Riccardo Tonelli
(NPG 1971-01-32)
Da molte parti, si avanzano interrogativi circa la dimensione cristiana, l'essere «chiesa», di un gruppo giovanile.
* Qualsiasi gruppo di amici, per il fatto di realizzare la definizione sociologica di gruppo primario, è già, ipso facto, gruppo «ecclesiale»?
* Se non c'è coincidenza, dove sta la qualifica specifica? Che cosa ha in più il gruppo giovanile «ecclesiale»?
* Quali processi vanno «coltivati» con maggior attenzione, per salvare il gruppo-chiesa (l'accento va sulla costruzione di gruppo o sulla qualificazione di chiesa)?
A qualcuno potranno, questi interrogativi e altri simili, apparire superflui: un puro gioco verbale. Facciamo, lavoriamo, non stiamo con le mani in mano...: è tutto.
Non ci sembra atteggiamento da «educatori».
I giovani vivono il momento, con intensità e totalità: difficilmente avvertono la dipendenza con la storia e la proiezione verso un futuro ottimale. L'educatore fa da correttivo, se vuole essere di vero servizio.
Il giovane vive; ha l'esperienza di essere chiesa. E non si preoccupa d'altro.
L'educatore ha il compito gravoso di guidarlo ad una presa di coscienza sempre più attenta e ad una conseguente maturazione. Per la verità della propria giovanile esperienza.
Se queste cose sono vere in generale, lo sono in forma specifica per il gruppo che fa RdV.
La RdV è atto di fede, è circolazione della Parola di Dio. Appartiene quindi alla Chiesa, nel senso più denso del termine: come fatto e come diritto.
E l'esperienza ce lo ricorda, in altre prospettive. Molti gruppi giovanili che hanno iniziato a fare RdV, senza costruirsi «lo stato esistenziale» relativo, hanno piantato tutto.
Perché non si sono sentiti in sintonia con la verità della RdV. Perché non erano ancora sufficientemente quel gruppo-chiesa, a cui la Parola di Dio è donata.
La RdV «si fa» in gruppo: il gruppo è lo spazio naturale in cui è possibile realizzarla nel pieno delle sue movenze. RdV e gruppo sono in reciproco rapporto.
La RdV aiuta a fare gruppo in prospettiva cristiana, a «fare chiesa», unificando riflessione e azione, meditazione attenta sulla realtà e capacità di lettura dei misteri della fede, proprio perché tende alla formazione di personalità mature, in cui i valori siano a livello di motivazioni, pronte a scattare, nei momenti d'urto.
Ma la RdV ha contemporaneamente bisogno di un gruppo abbastanza omogeneo e articolato, in cui muoversi. Non si può partire da zero. Ci sono alcuni atteggiamenti di fondo, da cui non è possibile prescindere (anche se saranno portati a maturazione proprio per il frequente esercizio della RdV): ne scapiterebbe la «verità» della RdV. Se ne brucerebbe perciò in partenza la validità.
Questi atteggiamenti esigiti per l'autenticità della RdV pongono le loro radici su due piani distinti, anche se di fatto intersecati così profondamente nella realtà storica dell'uomo, da sapere difficilmente dove termina il primo per iniziare il secondo.
* La RdV è «atto di fede» di un gruppo: ha le movenze caratteristiche della vita di gruppo e quindi dipende da leggi tecniche, di «cultura umana»;
* ma è «atto di fede»: quindi esige una dimensione soprannaturale precisa: un clima, un tono in cui il gruppo viva la propria dinamica normale.
Un elemento non annulla l'altro. Anzi, non può essere realizzato autenticamente se non inserito nel precedente, in una linea di continuità verso il profondo («un Dio dal volto umano, per un uomo dal volto divino»: è un po' lo stile della RdV e di quella pastorale d'«incarnazione» così ben verbalizzata nel Documento-base per il rinnovamento della catechesi italiana).
Affermare quindi che la RdV preesige l'esistenza di un gruppo, significa, in sintesi, proprio questo: per poter fare RdV è necessario costruire un gruppo, sociologicamente definibile come primario, e che sia contemporaneamente permeato da un profondo atteggiamento di fede (nei termini concreti che verranno precisati più avanti).
Non sono due «compiti» in parallelo o due momenti cronologicamente differenti. invece una lenta ma simultanea maturazione, un clima che il gruppo deve assumere, pur nella consapevole certezza che sempre, a qualsiasi livello si possa essere giunti, si è in stato di ricerca, in marcia verso una meta che trascende, che è più avanti dei nostri passi più avanzati. Perché è quella comunione che fa il mistero della Chiesa.
Per chiarezza di metodo, le riflessioni che seguono saranno invece montate in parallelo: da una parte le note relative all'aspetto tecnico (problemi di dinamica di gruppo) e dall'altra quelle più specifiche al clima di fede, per la RdV.
Purtroppo, ci si muove in un terreno incolto. La dinamica di gruppo è una scienza giovane ed è nata in prospettive «consumistiche»: non ha ancora affrontato le implicanze psicologiche di una sua utilizzazione specificamente pastorale, per gruppi d'impegno cristiano.
PROSPETTIVE SOCIOLOGICHE
Il gruppo, per la RdV, è quello che i sociologi definiscono primario: il gruppo cioè in cui la collettività di persone che lo compongono è relativamente ristretta come numero e con relazioni frequenti, faccia a faccia, con profondi sentimenti di solidarietà del gruppo.
Solo in questo tipo di gruppo possono circolare quei modi abituali di intervenire, a livello di conversazione e di azione, che rendono possibile e vera la RdV: la sincerità e la capacità di dialogo, come dimensione di ogni battuta; l'accento su se stessi e non la fuga verso un impersonale anodino; il coraggio di lasciarsi coinvolgere e di «compromettersi», per tradurre in fatti quanto è stato maturato; l'accento abituale sulle persone, al di là degli schematismi freddi delle maschere sociali o dei personaggi (la difesa ad oltranza dietro il «biglietto da visita»).
Non è questo, certo, il contesto per un discorso approfondito sulla metodologia d'intervento per la «costruzione» di gruppi primari.
È sufficiente un'analisi veloce della definizione, per sottolineare gli elementi più caratteristici. Quasi a formare una galleria di atteggiamenti che se, da una parte, definiscono il gruppo primario, indicano, dall'altra, le linee di un intervento educativo, i centri da «coltivare».
Il numero
Un gruppo troppo numeroso sarà difficilmente affiatato. Quindi, anche la RdV ha esigenze di numero. I tecnici descrivono dei parametri ottimali: da un minimo di 8 ad un massimo di 12-15 elementi.
Il pensare al gruppo come servizio alla maturazione della persona (la persona come assoluto; e non il gruppo) comporta l'accettazione di un'elasticità maggiore.
Alcune situazioni contraddicono alle leggi più comuni della dinamica di gruppo. Non basta quindi la prospettiva pastorale o la buona volontà di fondo a rendere possibile ciò che è fisicamente impossibile. Così, è assurda una RdV fatta in gruppi enormi (50-60 elementi): diventa una realtà strascicata, impersonale, con equilibrio instabile tra attori e spettatori.
Ma entro i limiti del possibile, c'è spazio per il «meno riuscito», per il meno produttivo, per un impegno maggiore e un controllo più attento, tutto per permettere al gruppo «storico» (che non sempre è nei limiti di numero descritti dai manuali) di fare RdV.
Le interazioni reciproche
La densità di interazioni reciproche (di scambi, affettivi e non solo verbali, tra i membri del gruppo) è l'unità di misura della vitalità del gruppo. È quindi un fatto da coltivare, non solo durante i momenti forti della vita del gruppo (tempo di riunioni, RdV, incontri) attraverso una metodologia adeguata (luogo, sistemazione, orari, ecc.) ma anche nel ritmo quotidiano di routine: anzi, molto spesso, ogni membro, nei momenti di riunione, agirà e reagirà nei confronti degli altri solo se avrà ritrovato possibilità di relazioni frequenti anche al di là di quelle programmate. Una RdV condotta avanti stentatamente, tra lunghe pause di silenzio vuoto (quel silenzio che crea un senso di disagio, di lentezza, di pesantezza) dice che il gruppo non è ancora maturo.
Ma non è segno di avvenuta maturazione neppure il contrario: il cicaleccio incontrollato. Le interazioni, per esempio quelle verbali, non sono un fatto educativo solo perché esistono, in qualunque maniera.
Il processo di maturità del gruppo è in atto quando ogni membro è in rapporto con tutti gli altri, e tutti sentono il gusto di avere, come specchio di rifrazione, l'animatore. Non tutti a dialogo con l'animatore; non dialogo senza l'animatore; ma dialogo-scambio nel gruppo, attraverso l'animatore.
Un fascio di norme costanti
Un gruppo tende a costruirsi una propria griglia di valori, una scala di «dogmi» a cui tutti si adeguano. E questo, attraverso una rete di strutture informali, magari in latente contrasto con quelle imposte autoritativamente dall'esterno, verso un equilibrio di rapporti all'interno e con il mondo circostante.
La manifestazione esterna è varia: oscilla da un linguaggio comune a tutti i membri del gruppo (stereotipi) a standard di condotta che caratterizzano a prima vista l'appartenenza ad un determinato gruppo; da una lettura comune di fatti e avvenimenti alla progettazione, sempre immediatamente da tutti condivisa, di un certo tipo di intervento.
L'esistenza di questo fascio di norme costanti è, il più delle volte, a livello inconscio. Difficilmente, i membri stessi del gruppo sono in grado di verbalizzarle. È facile intuire quanto più difficile ne sia la presa di coscienza di colui che vive ai margini. E l'animatore, nonostante la sua buona volontà, è sempre un po' fuori. Eppure una RdV non può ignorare questo preciso dato di fatto. È urgente inserirsi in questi dinamismi, nei limiti della loro positività, oppure correggerli o autenticarli, quando ce ne fosse bisogno. Ignorarli, significa, in ultima analisi, annullare la forza portante del gruppo.
Alla radice di questo fascio di norme costanti sta l'esistenza di scopi, emozioni, sentimenti e di un inconscio collettivo del gruppo.
PROSPETTIVE PASTORALI
Il gruppo ha trovato un tono di affiatamento notevole, si è costruito una rosa di relazioni interne, organica e duttile; ciascuno si sente a proprio agio: agli «io» singoli si è andato sostituendo un «noi» collettivo. Il sociologo dice: ci troviamo di fronte ad un gruppo primario. E siamo a posto.
C'è invece altra strada da fare.
Non siamo ancora nei termini sufficienti per iniziare un'esperienza di RdV: sono state poste le premesse: ora è necessario un «salto» qualitativo.
La RdV è, nella pienezza del suo movimento, un «far circolare la Parola di Dio nella Chiesa».
Ogni piccolo gruppo che si ponga in ascolto della Parola di Dio è Chiesa, visibilizzazione e realizzazione della Chiesa locale, nei termini con cui comunemente la si intende, e per essa, della Chiesa universale. In questo contesto, fortemente carico di densità di esperienze, è presente, vivo e percepibile, il mistero della Chiesa universale.
Il gruppo deve assumere alcuni atteggiamenti di fondo: sono condizione e conseguenza del proprio essere chiesa.
- La linea di coesione del gruppo è un dono: non è frutto, in assoluto, di dinamismi umani. Questo è il punto di discriminazione tra il gruppo «comunque» e quello che è «chiesa» e quindi con diritto di far circolare la Parola di Dio al suo interno.
L'«essere assieme» proviene da Dio: non nasce «né da carne, né da sangue, né da volontà d'uomo» (Giov 1). I membri sono legati tra di loro perché sono legati con Dio: hanno risposto (in una linea di vita che sia, almeno implicitamente, risposta ad una vocazione) alla chiamata personale di Dio.
Nel rapporto chiamata-risposta sta la radice della comunità, del gruppo-chiesa.
Le dimensioni di fondo sono perciò quelle di una vita teologale:
- la fede (adesione personale a Cristo-risorto con conseguente nuovo modo di vedere la realtà),
- la speranza (la percezione che il fine non è all'interno del gruppo, ma trascendente),
- la carità (la traduzione spicciola di 1 Giov 4: «Dio ci ha amato: quindi anche noi dobbiamo amarci»).
Ma queste dimensioni, come del resto tutto l'essere in comunione, per la verità dell'incarnazione, si inseriscono profondamente nei risvolti umani. La comunità-dono presuppone e salva la comunità-costruzione.
- È possibile un atteggiamento di fede solo se il gruppo riesce a costruirsi un atteggiamento di fiducia, di stima reciproca.
- La speranza affonda le sue radici nella convergenza dei fini e nella intesa per raggiungerli.
- La carità, d'intonazione soprannaturale, è coltivata attraverso tutti i mezzi tecnici che favoriscono, per esempio, una frequenza di interazioni reciproche.
È un continuo equilibrio che ha il punto di vibrazione nel mistero della Incarnazione Annullare un termine è vanificare l'altro.
Forse, oggi soprattutto, è necessario insistere a fondo sul primo: non solo perché è quello che dà la specificità al mistero dell'essere chiesa, ma perché è troppo spesso dimenticato, anche da gruppi di RdV.
- Cuore della RdV è la scoperta della presenza attiva di Dio all'interno della realtà. È un «dono dall'alto» da scoprire, da accettare in tutta la sua sconvolgente portata, più che da fabbricare a nostra misura. È un atteggiamento veramente essenziale, in un clima come il nostro, in cui ha valore solo ciò che è costruito su misura d'uomo e dalle sue mani.
- La comunità è lo spazio dove la Parola di Dio si rivela. Attraverso il libero contributo di ciascuno avviene una progressiva circolazione, verso una più piena comprensione.
La Parola di Dio è fatta per essere letta nella storia: assume il suo significato più pieno quando è impastata negli avvenimenti quotidiani.
Ciascuno ha un contributo essenziale da portare: non tanto, forse, sul piano esegetico, quanto su quello ermeneutico (attualizzazione) e di testimonianza profetica. Ciascuno quindi avverte la responsabilità di gestire la Parola di Dio, da inverare con la parola e con la vita.
- La Chiesa è comunità di uomini liberi, ma comunità gerarchica. L'animatore all'interno del gruppo che fa RdV è, prima di tutto, catalizzatore della fede della Chiesa universale. Il diritto a fare RdV nasce dall'essere in comunione con tutta la Chiesa, cui è affidata la Parola di Dio. La rottura, legata al soggettivismo esasperato (anche di gruppo), priva il gruppo del diritto di far circolare la Parola di Dio al suo interno.
L'animatore non è il freddo custode di un anonimo «deposito» di nozioni. Vive l'ansia della ricerca, vive in trepido ascolto, come e con gli altri del gruppo. Ma, nella sua persona, fa rispecchiare il livello di fede raggiunto dalla Chiesa.
È funzione insostituibile, anche se difficile: non sempre il gruppo accetta questo, non sempre si trova il tono giusto (una affermazione «dal di fuori» blocca tutto); non sempre è facile percepire e vivere l'equilibrio tra ciò che si è e ciò che si fa.
- La ricerca della verità non può essere mai frutto di pressioni e di strumentalizzazioni.
All'interno del gruppo dovrà aleggiare un clima di profondo reciproco rispetto. Il più loquace, il più perspicace, il più capace, non ha nessun diritto di preminenza, nella circolazione della Parola di Dio. Le vie della sapienza cristiana coincidono difficilmente con quelle dei «saggi di questo mondo» (cf 1 Cor 1).
- Ciascuno e ogni gruppo è collaboratore di Uno che è già all'opera. L'interventismo cristiano è su queste prospettive. Vanno ricuperate continuamente dal gruppo, spontaneamente teso a far dipendere tutto dalla propria efficienza o ad incrociare le braccia (fuggendo, per la tangente, nell'anarchismo) di fronte agli immancabili fallimenti.
UNA SINTESI
Solo una sintesi riuscita di questi atteggiamenti può determinare il clima di fede di un gruppo per la RdV.
Possiamo tentare di definirlo, almeno per esclusione.
Non uno stile di autoritarismo
C'è autoritarismo quando i membri del gruppo e l'animatore intervengono per imporre il loro punto di vista, o violentemente o paternalisticamente. L'atteggiamento comune è di dominio o di preminenza, di comunicazione autoritativa. L'affiatamento del gruppo potrebbe anche far accettare una simile gestione. Ma la realtà della RdV la esclude decisamente.
Non uno stile di manipolazione
C'è manipolazione quando i membri e l'animatore si influenzano reciprocamente attraverso pressioni reciproche inconsapevoli. Si ricercano le linee tecniche di pressione. Non mancano interventi indiretti di «seduzioni» o di intimidazioni. È la prima e più forte tentazione di un gruppo primario. La pressione di conformità può diventare facilmente ossessiva e spersonalizzante. Manca la «ricerca» della verità, sempre trascendente.
Non uno stile cooperativistico
C'è «cooperativismo» quando ciascuno cerca con l'aiuto degli altri, la soluzione al proprio problema. Nel dialogo, ciò che conta sono le proprie esperienze, le informazioni, le opinioni, le idee.
L'atteggiamento di fondo è uno sforzo collettivo di ricerca, di impegno comune all'interno del gruppo, per conseguire un risultato determinato. È assente la percezione di qualcosa di più alto, di «fuori», da accogliere: inavvertibile se non si rompe il cerchio della propria esperienza e della propria sufficienza.
Ma uno stile di ascolto reciproco
Ciascuno si sente in servizio verso gli altri, per permettere loro e al gruppo di prendere coscienza dei propri problemi, di scoprire le motivazioni soggiacenti, di chiarificare idee e scelte.
Ciascuno è in atteggiamento di interessato reciproco ascolto.
L'ascolto è già, di natura sua, apertura implicita al trascendente. La ricerca e il servizio dell'altro portano alla scoperta dell'infinitamente Altro, che è il Tu più vicino.
La maturità del gruppo condurrà ad avvertire sempre più chiaramente la presenza di un altro Interlocutore, che ha davvero voce in capitolo e al cui ascolto ci si deve porre, tutti.
Solo il gruppo che sa ascoltarsi e soprattutto sa ascoltare Dio, è un gruppo «maturo» per fare RdV.
Se è vero che, almeno nelle sue movenze più piene (il passaggio dal vedere al capire e collaborare), la RdV è un atto di fede.
Riccardo Tonelli (NPG 1971-01-32) Da molte parti, si avanzano interrogativi circa la dimensione cristiana, l'essere «chiesa», di un gruppo giovanile. * Qualsiasi gruppo di amici, per il fatto di realizzare la definizione sociologica di gruppo primario, è già, ipso facto, gruppo «ecclesiale»? * Se non c'è coincidenza, dove sta la qualifica specifica? Che cosa ha in più il gruppo giovanile «ecclesiale»? * Quali processi vanno «coltivati» con maggior attenzione, per salvare il gruppo-chiesa (l'accento va sulla costruzione di gruppo o sulla qualificazione di chiesa)? A qualcuno potranno, questi interrogativi e altri simili, apparire superflui: un puro gioco verbale. Facciamo, lavoriamo, non stiamo con le mani in mano...: è tutto. Non ci sembra atteggiamento da «educatori». I giovani vivono il momento, con intensità e totalità: difficilmente avvertono la dipendenza con la storia e la proiezione verso un futuro ottimale. L'educatore fa da correttivo, se vuole essere di vero servizio. Il giovane vive; ha l'esperienza di essere chiesa. E non si preoccupa d'altro. L'educatore ha il compito gravoso di guidarlo ad una presa di coscienza sempre più attenta e ad una conseguente maturazione. Per la verità della propria giovanile esperienza. Se queste cose sono vere in generale, lo sono in forma specifica per il gruppo che fa RdV. La RdV è atto di fede, è circolazione della Parola di Dio. Appartiene quindi alla Chiesa, nel senso più denso del termine: come fatto e come diritto. E l'esperienza ce lo ricorda, in altre prospettive. Molti gruppi giovanili che hanno iniziato a fare RdV, senza costruirsi «lo stato esistenziale» relativo, hanno piantato tutto. Perché non si sono sentiti in sintonia con la verità della RdV. Perché non erano ancora sufficientemente quel gruppo-chiesa, a cui la Parola di Dio è donata. La RdV «si fa» in gruppo: il gruppo è lo spazio naturale in cui è possibile realizzarla nel pieno delle sue movenze. RdV e gruppo sono in reciproco rapporto. La RdV aiuta a fare gruppo in prospettiva cristiana, a «fare chiesa», unificando riflessione e azione, meditazione attenta sulla realtà e capacità di lettura dei misteri della fede, proprio perché tende alla formazione di personalità mature, in cui i valori siano a livello di motivazioni, pronte a scattare, nei momenti d'urto. Ma la RdV ha contemporaneamente bisogno di un gruppo abbastanza omogeneo e articolato, in cui muoversi. Non si può partire da zero. Ci sono alcuni atteggiamenti di fondo, da cui non è possibile prescindere (anche se saranno portati a maturazione proprio per il frequente esercizio della RdV): ne scapiterebbe la «verità» della RdV. Se ne brucerebbe perciò in partenza la validità. Questi atteggiamenti esigiti per l'autenticità della RdV pongono le loro radici su due piani distinti, anche se di fatto intersecati così profondamente nella realtà storica dell'uomo, da sapere difficilmente dove termina il primo per iniziare il secondo. * La RdV è «atto di fede» di un gruppo: ha le movenze caratteristiche della vita di gruppo e quindi dipende da leggi tecniche, di «cultura umana»; * ma è «atto di fede»: quindi esige una dimensione soprannaturale precisa: un clima, un tono in cui il gruppo viva la propria dinamica normale. Un elemento non annulla l'altro. Anzi, non può essere realizzato autenticamente se non inserito nel precedente, in una linea di continuità verso il profondo («un Dio dal volto umano, per un uomo dal volto divino»: è un po' lo stile della RdV e di quella pastorale d'«incarnazione» così ben verbalizzata nel Documento-base per il rinnovamento della catechesi italiana). Affermare quindi che la RdV preesige l'esistenza di un gruppo, significa, in sintesi, proprio questo: per poter fare RdV è necessario costruire un gruppo, sociologicamente definibile come primario, e che sia contemporaneamente permeato da un profondo atteggiamento di fede (nei termini concreti che verranno precisati più avanti). Non sono due «compiti» in parallelo o due momenti cronologicamente differenti. E' invece una lenta ma simultanea maturazione, un clima che il gruppo deve assumere, pur nella consapevole certezza che sempre, a qualsiasi livello si possa essere giunti, si è in stato di ricerca, in marcia verso una meta che trascende, che è più avanti dei nostri passi più avanzati. Perché è quella comunione che fa il mistero della Chiesa. Per chiarezza di metodo, le riflessioni che seguono saranno invece montate in parallelo: da una parte le note relative all'aspetto tecnico (problemi di dinamica di gruppo) e dall'altra quelle più specifiche al clima di fede, per la RdV. Purtroppo, ci si muove in un terreno incolto. La dinamica di gruppo è una scienza giovane ed è nata in prospettive «consumistiche»: non ha ancora affrontato le implicanze psicologiche di una sua utilizzazione specificamente pastorale, per gruppi d'impegno cristiano. PROSPETTIVE SOCIOLOGICHE Il gruppo, per la RdV, è quello che i sociologi definiscono primario: il gruppo cioè in cui la collettività di persone che lo compongono è relativamente ristretta come numero e con relazioni frequenti, faccia a faccia, con profondi sentimenti di solidarietà del gruppo. Solo in questo tipo di gruppo possono circolare quei modi abituali di intervenire, a livello di conversazione e di azione, che rendono possibile e vera la RdV: la sincerità e la capacità di dialogo, come dimensione di ogni battuta; l'accento su se stessi e non la fuga verso un impersonale anodino; il coraggio di lasciarsi coinvolgere e di «compromettersi», per tradurre in fatti quanto è stato maturato; l'accento abituale sulle persone, al di là degli schematismi freddi delle maschere sociali o dei personaggi (la difesa ad oltranza dietro il «biglietto da visita»). Non è questo, certo, il contesto per un discorso approfondito sulla metodologia d'intervento per la «costruzione» di gruppi primari. E' sufficiente un'analisi veloce della definizione, per sottolineare gli elementi più caratteristici. Quasi a formare una galleria di atteggiamenti che se, da una parte, definiscono il gruppo primario, indicano, dall'altra, le linee di un intervento educativo, i centri da «coltivare». Il numero Un gruppo troppo numeroso sarà difficilmente affiatato. Quindi, anche la RdV ha esigenze di numero. I tecnici descrivono dei parametri ottimali: da un minimo di 8 ad un massimo di 12-15 elementi. Il pensare al gruppo come servizio alla maturazione della persona (la persona come assoluto; e non il gruppo) comporta l'accettazione di un'elasticità maggiore. Alcune situazioni contraddicono alle leggi più comuni della dinamica di gruppo. Non basta quindi la prospettiva pastorale o la buona volontà di fondo a rendere possibile ciò che è fisicamente impossibile. Così, è assurda una RdV fatta in gruppi enormi (50-60 elementi): diventa una realtà strascicata, impersonale, con equilibrio instabile tra attori e spettatori. Ma entro i limiti del possibile, c'è spazio per il «meno riuscito», per il meno produttivo, per un impegno maggiore e un controllo più attento, tutto per permettere al gruppo «storico» (che non sempre è nei limiti di numero descritti dai manuali) di fare RdV. Le interazioni reciproche La densità di interazioni reciproche (di scambi, affettivi e non solo verbali, tra i membri del gruppo) è l'unità di misura della vitalità del gruppo. E' quindi un fatto da coltivare, non solo durante i momenti forti della vita del gruppo (tempo di riunioni, RdV, incontri) attraverso una metodologia adeguata (luogo, sistemazione, orari, ecc.) ma anche nel ritmo quotidiano di routine: anzi, molto spesso, ogni membro, nei momenti di riunione, agirà e reagirà nei confronti degli altri solo se avrà ritrovato possibilità di relazioni frequenti anche al di là di quelle programmate. Una RdV condotta avanti stentatamente, tra lunghe pause di silenzio vuoto (quel silenzio che crea un senso di disagio, di lentezza, di pesantezza) dice che il gruppo non è ancora maturo. Ma non è segno di avvenuta maturazione neppure il contrario: il cicaleccio incontrollato. Le interazioni, per esempio quelle verbali, non sono un fatto educativo solo perché esistono, in qualunque maniera. Il processo di maturità del gruppo è in atto quando ogni membro è in rapporto con tutti gli altri, e tutti sentono il gusto di avere, come specchio di rifrazione, l'animatore. Non tutti a dialogo con l'animatore; non dialogo senza l'animatore; ma dialogo-scambio nel gruppo, attraverso l'animatore. Un fascio di norme costanti Un gruppo tende a costruirsi una propria griglia di valori, una scala di «dogmi» a cui tutti si adeguano. E questo, attraverso una rete di strutture informali, magari in latente contrasto con quelle imposte autoritativamente dall'esterno, verso un equilibrio di rapporti all'interno e con il mondo circostante. La manifestazione esterna è varia: oscilla da un linguaggio comune a tutti i membri del gruppo (stereotipi) a standard di condotta che caratterizzano a prima vista l'appartenenza ad un determinato gruppo; da una lettura comune di fatti e avvenimenti alla progettazione, sempre immediatamente da tutti condivisa, di un certo tipo di intervento. L'esistenza di questo fascio di norme costanti è, il più delle volte, a livello inconscio. Difficilmente, i membri stessi del gruppo sono in grado di verbalizzarle. E' facile intuire quanto più difficile ne sia la presa di coscienza di colui che vive ai margini. E l'animatore, nonostante la sua buona volontà, è sempre un po' fuori. Eppure una RdV non può ignorare questo preciso dato di fatto. E' urgente inserirsi in questi dinamismi, nei limiti della loro positività, oppure correggerli o autenticarli, quando ce ne fosse bisogno. Ignorarli, significa, in ultima analisi, annullare la forza portante del gruppo. Alla radice di questo fascio di norme costanti sta l'esistenza di scopi, emozioni, sentimenti e di un inconscio collettivo del gruppo. PROSPETTIVE PASTORALI Il gruppo ha trovato un tono di affiatamento notevole, si è costruito una rosa di relazioni interne, organica e duttile; ciascuno si sente a proprio agio: agli «io» singoli si è andato sostituendo un «noi» collettivo. Il sociologo dice: ci troviamo di fronte ad un gruppo primario. E siamo a posto. C'è invece altra strada da fare. Non siamo ancora nei termini sufficienti per iniziare un'esperienza di RdV: sono state poste le premesse: ora è necessario un «salto» qualitativo. La RdV è, nella pienezza del suo movimento, un «far circolare la Parola di Dio nella Chiesa». Ogni piccolo gruppo che si ponga in ascolto della Parola di Dio è Chiesa, visibilizzazione e realizzazione della Chiesa locale, nei termini con cui comunemente la si intende, e per essa, della Chiesa universale. In questo contesto, fortemente carico di densità di esperienze, è presente, vivo e percepibile, il mistero della Chiesa universale. Il gruppo deve assumere alcuni atteggiamenti di fondo: sono condizione e conseguenza del proprio essere chiesa. - La linea di coesione del gruppo è un dono: non è frutto, in assoluto, di dinamismi umani. Questo è il punto di discriminazione tra il gruppo «comunque» e quello che è «chiesa» e quindi con diritto di far circolare la Parola di Dio al suo interno. L'«essere assieme» proviene da Dio: non nasce «né da carne, né da sangue, né da volontà d'uomo» (Giov 1). I membri sono legati tra di loro perché sono legati con Dio: hanno risposto (in una linea di vita che sia, almeno implicitamente, risposta ad una vocazione) alla chiamata personale di Dio. Nel rapporto chiamata-risposta sta la radice della comunità, del gruppo-chiesa. Le dimensioni di fondo sono perciò quelle di una vita teologale: - la fede (adesione personale a Cristo-risorto con conseguente nuovo modo di vedere la realtà), - la speranza (la percezione che il fine non è all'interno del gruppo, ma trascendente), - la carità (la traduzione spicciola di 1 Giov 4: «Dio ci ha amato: quindi anche noi dobbiamo amarci»). Ma queste dimensioni, come del resto tutto l'essere in comunione, per la verità dell'incarnazione, si inseriscono profondamente nei risvolti umani. La comunità-dono presuppone e salva la comunità-costruzione. - E' possibile un atteggiamento di fede solo se il gruppo riesce a costruirsi un atteggiamento di fiducia, di stima reciproca. - La speranza affonda le sue radici nella convergenza dei fini e nella intesa per raggiungerli. - La carità, d'intonazione soprannaturale, è coltivata attraverso tutti i mezzi tecnici che favoriscono, per esempio, una frequenza di interazioni reciproche. E' un continuo equilibrio che ha il punto di vibrazione nel mistero della Incarnazione Annullare un termine è vanificare l'altro. Forse, oggi soprattutto, è necessario insistere a fondo sul primo: non solo perché è quello che dà la specificità al mistero dell'essere chiesa, ma perché è troppo spesso dimenticato, anche da gruppi di RdV. - Cuore della RdV è la scoperta della presenza attiva di Dio all'interno della realtà. E' un «dono dall'alto» da scoprire, da accettare in tutta la sua sconvolgente portata, più che da fabbricare a nostra misura. E' un atteggiamento veramente essenziale, in un clima come il nostro, in cui ha valore solo ciò che è costruito su misura d'uomo e dalle sue mani. - La comunità è lo spazio dove la Parola di Dio si rivela. Attraverso il libero contributo di ciascuno avviene una progressiva circolazione, verso una più piena comprensione. La Parola di Dio è fatta per essere letta nella storia: assume il suo significato più pieno quando è impastata negli avvenimenti quotidiani. Ciascuno ha un contributo essenziale da portare: non tanto, forse, sul piano esegetico, quanto su quello ermeneutico (attualizzazione) e di testimonianza profetica. Ciascuno quindi avverte la responsabilità di gestire la Parola di Dio, da inverare con la parola e con la vita. - La Chiesa è comunità di uomini liberi, ma comunità gerarchica. L'animatore all'interno del gruppo che fa RdV è, prima di tutto, catalizzatore della fede della Chiesa universale. Il diritto a fare RdV nasce dall'essere in comunione con tutta la Chiesa, cui è affidata la Parola di Dio. La rottura, legata al soggettivismo esasperato (anche di gruppo), priva il gruppo del diritto di far circolare la Parola di Dio al suo interno. L'animatore non è il freddo custode di un anonimo «deposito» di nozioni. Vive l'ansia della ricerca, vive in trepido ascolto, come e con gli altri del gruppo. Ma, nella sua persona, fa rispecchiare il livello di fede raggiunto dalla Chiesa. E' funzione insostituibile, anche se difficile: non sempre il gruppo accetta questo, non sempre si trova il tono giusto (una affermazione «dal di fuori» blocca tutto); non sempre è facile percepire e vivere l'equilibrio tra ciò che si è e ciò che si fa. - La ricerca della verità non può essere mai frutto di pressioni e di strumentalizzazioni. All'interno del gruppo dovrà aleggiare un clima di profondo reciproco rispetto. Il più loquace, il più perspicace, il più capace, non ha nessun diritto di preminenza, nella circolazione della Parola di Dio. Le vie della sapienza cristiana coincidono difficilmente con quelle dei «saggi di questo mondo» (cf 1 Cor 1). - Ciascuno e ogni gruppo è collaboratore di Uno che è già all'opera. L'interventismo cristiano è su queste prospettive. Vanno ricuperate continuamente dal gruppo, spontaneamente teso a far dipendere tutto dalla propria efficienza o ad incrociare le braccia (fuggendo, per la tangente, nell'anarchismo) di fronte agli immancabili fallimenti. UNA SINTESI Solo una sintesi riuscita di questi atteggiamenti può determinare il clima di fede di un gruppo per la RdV. Possiamo tentare di definirlo, almeno per esclusione. Non uno stile di autoritarismo C'è autoritarismo quando i membri del gruppo e l'animatore intervengono per imporre il loro punto di vista, o violentemente o paternalisticamente. L'atteggiamento comune è di dominio o di preminenza, di comunicazione autoritativa. L'affiatamento del gruppo potrebbe anche far accettare una simile gestione. Ma la realtà della RdV la esclude decisamente. Non uno stile di manipolazione C'è manipolazione quando i membri e l'animatore si influenzano reciprocamente attraverso pressioni reciproche inconsapevoli. Si ricercano le linee tecniche di pressione. Non mancano interventi indiretti di «seduzioni» o di intimidazioni. E' la prima e più forte tentazione di un gruppo primario. La pressione di conformità può diventare facilmente ossessiva e spersonalizzante. Manca la «ricerca» della verità, sempre trascendente. Non uno stile cooperativistico C'è «cooperativismo» quando ciascuno cerca con l'aiuto degli altri, la soluzione al proprio problema. Nel dialogo, ciò che conta sono le proprie esperienze, le informazioni, le opinioni, le idee. L'atteggiamento di fondo è uno sforzo collettivo di ricerca, di impegno comune all'interno del gruppo, per conseguire un risultato determinato. E' assente la percezione di qualcosa di più alto, di «fuori», da accogliere: inavvertibile se non si rompe il cerchio della propria esperienza e della propria sufficienza. Ma uno stile di ascolto reciproco Ciascuno si sente in servizio verso gli altri, per permettere loro e al gruppo di prendere coscienza dei propri problemi, di scoprire le motivazioni soggiacenti, di chiarificare idee e scelte. Ciascuno è in atteggiamento di interessato reciproco ascolto. L'ascolto è già, di natura sua, apertura implicita al trascendente. La ricerca e il servizio dell'altro portano alla scoperta dell'infinitamente Altro, che è il Tu più vicino. La maturità del gruppo condurrà ad avvertire sempre più chiaramente la presenza di un altro Interlocutore, che ha davvero voce in capitolo e al cui ascolto ci si deve porre, tutti. Solo il gruppo che sa ascoltarsi e soprattutto sa ascoltare Dio, è un gruppo «maturo» per fare RdV. Se è vero che, almeno nelle sue movenze più piene (il passaggio dal vedere al capire e collaborare), la RdV è un atto di fede.