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    Pastorale e dinamica di gruppo /3



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1972-05-39)

    Ogni gruppo è vivamente preoccupato di raggiungere quel minimo di coesione che gli permetta una «decente» vita.
    La coesione, pero, non nasce di generazione spontanea. Per ottenerla, e necessario pagare lo scotto di molti contributi.
    A questo livello il problema incomincia a diventare serio e preoccupante: siamo in uno dei piani in cui si gioca l'ecclesialità reale del gruppo, se è vero che il criterio di ecclesialità sta nell'ortoprassi (ciò che si fa), piuttosto che nell'ortodossia (ciò che si dice).
    Ad ogni passo ci si trova ad un bivio: scegliere una facile immediata coesione, con gli innegabili vantaggi che procura (armonia, fascino, gratificazione sociale...) oppure preferire la faticosa strada della ricerca di un gruppo meno efficiente in sé, ma più maturante per le persone che lo compongono?
    È vero, la distinzione, cosi esasperata, è più da tavolino che da vita vissuta: la strada della capacità di essere maturante passa per l'efficienza. Ma non sempre e non in assoluto. La scelta e più questione di «accento» che di esclusione.
    Il discorso non è astratto e teorico. Basta una lettura attenta dell'articolo, inquadrato nel contesto dei precedenti, per convincersene. E - così almeno ci pare - è immediatamente pastorale, anche se sembra a prima vista strettamente tecnico, proprio a partire da quella «ortoprassi» sopra ricordata.
    Se il gruppo idolatra il numero ottimale o si lascia catturare dalle norme, la coesione è presto raggiunta.. ma a quale prezzo?
    Se il gruppo assume la competitività accesa con l'esterno come dimensione permanente, la coesione è facile, ma salta il servizio e l'efficienza del cambio sociale.
    Soprattutto se la coesione è fatta sull'enfasi dei rapporti primari, diventa logica una «certa» politica nella conduzione del gruppo (privatizzazione degli impegni, rifiuto del pluralismo nelle azioni e nella partecipazione...), ma non si sta slittando verso una concezione «introversa e consumista» di chiesa? Tutti problemi aperti, che ogni gruppo vivo quotidianamente soffre... Il taglio con cui sono stesi questi «appunti» di dinamica di gruppo, può offrire un elemento di confronto, nella comune ricerca.

    Terza parte

    LA COESIONE NEL GRUPPO

    Tutti abbiamo fatto esperienza di gruppi al cui interno si sta bene. Le attività sono ben compartecipate. Non c'è bisogno di moltiplicare inviti e circolari per avere assicurate le presenze.
    Le riunioni filano che è un piacere.
    Purtroppo non sono assenti le esperienze contrarie. Gruppi pesanti, grevi, che si trascinano a stento. A suon di interventi dall'alto, di pressioni più o meno autoritative. Un fiume di circolari assicura quel minimo di partecipazione che permette di sopravvivere...
    I primi gruppi sono gruppi a forte coesione interna. I secondi ne sono privi.
    L'aria che si respira, il clima che fa stare a proprio agio, è la coesione di gruppo.
    Tecnicamente può essere definita come l'unione di spirito dei membri del gruppo, proveniente dall'attrazione esercitata su di essi dal gruppo stesso.
    Possiamo immaginare il gruppo come un campo di forze: alcune tendono ad allontanare dal gruppo, altre invece tendono a conservare al suo interno (faremo esempi frequenti nel corso di questo capitolo). Il campo di forze centripete e centrifughe è una realtà: nessun gruppo è perfetto: tutti hanno elementi attraenti e elementi distraenti.
    La coesione è la risultante di queste forze. Se sono in maggior intensità le prime, il gruppo è coeso. Se predominano le seconde, il gruppo non è coeso, almeno quanto basta per farne una realtà «attraente».
    Il problema allora rimbalza sull'analisi di queste forze. Parlare di coesione, soprattutto nel contesto al cui interno desideriamo porci, significa fare l'elenco delle forze centrifughe e di quelle centripete. Anche per razionalizzare, verbalizzare un fenomeno, spesso percepibile solo nelle conseguenze (si avverte la mancanza di coesione. Ma non se ne conoscono le cause). E per mettere in cantiere gli interventi relativi, onde assicurare al gruppo quel minimo di coesione che ne permetta la vita. Questa ultima affermazione ha schiuso un altro capitolo: la coesione è la piattaforma che permette quella frequenza di interazioni personali la cui presenza definisce il gruppo primario.
    Questo studio potrebbe perciò, in ultima analisi, intitolarsi: la strada per passare da gruppi «comunque» (secondari) a gruppi primari.
    Elenchiamo allora gli elementi «centripeti» e «centrifughi» del gruppo.

    «Fascino» del gruppo

    Il primo elemento da considerare è l'insieme delle forze che rendono il gruppo attraente, le forze cioè che permettono di scorgere nel gruppo la possibilità di realizzare e soddisfare le proprie esigenze. Più il gruppo risponde alle attese dei suoi membri, più la coesione è alta.
    Ciascuno viene in un gruppo per «soddisfare» un suo progetto: ha un fascio di attese. Il gruppo ha, realisticamente, solo determinate capacità di realizzazione. Più o meno ampie, ma sempre limitate. Quindi non sempre e non per tutti, «quel» gruppo è una valida risposta.
    Ma non si tratta di un fenomeno «matematico». Attese e risposte variano, continuamente, a partire da alcune «forze».
    Tentiamo un elenco di queste «forze»:
    * la reciproca conoscenza dei membri del gruppo (tutti gli elementi che permettono di conoscere a fondo gli altri, favoriscono la coesione: si tratta di metterli in cantiere, con decisione. È inutile sognare un gruppo primario, se non si lavora per renderlo tale. Uscire assieme... a mangiare una buona pizza, permette quella conoscenza interpersonale che starà poi alla base di una buona coesione di gruppo. È quindi un atto... pastorale!);
    * fiducia negli altri membri del gruppo (la fiducia è coltivata nello sforzo di trovare obiettivi di gruppo a carattere collaborativo: lavorare gomito a gomito crea innegabile fiducia);
    * assimilazione personale degli scopi del gruppo (sembra un circolo vizioso, ma non lo è. Se io non conosco a fondo il significato del gruppo posso cullarmi continuamente in sogni utopici, posso chiedere ad un gruppo di sinistra extraparlamentare... di fare la catechesi ai preadolescenti. E mi sentirò frustrato dalla non adeguatezza del gruppo. La conoscenza precisa e chiara degli obiettivi del gruppo mi costringe, una volta per-sempre, ad una scelta: pro o contro. Una volta operata la scelta, scoprirò il gruppo veramente capace di rispondere alle mie attese);
    * assimilazione delle norme del gruppo (è forse il fatto più rilevante. Man mano un membro del gruppo assimila le norme di gruppo, ridimensiona le sue attese alle reali capacità di risposta del gruppo. È convinto di sognare un progetto, ed è felice di vedere che il gruppo lo realizza; mentre di fatto ha ridimensionato il suo progetto alla capacità di realizzazione del gruppo. Si noti come questa «catturazione» possa essere il primo momento da coltivare per creare coesione nel gruppo. Se l'animatore «lavora» sulle norme, in un primo tempo, riuscirà a creare coesione di gruppo, perché ciascuno si sentirà realizzato all'interno del gruppo. Ottenuta la coesione, può essere iniziato un processo inverso, di razionalizzazione, per permettere la integrazione a livello motivazionale).

    La punizione sociale per chi abbandona il gruppo

    Abbandonare un gruppo significa perdere quella gratificazione sociale, di cui il gruppo è ricco; significa incorrere in punizioni sociali; significa operare un salto di barriere non sempre molto facile. L'affermazione va tradotta in termini sociologici, per non slittare verso una visione solo metafisica.
    La società esterna, il mondo «fuori», esercita sempre un certo fascino. Talvolta è il fascino del proibito. Sempre è quello della novità, del «provare».
    Il fascino dell'esterno è contrario alla coesione di gruppo. Se si vuole coltivare la coesione è necessario creare buone alternative. Pensiamo che non sia utile parlare, in questo contesto, di spontaneità ad oltranza, soprattutto se ci si pone in prospettive educative e pastorali. Oltre tutto c'è non-direttività solo da una parte: la nostra. Il fascino dell'esterno esercita una notevole direttività.
    Concretamente si sottolineano due cose:
    * la necessità di una certa intelligente pressione per far restare all'interno del gruppo (ammesso che l'essere dentro quel gruppo sia un fatto maturante per la persona in questione. Se non lo è... non c'è bisogno di bruciare l'autorità per rompere il gruppo. Basta lasciar corda al fascino dell'esterno, per esempio, o basta manipolare un po' il morale del gruppo. E il gruppo si sfalderà da solo, per degenerazione spontanea. Si raggiunge lo scopo... senza sporcarsi le mani!);
    * la necessità di arricchire di un certo fascino alternativo, di un certo prestigio sociale il gruppo in questione. I mezzi sono molti: basta lasciar spazio alla fantasia e alla inventività giovanile.

    Mancanza di alternative esterne

    Altro fatto importante: l'assenza, nella sfera di influenza del gruppo, di alternative con spinta superiore.
    Siamo di fronte ad un fenomeno molto serio. Per i suoi risvolti.
    Per ottenere coesione, il gruppo deve essere costretto a vivere «all'interno», a non decentrarsi troppo.
    Iniziamo ad indicare il caso più semplice. Un campeggio fatto in alta montagna è fortemente funzionale alla coesione di gruppo: all'esterno non ci sono spinte alternative e la vita è quindi costretta all'interno. Questo fa coesione. Un campeggio fatto invece in un camping di una spiaggia superaffollata è perfettamente inutile alla coesione di gruppo. Le alternative esterne sono troppo influenti.
    Ma c'è un secondo aspetto, ben più rilevante, anche se meno apparente. La sua comprensione ci invita a riprendere un po' i temi del numero precedente.
    Ogni gruppo, ne abbia coscienza o no, vive «dentro» la società globale. Essa esercita una pressione continua. Non è possibile ignorare questo fatto. Si metterebbe in azione la politica dello struzzo. E ci si priverebbe di un riferimento ecclesiale, nonostante le facili etichette e le molte parole contrarie. Nella chiesa, ciascuno è al servizio: quindi ogni gruppo ecclesiale è al servizio della società globale. Chiudersi è morire come chiesa.
    È necessario avere in attenzione la pressione del mondo circostante. Coltivare la coesione di gruppo significa «diminuire», controllare la pressione del mondo esterno. Se le norme di gruppo sono in una direzione (per la formazione dei membri) e le proposte della società in un'altra... o si lavora per cambiare queste proposte, evidentemente a cerchi concentrici, o si sarà presto o tardi risucchiati dalla società. C'è l'alternativa di cui sopra: chiudersi, rendersi impermeabili alla società. È difficile. Forse utopico. Ma, in fondo, è contraddittorio con una scelta cristiana.
    La coesione interna avviene attraverso un processo di liberazione della società esterna.
    Proprio perché ogni individuo - lo ripetiamo - è socializzato da diverse agenzie. Egli è oggetto di proposte diverse. Interiorizza «norme» diverse, spesso contraddittorie (pensiamo al significato totalizzante della «croce» e alle proposte della società dei consumi...). Se non fa ordine, nel suo interno, è costretto alla disintegrazione, alla schizofrenia. Ma è difficile riuscire a metter ordine in un guazzabuglio del genere. L'ordine è spesso frutto dell'impegno di annullare le alternative contrarie, lottando per cambiare le agenzie che fanno proposte diverse. Ripetiamo: è utopico (almeno in prospettiva di dinamica di gruppo) pensare di riuscire a mettere ordine solo chiudendosi sempre di più, in una coesione di gruppo forzata. È difficile perché la coesione tenderà a saltare, appena le alternative esterne avranno più fascino di quelle interne (e la storia di molti gruppi lo insegna).

    La competitività con l'esterno

    La necessità di superare situazioni emotive particolarmente impegnative rafforza la coesione di gruppo. Ci si stringe, tutti, di fronte ad un pericolo.
    Questo comporta:
    * la necessità di ricercare obiettivi per il gruppo di ordine collaborativo (che siano attingibili cioè soltanto attraverso il contributo di tutti);
    * la necessità di una certa competitività con il mondo esterno: la competitività favorisce la coesione collaborativa all'interno (si rilegga però quanto è stato ricordato a proposito di una strumentalizzazione della competitività: per la coesione di gruppo, ma contro la maturazione ecclesiale delle persone);
    * la necessità di un obiettivo di ordine operativo: l'azione porta alla coesione. L'obiettivo a carattere speculativo (il «pensare» solo) difficilmente porta alla coesione, a meno non subentrino altri elementi di maturazione personale;
    * la attingibilità dell'obiettivo: un obiettivo troppo elevato produce la coscienza dell'incapacità e quindi provoca frustrazioni.

    L'omogeneità

    L'omogeneità favorisce la coesione.
    È una facile costatazione. Non sempre però la omogeneità può essere previa al gruppo, soprattutto in contesto ecclesiale, se è vero che la chiesa è la «rete gettata nel mare che raccoglie ogni genere di pesci». Se l'omogeneità previa non è sempre possibile, è invece sempre possibile una omogeneità coltivata, raggiunta cioè attraverso la diffusione capillare delle informazioni. La comunicazione produce omogeneità.

    La flessibilità delle norme

    La rigidità delle norme se da un lato porta all'uniformità di comportamento (e quindi alla coesione), dall'altro provoca inevitabilmente il dissenso (e quindi rompe la coesione).
    Del resto l'esperienza prova che i gruppi a più ristretti limiti di tolleranza (quelli cioè con norme molto rigide) soffrono più intensamente di frustrazioni (e quindi ne scapitano di coesione), di fronte ad obiettivi difficilmente attingibili. Se non si riesce a raggiungere quello scopo per cui ci si sentiva tanto decisamente impegnati... la crisi è inevitabile.

    Il numero

    Il numero dei componenti un gruppo gioca un peso notevole nella coesione del gruppo stesso: se è troppo alto sono difficili gli scambi a faccia a faccia, così importanti nella vita del gruppo, e quindi è difficile la coesione di gruppo.
    I testi di dinamica di gruppo offrono delle cifre ottimali: tutti parlano di un optimum che può variare da 10 a 15 elementi.
    In prospettiva pastorale è necessario fare un discorso più preciso. Iniziamo a sottolineare gli aspetti certi, i punti limite.
    - L'ideale rimane il gruppo ottimale (10-15 individui): è necessario mettere in cantiere tutta la buona volontà «concreta» per tendere a questa meta.
    - Ci sono dei punti-estremi toccati i quali non c'è buona volontà che tenga. Se, in concreto, il gruppo raggiunge cifre troppo alte di partecipazione (un centinaio di individui, soprattutto se si tratta di giovani...) è «fisicamente» impossibile la presenza di interazioni intense a faccia a faccia. Il gruppo, nella sua globalità, non sarà mai gruppo primario, nonostante le ripetute raccomandazioni, nonostante le pressioni e l'eventuale buona volontà dei soci...
    Sarà un ottimo gruppo di lavoro; potrà, nel caso, consolare qualche autorità facilmente accontentabile sul piano del numero ma i «contenuti» per cui il gruppo è terapeutico, saranno di fatto assenti (o presenti in minima misura...). Oltre ciò, per la naturale tensione verso rapporti primari, il gruppo «di fatto» si spezzerà in sottogruppi, al cui interno si ricostruirà la realtà gruppo. Se non sono «controllati» potranno dare origine a forti conflitti interni, con tutte le conseguenze del caso.
    - Il gruppo «pastorale» può e deve essere composto di un numero più alto dell'ottimale. Non sempre è possibile avere gli animatori sufficienti, non sempre è opportuno smembrare i gruppi in base a motivi tecnici, non sempre è opportuno chiudere le porte quando il gruppo è preso d'assalto (anche perché un gruppo funzionante, se sa mettere in cantiere un saggia «politica dei nuovi», fatta di atteggiamenti e non di documenti, è una testimonianza vivente, è educativo proprio nella sua esistenza...).
    Accettare un gruppo con un numero alto di membri comporta alcune attenzioni urgenti: sono quegli elementi che, più di altri, con i fatti, lo qualificano come gruppo ecclesiale:
    * I rapporti interpersonali possono rispondere a dati istintuali: antipatia-simpatia sono atteggiamenti preumani. È necessario «programmare» rapporti con gli altri membri, al di là di questa spontaneità.
    * Credere alla «morte come strada alla vita» (una realtà tipicamente cristiana) significa, per questo concreto gruppo, superare continuamente la tentazione di cullarsi nella coesione conquistata, per entrare in rapporto coltivato e programmato con il nuovo, con l'ultimo, con il dissenziente, con chi è in crisi. D'altra parte, questa apertura ricercata è altamente funzionale alla maturità del gruppo. Conduce, trionfalmente, alla «vita», anche se la strada è lastricata di morte.
    * Se la coesione tra molti è più difficile, è necessario mettere in cantiere momenti forti più frequenti e più intensi, proprio per superare le difficoltà oggettive, attraverso una strategia più attenta.
    * Un'ultima cosa, forse la più importante di tutte. È necessario che il gruppo tenda a ritrovare la coesione attorno ai valori che persegue e non solo attorno a rapporti primari. È un discorso molto duro, se si vuole; ma molto importante, soprattutto oggi. La chiesa non è solo l'insieme degli amici: è piuttosto l'insieme di coloro che hanno scelto di realizzare, in sé e negli altri, la «pasqua» di Cristo: l'insieme delle persone che hanno voglia di fare qualcosa di serio implicitamente o esplicitamente in nome di Cristo Signore. Tra loro deve correre «amicizia»: ma radicandola sulla comune tensione. La spinta a farsi realizzatori della «pasqua» di Cristo fa coesione, anche se di fatto non ci si conosce. La primarietà dei rapporti è importante ma non essenziale. L'essenziale è questa concreta scelta; essenziale è la percezione di essere a collaborare ad uno stesso obiettivo; essenziale cioè è la coesione attorno al valore (della liberazione-pasqua, per stare al progetto avanzato).
    Se il gruppo vuole situarsi in contesto ecclesiale, al di là delle facili parole, dovrà raggiungere (o tendere a raggiungere) questo «ideale». Dovrà cioè tendere a creare una coesione di gruppo - che tenga profondo conto dei rapporti primari - ma che sia aperta a tutti, in base proprio alla consonanza di ideali-valori perseguiti. Se, quindi, nella prima tappa della vita di un gruppo andranno coltivati soprattutto i rapporti primari interpersonali, nella seconda tappa l'animatore è chiamato a guidare alla percezione dei valori del gruppo, è chiamato a far scoprire che si è assieme, non tanto per gratificarsi reciprocamente, quanto per un servizio serio da porre in atto.
    Riprenderemo il discorso a proposito del gruppo dei giovani leaders «cristiani»: per loro specialmente è essenziale questa coesione sopra i valori.

    Il morale del gruppo

    Un peso molto grande, spesso determinante, nella coesione del gruppo è giocato dal livello del «morale» del gruppo. È possibile fare un elenco degli elementi che alzano (e per contrario: che deprimono) il morale: una serie di ricerche ce lo permette.
    È importante sottolineare immediatamente un fatto: il morale del gruppo è molto spesso nelle mani dell'autorità, è cioè uno degli elementi maggiormente manipolabili. Se l'autorità toglie prestigio, se mette in circolazione «certe» voci, se spinge a progettare obiettivi troppo alti e irraggiungibili, se collabora a rendere difficile la loro realizzazione... butta il gruppo in uno stato di demoralizzazione che è l'anticamera di tensioni e conflitti, capaci di farlo giungere alla morte.
    Trascriviamo un elenco di questi elementi che favoriscono-perturbano il morale del gruppo, rimandandone un approfondimento anche descrittivo a Mucchielli (pag. 112):
    * buon andamento delle relazioni affettive interpersonali (e per contrario: insinuazioni, voci, atte a creare la diffidenza tra i membri del gruppo);
    * buon andamento delle relazioni con l'autorità formale (e, per contrario, diffidenza dell'autorità nei confronti del gruppo, interventi che tolgano prestigio o avanzino prospettive anche sfumate di non accettazione);
    * fiducia nell'accessibilità degli obiettivi del gruppo (e per contrario, la proposta di obiettivi irraggiungibili);
    * cooperazione, corresponsabilità, partecipazione alla gestione del gruppo (e, per contrario, dissociazione del gruppo, attraverso la costituzione di sottogruppi o il rifiuto di una gestione corresponsabile);
    * sopportazione delle pressioni esterne (e per contrario, intensificazione di pressioni attraverso i vari gruppi di riferimento degli individui del gruppo in questione, pressione sulle famiglie...);
    * ambiente gaio e disteso (e, per contrario, rendere «pericolose» le riunioni, creazione di un ambiente greve);
    * capacità di autocritica e di riflessione dei membri del gruppo (e per contrario, accettazione facile delle voci, delle insinuazioni, delle informazioni...).


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