.

    La ricerca dei condizionamenti

    Tante volte ci accorgiamo con disappunto che una serie di iniziative studiate nei minimi particolari sono sfociate in un desolante naufragio.
    Qualche altra volta invece, qualcosa di raffazzonato sul momento, ha fornito risultati consolantissimi.
    Nel sottofondo della realtà si muove, con ritmo difficilmente controllabile, una batteria di condizionamenti. Non solo quelli grossi, facilmente riscontrabili: il «sistema», una certa stanchezza educativa, il clima teso della nostra società, ecc. Ma soprattutto quelli locali, legati cioè alle stimolazioni di cui ogni persona e ogni gruppo di persone è denso: una certa saturazione, qualche interesse stranamente esasperato, un rifiuto preconscio di una persona, l'innuenza positiva o negativa di un leaders, ecc.
    Il fallimento o il funzionamento di quanto è stato programmato può dipendere in gran parte da questi elementi, che filigranano l'arco della giornata.
    Se non sono presi in considerazione, si corre il rischio di moltiplicare stimoli sempre meno recepibili (di fronte ad iniziative fallimentari, se ne cercano di nuove; o si esercita una pressione autoritativa sulla comunità, perché si tratta di «cose importanti»...). O si codifica in assoluto come accettata e efficiente una certa proposta, mentre la sua efficacia era relativa a qualcosa di più profondo della proposta stessa.
    Le riunioni di verifica hanno anche lo scopo di costringere ad una ricerca, disponibile e collegiale, di questi condizionamenti.
    Dalla loro chiarificazione, dipende la produttività di tutto il resto.

    Il tempo del cambio della guardia

    Qualche volta, a metà anno, ci si accorge che si sta battendo una strada sbagliata, o si teme di battere una strada sbagliata, perché ogni intervento educativo si frantuma contro un muro di impenetrabilità. Si può allora prendere la decisione, certo sofferta, di sopravvivere fino al termine dell'anno nell'attesa di cambiare le carte in tavola, dopo. Eppure non manca la convinzione che lo spazio di formazione è talmente breve, che va vissuto in intensità nell'oggi e non disperso, in attesa di tempi migliori.
    Quando le cose stanno così la verifica dovrebbe invece prendere in esame una doppia possibilità:
    È tempo di cambiare sistema, programma: le cose non girano, perché qualcosa si è grippato: forse dall'inizio, forse a metà percorso. Non serve rimpiangere. Bisogna cambiare, con decisione e coraggio. Lo chiedono i giovani che sono la nostra unità di misura più sconvolgente e impegnativa.
    - Bisogna andare avanti con decisione e tentare di scoprire ed eliminare ciò che ostacola il procedere. È la soluzione contraria alla precedente. L'impasse non è nel piano educativo; è in qualche elemento contingente. La prospettiva è valida, la programmazione è efficiente. Va quindi continuata, portata alla meta. Ciò che va rimosso è quanto fa da freno.
    Talvolta le due possibilità sono esclusive: o una strada o l'altra. La comunità educativa, in fase di revisione parziale, è chiamata a decidere, con profonda corresponsabilità: il passo è sempre rischioso.
    Qualche altra volta, i due momenti vanno integrati. Ed è il caso più frequente. C'è qualcosa da cambiare e qualcosa da intensificare: c'è da spingere e da eliminare. Forse c'è soprattutto da neutralizzare o potenziare il campo magnetico dei condizionamenti.
    Solo così, ogni passo è in avanti. Anche se faticoso, lento, strascicata in un terreno insidioso e viscido, pieno di compromessi, di irenismi, di egoismi personali o di classe. Ma questo è il ritmo della vita: la lentezza e la faticosità.
    L'educatore (e il gruppo degli educatori) lo sa e si adegua, pagando continuamente di persona.
    Per costruire, lentamente e faticosamente, nell'oggi, i «cieli nuovi e la terra nuova» di domani.

    NOTE

    [1] Evidentemente, i fattori in gioco, per determinare l'«efficienza» di una tecnica, sono molteplici: qualche accenno viene fatto nella terza parte di questo articolo. A volte un mezzo non è «improduttivo» in sé, ma per il fatto che è stato usato male, oppure in un contesto sbagliato, oppure perché i giovani liberamente non hanno risposto.
    [2] Queste riflessioni, espresse qui in sintesi, possono essere approfondite negli studi sull'argomento, apparsi precedentemente sulla Rivista:
    Negri, Tre aree di lavoro, tre obiettivi, tre energie per rendere postconciliare la nostra pastorale, 1968/3;
    Tonelli, Appunti per una pastorale giovanile nella Chiesa di oggi, 1969/1;
    Tonelli, Dai gruppi alla revisione di vita, 1969/6-7;
    Negri, Sport, sportivi e catechesi, in Catechesi, 1968/8-9D.


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