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    Note di pastorale giovanile
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    Educare alla fede nell'umanizzazione: un metodo di pastorale giovanile



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1974-06-05)

     

    Una rivista che cerchi un servizio operativo preciso, pur nei limiti innegabili dello strumento che essa è, deve costruirsi un suo fondale culturale, cui far ricorso nel ritmo ordinario della sua gestione. Non è sempre possibile fare «discorsi completi», intonati cioè ad una analisi precisa della realtà e ad un progetto deciso su di essa. Ma i parziali interventi raggiungono lo scopo, proprio se vibrano su queste «tonalità» anche nella frammentarietà delle proposte.
    Il discorso vale soprattutto in campo pastorale. E quindi coinvolge Note di Pastorale Giovanile.
    Oggi c'è un grosso pluralismo. Non soltanto tra gli improvvisatori, che operano una pastorale a braccia o sul filo dell'entusiasmo... Il pluralismo è più a monte: nella teologia da cui prendere le mosse, in un tipo di pedagogia in cui riconoscersi e, molto spesso, nel rapporto tra teologia e pedagogia stessa. Da qui metodi diversissimi e intuizioni le più disparate.
    Note di Pastorale Giovanile, in molte riprese, ha sottolineato la preziosità del pluralismo, anche in campo pastorale (ben inteso all'interno di una riverente fedeltà al Magistero); a patto che chi opera e chi riflette «faccia le sue scelte», evitando di trincerarsi nel pluralismo... per battere la strada del qualunquismo. Il pluralismo è importante come risposta al «pluralismo di fatto» delle situazioni giovanili di partenza e come «contrappeso di esperienze», per evitare la assolutizzazione di metodi e di scelte
    Nello stesso tempo, però, la nostra rivista ha fatto una opzione concreta di pastorale giovanile: L'educazione alla fede all'interno di un sano processo di umanizzazione. E la persegue con uno sforzo di larga coerenza interna. La «linea» (o meglio le molte linee che si sfrangiano da questa scelta di fondo) dovrebbe trasparire da tutte le pagine, intonare di sé gli studi, la presentazione e il confronto di esperienze, l'elaborazione di sussidi. Con i sussulti, gli zig-zag che necessariamente contraddistinguono ogni cammino segnato dalla ricerca e dall'azione.
    Per i lettori affezionati, la cosa ce l'auguriamo pacifica.
    Per coloro che invece fanno da poco cammino con noi o ci seguono un po' alla svelta, può essere utile fare il punto sul tema. Se non altro, per evitare di essere fraintesi, dal momento che utilizziamo «parole» che possono giustamente suonar equivoche, visto che non sono monopolio degli «addetti ai lavori», come era un tempo il linguaggio teologico tradizionale. E, soprattutto, per offrire un quadro di riferimento globale alla cui luce leggere tutto l'impianto della rivista. Ma senza troppa ufficialità... perché lo studio che presentiamo non è «la» parola della redazione ma una proposta che apre uno sguardo su problematiche di metodo pastorale, senza poterle approfondire con sufficiente chiarezza; indica piste di intervento, senza voler giungere ai dettagli operativi concreti.

    LA META: EDUCAZIONE UMANA E CRISTIANA IN RECIPROCA INTEGRAZIONE

    Credo decisamente alla necessità di realizzare l'educazione alla fede all'interno di un sano processo di educazione-umanizzazione.[1] Non voglio entrare nelle polemiche che un'affermazione del genere comporta. So che non è condivisa sia da coloro che vogliono l'annuncio di fede «libero e pulito» da incrostazioni psicologiche e antropologiche,[2] sia da coloro che temono di ricostruire così una inesatta dipendenza della pedagogia dalla teologia.[3] D'altra parte sono convinto che la scelta sottolineata sia quella assunta da «Il rinnovamento della catechesi» (RdC) e, conseguentemente, quella che sta filigranando tutto il lavoro per il «catechismo dei giovani».[4]
    In questa prospettiva intendo quindi situare la mia ricerca. E per questo moltiplicherò i riferimenti, espliciti e impliciti, a quei documenti.

    Educare alla fede oggi

    Un giovane che abbia voglia di giocare la carta della sua vita nella storia quotidiana, senza troppi scossoni e improvvise retromarce, ha bisogno di risolvere due problemi «a monte»:
    * scoprire con sufficiente chiarezza il senso del suo essere «uomo-oggi»;
    * leggere, nella personale identità, il significato del suo essere cristiano, per raggiungere, a questi profondi livelli di esperienza, una integrazione tra fede e vita.
    La maturità umana e cristiana è raggiungibile se tutti gli sforzi educativi sono tesi a guidare il giovane ad elaborare un chiaro progetto di sé in cui la fede sia il principio di risignificazione globale.
    Si tratta, in altri termini, di giungere a comprendere «chi sono» e «chi voglio essere», «che spazio di intervento desidero costruire», «in quale gerarchia di valori ritrovo il senso di ogni esperienza e, al limite, il senso della stessa esistenza»; in modo tale però che la proposta cristiana vi abbia quella dimensione totalizzante che le è caratteristica. Sia ciò che dà sapore al tutto: dai grandi gesti a quelli apparentemente banali. Come l'evangelico «pugno di lievito che la massaia mette in tre misure di farina...».
    Alla disintegrazione tra fede e vita si giunge a larghe bracciate quando i due momenti della comprensione di sé e della risignificazione di fede sono isolati, tanto da riuscire di fatto scollati.
    Se la meta è questa, c'è un modo «vero» di educare a leggere la realtà ed uno «falso», incapace cioè di spingere alla maturità personale.
    Una lettura della realtà che ignori lo sforzo umano di comprensione, per battere immediatamente la via della fede, degenera in una inesatta progettazione di sé: la fede manca del supporto «razionale» su cui inerire. Non è «risignificazione» di nulla, perché manca l'impegno a cogliere il significato umano delle cose.
    Lo stesso rischio, di segno opposto, incombe alla proposta di fede che sia «altra» rispetto allo sforzo di comprensione della realtà; quella cioè che al giovane, faticosamente proteso ad elaborare un progetto di sé in cui riconoscersi, giustappone - con una operazione di incollaggio forzata - il progetto di Cristo, addolcendo gli scricchiolii inevitabili, nel letargo di un «dopo» migliore.
    Quando i termini del processo verso la maturità sono pastoralmente corretti, lo sbocco di questo modo nuovo di progettarsi è l'azione.
    Un «nuovo modo» di definirsi comporta, in linea di coerenza, un modo nuovo di presenza nella storia. I due termini sono correlativi: tanto che l'uno ritrova nell'altro la piena verifica e attuazione.
    Nell'azione, la progettazione di sé gode di un momento particolarmente caldo e favorevole. Nello stesso tempo, una coscienza sufficientemente approfondita di sé apre, spontaneamente, ad un intervento sulla realtà. L'elaborazione di un progetto di sé e una presenza rinnovata nella storia: due condizioni per l'acquisizione di una «maturità» umana e cristiana. Certo, questo difficile processo non avviene nel chiuso della propria individuale esperienza. È troppo rilevante il peso sociale, per pensare di creare un argine di ordine privato.
    Lo spazio «normale» è la comunità. La comunità ecclesiale, se è all'ordine del giorno la maturità cristiana.
    Per gli adolescenti, soprattutto il gruppo che fa della chiesa un fatto di esperienza.
    E così è ricordato il terzo elemento che caratterizza la faticosa conquista della propria maturità.
    In sintesi, quindi, ci pare di poter affermare che la maturità umana e cristiana si muove all'interno di queste tre piste di ricerca:
    * elaborazione di un progetto di sé, con «Dio dentro» (integrazione tra fede e vita);
    * in e attraverso una esperienza (il gruppo, la comunità ecclesiale);
    * verso una presenza impegnata nella propria storia quotidiana.
    Il tema è amplissimo. Non è certo questo il contesto per tentare un ulteriore approfondimento. Mi basta riprendere le affermazioni, per costruire il fondale in cui situare la sottolineatura di esigenze caratterizzanti una pastorale giovanile, «fedele a Dio e fedele ai giovani d'oggi» (RdC 160).

    SCELTE PER UNA PASTORALE GIOVANILE OGGI

    L'insieme delle riflessioni che sono state proposte hanno tratteggiato la meta di un sano impegno di pastorale giovanile. Sono un punto d'arrivo, che affascina «da lontano». E, nello stesso tempo, un criterio con cui verificare le scelte a piccolo cabotaggio che quotidianamente l'operatore pastorale è chiamato a compiere.
    Certo, il discorso non può concludersi così. Non basta delineare con una certa precisione la meta. È indispensabile anche tracciare un cammino concreto, che permetta (o faciliti) il suo raggiungimento.
    E qui, il problema si fa più serio.
    Per due motivi, almeno.
    Se nell'enucleare la meta è possibile stare abbastanza nel generico, proprio perché si tratta di un progetto ottimale, la metodologia non può assolutamente peccare di genericismo. C'è davvero il rischio grave del qualunquismo. Sottolineare l'esigenza del concreto significa immediatamente tirare in ballo gli unici che possono fare un discorso concreto: coloro che qui-ora sono chiamati a scegliere. Quindi gli operatori pastorali nella mischia del loro quotidiano.
    Dalla cattedra o sulle pagine di un libro... le riflessioni hanno necessariamente un sapore di astrattezza, se vogliono essere rispettose delle reali situazioni storiche.
    Fa quindi problema trovare il giusto equilibrio operativo tra proposte così spicciole e pragmatiche, da diventare presto inutili e proposte così teoriche e astratte che non mordono su nessuna situazione.
    C'è poi una seconda difficoltà. Non tutti gli strumenti sono adeguati per raggiungere la meta. Meglio, alcuni la facilitano e altri la complicano. Suggerire una metodologia di cammino comporta necessariamente la scelta di una teologia, di una antropologia e di una pedagogia. Il metodo oggi diventa sempre più «contenuto». Quando si sceglie tra alternative possibili, ci si imbarca in un terreno pieno di provvisorietà e di precarietà. D'altra parte, non si fa pastorale fin tanto che non si sceglie una linea contenutistica e una metodologica e la si porta avanti con estrema coerenza.
    Ecco, allora, il secondo problema: essere coerenti, fino in fondo, nella scelta fatta, senza peccare di dogmatismo: conservando cioè la coscienza chiara della provvisorietà e del valore delle altre prospettive.
    Nelle mie riflessioni cerco di muovermi in quest'alveo. Di provvisorietà pur nella coerenza, da una parte. Nella concretezza più sulle esigenze che sulle formule, dall'altra.
    Questo ne è il limite e, me lo auguro, il pregio.

    1° esigenza:
    Una nuova induttività: il quotidiano come luogo teologico dell'autorivelazione di Dio

    Siamo tutti d'accordo oggi sulla necessità di scegliere una strada induttiva, una «partenza» cioè dal concreto.
    Quale induttività? Quale concreto?
    Il concreto da privilegiare oggi nella pastorale giovanile è l'esperienza quotidiana, intesa come «luogo teologico» in cui Dio si comunica: l'esperienza non come testa di ponte, ma come contenuto della fede (RdC 77).
    Non sono però un illuso. Molte esperienze hanno tutt'altro sapore di quello di essere «luogo d'incontro con Dio». Hanno, per molti giovani, un fascino sinistro, che li cattura e li ingolfa.
    Eppure, proprio queste quotidiane esperienze devono diventare il luogo in cui Dio che sta cercando l'uomo s'incontri con l'uomo che va, per strade diverse, alla ricerca di Dio (cf RdC 198).
    Il Dio di Gesù Cristo è Colui che si riconosce all'interno dell'esperienza di tutti i giorni (cf RdC 122).
    Sono affermazioni che hanno il piglio dello slogan facile e inconcludente. È davvero necessario rifletterci, con attenzione. Il quotidiano, così come è, nella sua bruta consistenza, non rivela immediatamente nessuno... e tanto meno Dio. Il quotidiano, per essere «rivelatore» della presenza operosa
    di Dio, va «salvato». Ci vuole l'azione di un «profeta», capace di intavolare con i giovani un discorso sull'esperienze che vivono, sugli avvenimenti di cui sono protagonisti, verso una comprensione «diversa». In che consiste questa «salvezza»?
    Propongo due linee su cui imbastire la risposta.

    - Prima di tutto, il quotidiano ha bisogno di essere ricondotto a livelli di profondità.
    La spinta al profondo è la nuova ascetica,[5] a cui, tutti, dobbiamo educarci. La verità più vera di ogni esperienza e di ogni avvenimento, è il suo volto profondo.
    Ogni avvenimento umano ha due «facce». Una è spicciola, «visibile», registrabile con strumenti tecnici. Ed una più profonda, più intima, concretissima anche se invisibile.[6]
    Un esempio banale: le parole che ogni giorno pronunciamo. Un buon registratore le sa riprodurre. Ma la loro verità è ciò che passa all'interno dell'interlocutore e del dicitore. Questo «mistero» è più grande di ogni sua espressione. La rivelazione del mistero è sempre un suo tradimento. Nonostante questi limiti, le parole sono normalmente l'unica strada per giungere a cogliere ciò che chi parla si porta dentro.
    Così capita per ogni nostra esperienza, dalla più banale alla più grande. Quello che appare, rivela e tradisce nello stesso tempo, quanto ci portiamo dentro, il «mistero» di noi stessi.[7]
    Dio non lo si incontra nel volto appariscente dell'esperienze. È dentro. È nel mistero delle cose e degli avvenimenti.
    L'educatore è il profeta che rivela il volto misterioso degli avvenimenti, per mettere il giovane all'ascolto della verità di se stesso e quindi in attenzione a Dio.
    Ed è un'impresa difficile. Perché tutto oggi ci porta a fermarci all'esterno: delle esperienze, degli avvenimenti, delle cose. Siamo, tutti, catturati dal fascino del superficiale, incapaci di una vera «ascesi del profondo». I giovani soprattutto. Essi sono presi dalle cose che fanno. Non è possibile chieder loro di dimenticare ciò che li interessa, per mettersi in ascolto di una proposta di fede. Sarebbe strano annunciare il Dio dell'incarnazione, chiedendo agli uditori di «disincarnarsi» dal proprio quotidiano. Non vogliamo annunciare «un altro mondo», lontano, vuoto e alienante. Ma «questo mondo» che sta a cuore, che affascina. Da comprendere e da vivere con una intensità e profondità tale da scoprire che la verità dei propri progetti è «un'altra», più in avanti di ogni sogno, più impegnativa di ogni intervento, più sconvolgente di ogni pretesa.
    Ecco così delineata la prima istanza: dal superficiale al profondo, per «salvare» l'esperienza.

    - Ma non è sufficiente una buona terapia di approfondimento.
    Il pericolo di essere frammentari e slegati è forte, quando si parte dagli eventi o dagli interessi, così caotici ed instabili: la persona ha sempre una sua unità, come ha unità la persona di Cristo.
    Accanto e in sintonia con la via dell'approfondimento, diventa inevitabile procedere per «concentrazione», e questo con due movimenti interdipendenti. Una prima convergenza al centro antropologico, con cui si passa dagli innumerevoli problemi ed interessi periferici nel giovane alle sue aspirazioni profonde e centrali, promotrici di tutti gli impulsi e unificanti tutte le esperienze in un nucleo centrale. E quella ulteriore convergenza al centro teologico, raccomandata tanto dal cap. IV e V del RdC, per la quale si riportano tutti gli aspetti del mistero cristiano al nucleo centrale ed unificante che è Gesù Cristo, nostro Salvatore, «la chiave, il centro e il fine dell'uomo nonché di tutta la storia umana» (cf RdC 57). Aggiungo qualche parola di precisazione.
    Ciascuno di noi, in termini più o meno riflessi, ha un suo «progetto di sé»: i piccoli, grandi gesti di una giornata, sempre, sono spontaneamente ad esso collegati. Lo rendono vero, concreto, comprensibile. Dialogare con la persona significa, alla radice, entrare in rapporto con questo profondo e unificante progetto di sé: lì, davvero, il rapporto è «tra uomo e uomo».
    Spesso è così annebbiato questo personale progetto di sé, che neppure lo stesso protagonista riesce a decifrarlo.
    L'educatore si pone, ancora una volta, come il «profeta» di questa concentrazione interiore. Per un servizio davvero efficace, ha bisogno di una larga dose di ottimismo. Nel profondo di ogni persona esiste una radicale sete di felicità, di bene, di infinito, che va rivelata, smascherata dai camuffamenti distorti di cui spesso storicamente si riveste.
    La verità dell'uomo è la sua appassionata ricerca di amore. Al limite, dell'amore del Padre: la nostalgia di essere da lui amato e per lui importante. La concentrazione antropologica è «vera» se giunge quindi all'ottimismo radicale del Dio dell'incarnazione: il Dio di Gesù Cristo.
    Al giovane affamato di Dio dobbiamo rivelare però non una dottrina, un insieme freddo di norme morali e di verità metafisiche. Lo lasceremmo con una fame di Dio, acuita e non risolta. Dobbiamo rivelargli una «Persona». Il Cristo morto e risorto, perché ciascuno possa essere «realizzato», nella insondabile pienezza di amore di cui è capace (cf RdC 58-69).[8] In Cristo trova consistenza e sviluppo la fede e l'impegno morale.
    In una parola, l'annuncio dell'amore del Padre deve veramente essere così vero e autentico da essere «assimilato come buona novella nel significato salvifico che ha per la vita quotidiana. La parola di Dio deve apparire ad ognuno come una apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni. Diventerà agevolmente motivo e criterio per tutte le valutazioni e le scelte della vita» (RdC 52).

    2° esigenza:
    La parola di Dio come comprensione rivelata della realtà

    Ogni esperienza umana coinvolge il piano d'amore del Padre, in Cristo e per lo Spirito. Non è possibile quindi capirci adeguatamente se non grazie al dono della sua Parola di rivelazione.
    La Parola di Dio è strumento essenziale, insostituibile, per «aggredire» fino in fondo la propria esperienza. Tanto in fondo e tanto verso la verità da incontrare l'amore del Padre e quindi la vocazione personale ad una novità radicale di conversione e di impegno.
    Nel processo di comprensione profonda e «concentrica» della propria esperienza, è perciò indispensabile dare uno spazio privilegiato alla Parola di Dio, come luce che illumina e fuoco che riscalda la ricerca umana. E questo a due livelli complementari.

    - Un primo livello che chiamo del «dopo l'esperienza umana».
    È un dato abbastanza pacifico, in campo teologico, quello che ci porta a costatare che la parola di Dio diventa significativa per l'uomo solo all'interno della sua esperienza umana.
    La parola di Dio ci può dire qualcosa, è parola per noi, cioè messaggio, lieta novella, solo se parla il nostro linguaggio, si riferisce alle nostre esperienze, assume queste nostre esperienze, anche profane, come categorie espressive del suo annuncio. Queste nostre esperienze diventano, proprio nella loro profondità umana, fondamento della nostra comprensione del messaggio di Dio.[9] Esse gli danno senso. Se Dio non può parlare all'uomo che parlando le sue parole, riferendosi alle sue esperienze, queste esperienze diventano la chiave ermeneutica indispensabile per la comprensione del messaggio di Dio (cf RdC 77, 121, 122).
    Il discorso può e deve essere anche capovolto.
    Le esperienze umane hanno strumenti di comprensione umani, tecnici: le scienze dell'uomo e la sensibilità umana.
    Per capire la realtà è indispensabile utilizzarli. Anche, quindi, per capirla in pienezza. Essi non danno la verità dell'esperienza, ma solo una verità parziale: indispensabile però per poter cogliere quella verità totale che alla esperienza proviene solo da una comprensione maturata all'interno della parola di Dio. Senza l'uso di questa strumentazione che ci permette un approccio povero ma irrinunciabile alla realtà, la Parola di Dio rimarrebbe priva di mordente, perché colui a cui essa è destinata, come rivelazione del senso più pieno della propria esperienza storica, non ha ancora capito sufficientemente bene la sua stessa esperienza.
    Per molti giovani, la crisi di significatività della parola di Dio è proprio a questi livelli. Vivono esperienze umane così povere che per loro la parola di Dio è estremamente povera. Oppure, più frequentemente, hanno capito umanamente così poco delle proprie esperienze che il dono della Parola provoca in essi una istanza di rifiuto.
    Insomma, la parola di Dio è indispensabile per capire fino in fondo la propria esperienza, ma è comprensione piena della propria esperienza solo quando essa esperienza è stata capita attraverso le categorie umane che la rendono inizialmente comprensibile.
    Perché se ogni storia è storia di salvezza, nessuna analisi tecnica è in grado di rivelarmi il mistero dell'amore di Dio in azione che fa di questa storia una storia di salvezza. Ma se la storia della salvezza è la «storia» quotidiana, posso capire qualcosa della salvezza nei termini in cui comprendo il senso della storia.
    La Parola di Dio illumina la storia, compresa nelle categorie umane, per rivelarmi il senso suo più pieno, svelandomi che in essa è in azione incessante la morte e la risurrezione di Cristo come atto radicale dell'amore del Padre. Mi rivela cioè la «verità ultima» della mia esperienza.

    - Esiste un secondo livello che chiamo della «precomprensione».
    La Parola di Dio non solo ci dice la verità dell'uomo, se abbiamo cercato di comprenderlo anche grazie alla collaborazione delle scienze umane. Essa si pone come comprensione previa ad ogni analisi sull'uomo e sulla sua esperienza.
    Ci rivela una sensibilità, un atteggiamento di giudizio che segnala la necessità di una inversione di rotta nell'uso delle scienze umane, se la comprensione che da essa deriva non «apre» a problemi più profondi, tali cioè da chiamare in causa la «verità rivelata» dell'uomo.[10] Mi spiego con un esempio.
    Se leggo la storia unicamente con categorie di «lotta di classe», posso giungere ad una certa comprensione della storia. Ma concluderò con una sua salvezza immanente. Non c'è più bisogno di un Dio Crocifisso, per la liberazione totale. Basta modificare alcuni ingranaggi «tecnici». Una comprensione del genere è una falsa (oggettivamente) comprensione della storia, proprio nei termini in cui pretende di essere totalizzante. In essa non c'è posto per Dio.
    La parola di Dio non mi fornisce alternative tecniche per comprendere «quella» storia. Ma contesta la comprensione che ne ho avuto, secondo la categoria della «lotta di classe». Mi chiede di ripartire da capo nello sforzo di leggere la realtà, di tentar altre strade, di sfornare prospettive più aperte. Mi costringe, cioè, a progettare un umanesimo «aperto», capace di sostituire quell'umanesimo chiuso e immanente, in cui ero stato catturato per un uso troppo esclusivo delle scienze umane.
    A questo livello la parola di Dio è diventata «strumento rivelato» di una precomprensione della realtà. Dà una sensibilità radicale a valutare l'adeguatezza o meno degli strumenti umani utilizzati, giustamente, per iniziare la lettura dei fatti umani.

    3° esigenza:
    Ogni vocazione è un impegno: disponibilità all'azione

    Questo paragrafo intende sottolineare un aspetto che reputo caratterizzante per la pastorale giovanile attuale: la necessità di educare ad una fede «impegnata nella storia». L'impegno, in altre parole, a proiettare la nuova comprensione di sé e della storia in un rinnovata presenza «politica».
    Il progetto di sé, rielaborato alla luce della Parola di fede, conduce e costringe ad una nuova e rinnovata presenza nella vita quotidiana. Non voglio addentrarmi nell'elenco delle modalità e nei problemi aperti. Mi basta indicarne l'istanza, per completezza di sintesi e per fondarla dalla «parte della fede» e non della sola prassi storica.
    È interessante notare che il cammino previsto, ripercorre le linee caratteristiche della RdV:[11]
    * il punto di attacco sono le esperienze: la vita quotidiana
    * la vita quotidiana ha bisogno di essere compresa: la parola di Dio ne è la comprensione più piena e definitiva
    * Lo spazio di verifica è nuovamente la vita quotidiana.
    Il luogo dove intervenire, a livello educativo, per creare questa integrata spinta verso una nuova presenza nel quotidiano, è il «progetto di sé», il cosiddetto «sistema motivazionale». Se non vogliamo creare dei disintegrati (o a livello psicologico o a livello teologico) la spinta all'azione deve nascere nella progettazione di sé. E se si tratta di una spinta all'azione sulla linea della fede, è nel sistema motivazionale che va raggiunta l'integrazione tra fede e vita.
    Un'affermazione del genere pone due istanze complementari, che richiamo solo come elenco:
    - è indispensabile collegare continuamente azione a progetto di sé, per evitare l'emotivo o il non-riflesso;
    - è pure indispensabile offrire una proposta di fede capace di sostenere l'urto dell'impegno (una fede priva di presa storica viene facilmente rimossa perché insignificante) ed una proposta che diventi la risignificazione del progetto di sé, integrata cioè nel sistema motivazionale personale (per evitare il conflitto di motivazioni, che apre spontaneamente alla disintegrazione tra fede e vita).[12]
    Il paragrafo non può considerarsi concluso con queste affermazioni; un nuovo capitolo è importante mettere sul tappeto.
    Noi, tutti, veniamo da una esperienza educativa che ha privilegiato l'oggettivo nei confronti del soggettivo. Mi spiego. Era normale impiantare la decisione morale attraverso un processo deduttivo. Il bene e il male è «questo», in assoluto. Quindi ci si deve comportare così e non cosà. Ciò che oggettivamente è valore, deve essere valutato valore anche soggettivamente. La valorizzazione (valutazione soggettiva) deve coincidere forzatamente con il piano oggettivo dei valori. Questo modo di fare poteva funzionare in una società statica e non secolarizzata.
    Oggi, molti giovani hanno esattamente capovolto i termini del discorso, affermando che è valore solo ciò che è valore qui-ora per me. Il soggettivo è diventato il criterio decisivo dell'oggettivo.
    Dove dobbiamo situarci, come educatori della fede?
    Il problema è serio, proprio nel tema di cui stiamo trattando.[13] Si è detto indispensabile educare ad una fede impegnata nella storia: quindi decisa e coinvolta in azioni; compromessa nella sua identità in ciò che viene compiuto storicamente. Basta un buon storicismo (tutto va bene, purché si faccia qualcosa) o è indispensabile affermare la permanenza di un progetto oggettivo cui adeguare le personali contingenti valorizzazioni? Per rispondere, mi pare importante fare due distinzioni. Sul piano dei contenuti, la realizzazione di sé passa attraverso il «sacrificio beatificante» della propria autonomia, per riconoscere alla verità diritti inalienabili nei confronti della nostra libertà e intelligenza. È un fatto che non può essere rimesso in discussione. Il progetto più vero dell'uomo è Cristo. Nel confronto con la sua persona «saltano» e si stemperano tutti i nostri progetti, anche i più ardimentosi. Lui è la contestazione permanente alla affermazione della nostra autonomia, anche se la tentazione di essere «il fondamento del bene e del male» (autonomia) percorre la storia dell'uomo fin dalle sue origini.[14]
    Come educare (noi stessi e i giovani) a questa mentalità «pasquale»? Ho l'impressione che dobbiamo prendere il coraggio a quattro mani e capovolgere il quadro, sul piano del metodo, privilegiando il soggettivo sull'oggettivo. Prendiamo atto che la valorizzazione soggettiva è normalmente criterio di azione. Coinvolgiamoci a pieno titolo nella fatica di essere coerenti con il piccolo parziale progetto di sé che ci troviamo tra mano quotidianamente. Perché l'educatore che sta con i piedi al sicuro nelle norme etiche e da questo piedistallo lancia minacce e scomuniche... è condannato alla disattenzione; rinuncia quindi al suo ruolo profetico, nei termini in cui lo vuole salvare.
    Coinvolti con i giovani nell'identica ricerca legata al qui-ora, è possibile contestare le scelte sotto il fascio di luce che proviene da un progetto più grande. E iniziare così quel faticoso cammino verso una verità più avanti dei nostri passi i più avanzati, che contraddistingue la vita quotidiana del cristiano.
    Una strada che conduce non alla osservanza burocratica di un indice di norme etiche, ma alla piena realizzazione dell'immagine più vera e affascinante di sé, nel confronto, colpevolizzante e entusiasmante ad un tempo, con Cristo, la «verità» dell'uomo.

    4° esigenza:
    Alla ricerca di ciò che specifica l'identità del cristiano

    Da molte parti oggi si costata la crisi di identità che travaglia il cristiano, soprattutto se giovane. Non ci si riconosce più nella definizione tradizionale di identità cristiana e si va, spesso a tastoni, alla ricerca di una nuova identità.
    Il problema è acuito dal fatto che l'esperienza cristiana oggi è avvertita poco «rilevante» a livello sociale. Per recuperare rilevanza diventa spontaneo a molti giovani rinunciare ad una precisa identità[15] per quello strano processo che conduce a rifiutare (magari sublimando il tutto con parole grosse) una identità contestata, per la ricerca di un «posto al sole» significativo e gratificante. Fatti tutti che ripropongono oggi, con un peso particolare, il problema dello specifico del cristiano nell'impegno quotidiano. L'identità non discrimina ma qualifica per il servizio.
    Parlare di identità significa imbarcarsi in un capitolo lungo e complicato, per affrontare il quale ci vuole spazio e competenza ben più vasti della presente.
    Non posso però sorvolare il problema, solo perché è difficile esaminarlo. Presento quindi qualche accenno.[16]
    Nella risposta che do all'interrogativo sulla identità cristiana, è facile notare che ritornano molte delle cose dette precedentemente.

    - La vita umana: una esistenza sacramentale
    L'esperienza di tutti i giorni è una realtà tipicamente umana, seria, interessante e consistente, proprio perché umana.
    Questa realtà è storicamente lo strumento privilegiato attraverso cui Dio si comunica all'uomo: la Parola di Dio è parole carica di significato per l'uomo, solo all'interno di una esperienza umana significativa.
    Per questo, si può affermare che l'uomo entra in dialogo con Dio «dentro» la sua esperienza quotidiana. La realtà umana è quindi sacramento (= manifestazione e realizzazione) dell'incontro con Dio:
    - in quanto esperienza umana: non c'è bisogno di ulteriori preoccupazioni;
    - alla sola condizione che sia «autenticamente umana»: il suo essere autentica condiziona la possibilità o meno di «incontro» con Dio.
    Se le cose stanno così, che significa vivere «autenticamente» l'esperienza quotidiana?
    La risposta ce la dà Dio stesso. Una esperienza-è umanamente autentica se colui che la vive, sa farsene di fatto uno «strumento incondizionato di amore concreto e liberatore per i fratelli» (cf «il giudizio universale» di Mt 25 e il racconto della «lavanda dei piedi» in Gv). La disponibilità a «dare la propria vita» per la liberazione e felicità dei fratelli è il criterio sommo per l'autorealizzazione.
    È quindi in questa disponibilità che si realizza pienamente la sacramentalità dell'esperienza umana per l'incontro con Dio.

    - La vita umana: una esistenza pasquale
    Il «mistero pasquale» di Cristo (la sua morte e resurrezione come «fatto storico» e come «fatto metastorico», che trascende cioè i limiti di spazio-tempo perché ha Dio come protagonista, per diventare la causa radicale della liberazione totale di tutti gli uomini e della storia) si trova alla confluenza di due «fatti»:
    - la verità dell'uomo: l'uomo maturo avverte che per spinta «naturale» la realizzazione di sé passa attraverso la disponibilità a perdere qualcosa di sé. Nel progresso, questo qualcosa sono le conquiste passate, nel lavoro è la responsabilità di dare un peso sociale alle proprie scelte, nell'amore la preminenza alla felicità dell'altro e la disponibilità al sacrificio...
    - il sacrificio beatificante: il coraggio di pronunciare liberamente un sì incondizionato alla proposta di amore del Padre, «morendo» alla voglia di capirci fino in fondo, alla propria autonomia e autosufficienza, è ciò che ci dà la «beatitudine» di diventare figli di Dio.
    Questo fidarsi totalmente di lui, questo «sì», è morte perché si compie nella rinuncia ad una autonomia che potrebbe passare per la nostra suprema dignità, ma è vita perché ci dà la gioia di diventare figli di Dio. È sacrificio-beatitudine.
    Per la morte e resurrezione di Cristo, la verità dell'uomo (Il coraggio di imprimere alle proprie esperienze la dinamica morte/vita) diventa storicamente quel sacrificio beatificante che ci fa «figli di Dio».
    Per la morte e resurrezione di Cristo, dunque, l'uomo che vive autenticamente la sua esperienza umana è di fatto inserito nella storia della salvezza. L'inserimento è legato alla sua disponibilità ad essere vero e autentico (capace cioè di «perdersi per ritrovarsi»).
    Ciò che dà corpo a questa disponibilità è proprio la vita quotidiana vissuta come «servizio incondizionato di amore concreto ai fratelli» (il morire per gli altri). Che cosa significa amare incondizionatamente nel concreto delle singole situazioni... è tutto da inventare. Certo non è possibile fare semplici deduzioni: o dall'esperienza o dai principi astratti.
    La responsabilità è sulla coscienza personale.
    Ma in queste concrete decisioni la coscienza non è criterio di verità. La verità ha dei diritti sulla nostra libertà e intelligenza.
    Accettare di non essere noi il «fondamento del bene e del male», significa, ancora una volta, accettare una dialettica di morte per la vita, che inserisce nella morte e resurrezione di Cristo.
    L'impegno morale realizza la persona, se essa accetta il sacrificio della propria autonomia.

    - A che serve essere cristiani?
    Se le cose stanno così, a che serve «essere cristiano»? Non basta essere autenticamente uomo?
    Il cristiano ha il dono di «supervalorizzare» la sua esperienza umana, a tre titoli :
    - sul piano storico: è così difficile definire in concreto l'autenticità dell'uomo che c'è un gran bisogno di quella Parola che il Padre ha donato ai credenti.
    Di fatto, inoltre, è così difficile «saper morire per far vivere» con i gesti (e non a sole parole) che ogni tensione ad un amore concreto per gli altri, capace di dare la vita per la felicità dei fratelli, affonda le sue radici nel gesto di amore che Cristo ha compiuto.
    - sul piano della fede: il cristiano ha il dono di conoscere il senso profondo, radicale, della sua esperienza umana. Sa, per dono, che l'esperienza quotidiana è già esperienza di Dio. Ha trovato così un meraviglioso livello di «maturità»: la riconduzione in unità di tutte le sue molteplici esperienze (comprese come impegno ad amare incondizionatamente gli altri) e lo svelamento del loro significato decisivo (l'esperienza quotidiana come esperienza di Dio).
    - sul piano della speranza: la morte e risurrezione di Cristo è un fatto radicale nella storia dell'umanità. È già definitivamente la salvezza della storia, anche se siamo trascinati nell'incertezza e nella lotta quotidiana del «non ancora». Nella speranza, il cristiano è certo della vittoria, al di là degli scacchi quotidiani (personali e sociali). Sa che anche quando tutto sembra fallire, la vittoria è certa, nella morte e resurrezione di Cristo. Anzi sa, per dono, che lo scacco lo avvicina molto alla morte di Cristo e quindi lo pone con maggiori garanzie sulla prospettiva della resurrezione come vittoria.

    5° esigenza:
    L'esperienza di gruppo come esperienza ecclesiale

    La fraternità, la vita di comunione, il vivere con Dio assieme alla moltitudine dei fratelli evitando ogni privatizzazione della propria fede e religione, è una dimensione essenziale dell'esperienza cristiana. Tale aspetto rientra evidentemente tra le finalità di una saggia pastorale giovanile. Ma può restare solo raccomandazione e riflessione astratta. O può diventare esperienza concreta e quotidiana.
    In questa seconda scelta, che è quella giusta, sorge l'attenzione pastorale alla vita di gruppo giovanile, cioè all'innata tendenza dei giovani di portare avanti la propria ricerca dentro e attraverso la vita di gruppo.
    Sono a tutti noti i rischi del gruppo chiuso, settario, isolato dalla massa dei fratelli, come sono noti i rischi di una comunità solo retorica, perché non vissuta nel concreto di una fitta rete di interazioni. È perciò fondamentale riconoscere nella scelta della vita di gruppo la funzione di mediazione, per cui il gruppo è autentico se è mezzo per capire ed esercitare un rapporto nuovo, di cristiana fraternità con la comunità locale, con la comunità dei credenti e di tutti i figli di Dio.
    Non basta quindi il gruppo, comunque. Per essere serio e interessante, esso deve «mediare coi fatti» l'esperienza ecclesiale.
    Un'affermazione del genere apre un capitolo importante nella pastorale giovanile: l'utilizzazione della dinamica di gruppo in vista della piena esperienza ecclesiale.
    Non lo affronto. Potrebbe diventare il tema di tanti successivi interventi. Rimando, coloro che fossero interessati a sviluppi più dettagliati, ai molti studi sull'argomento.[17]

    6° esigenza:
    Educare ad atteggiamenti in linea di continuità con la fede-speranza-carità

    Il RdC denuncia la disintegrazione tra fede e vita come uno dei mali più gravi del nostro tempo. E questo significa che fede e vita corrono su due binari paralleli.
    Come «fare incontrare» fede e vita?
    Il modo con cui abbiamo costruito la pastorale giovanile è stato orientato da una preoccupazione di fondo: permettere una vera pastorale di «saldo» tra fede e vita.
    Ma non basta volere questa meta e indicarne le esigenze relative. Qualcosa di più concreto va fatto, sulla sponda della «vita» (e quindi dell'educazione anche solo umana) per permetterle l'integrazione reale con la fede. A questo livello diventa stimolante il discorso degli atteggiamenti.
    Non vogliamo addentrarci in un'analisi scientifica. Ci basta affermare alcuni elementi «centrali» per cogliere una definizione descrittiva del fatto.[18]
    Ciascuno di noi «scatta» all'azione attraverso una sintesi armonica di scelte di volontà e di attrazioni legate all'emozione. Non siamo puro sentimento ma neppure puro raziocinio. La libertà sta nella faticosa sintesi dei due fattori (motivazione ed emozione), attraverso una decisione, inventata momento per momento, sotto la pressione di quanto ci attira (sia in senso positivo che negativo) nello sforzo di cogliere il «peso» preciso della proposta sullo sfondo di quel progetto di sé che ciascuno si va costruendo.
    L'atteggiamento è questa «disposizione all'azione», una strutturazione cioè del proprio dinamismo psichico che orienta il comportamento a riguardo di un oggetto «proposto».
    La strutturazione, come si diceva sopra, è una sintesi dinamica di aspetti legati all'emozione e di aspetti legati alla motivazione (quindi di ordine razionale). Perché questo discorso tecnico?
    Le singole scelte che descriveranno con i fatti la vita quotidiana di un giovane, dipendono, in buona misura, da questa «strutturazione psicologica». Se di fronte ad un oggetto proposto la reazione è immediatamente in una certa linea (la disabitudine al sacrificio, per esempio, fa rifiutare istintivamente tutto ciò che ne ha un po' il sapore); se prevale la parte emozionale, su quella razionale; se il confronto con un sistema motivazionale è sempre e solo molto superficiale... facilmente le scelte saranno di questo stile, con tutte le conseguenze che uno può supporre.
    La libertà è stata guidata e incanalata verso una precisa direzione, grazie alla batteria di atteggiamenti che ci si è costruito.
    Il tutto è ribaltabile, in chiave positiva. L'abitudine facilita il comportamento: ce lo ricordano anche i nostri «nonni», senza aver consultato i grossi volumi di psicologia.
    Il domani, insomma, si prepara nell'oggi. Meglio, si vive nell'oggi.
    Il modo di rapportarsi con le cose e con le persone, cui ci si abitua oggi, determina - con intensità variabile, con possibilità di ripresa e di conversione, d'accordo! - il nostro essere futuro.
    Se le cose stanno così, il problema dell'educazione agli atteggiamenti è veramente rilevante. Dobbiamo fare un discorso chiaro.
    Nessuno vive in una campana di vetro: non si dà neutralità nei confronti degli atteggiamenti. Il modo con cui ci si rapporta alla realtà oggi, non è mai neutrale nei confronti del domani.
    Ci sono sociologi che hanno studiato i motivi del successo nella carriera in rapporto all'educazione ricevuta a scuola. Hanno concluso con dati che ci fanno pensare. Una percentuale molto alta (in alcuni casi fino al 90%) dipende dagli atteggiamenti appresi sui banchi di scuola (competitività, arrivismo, individualismo... nei confronti della società dei consumi). Solo una minima parte è relativa al bagaglio di conoscenze teoriche e tecniche che uno ha appreso.
    Agli atteggiamenti ci si educa comunque: attraverso le piccole cose che formano la trama dei nostri rapporti interpersonali quotidiani.
    Se non vogliamo che l'educazione indiretta cancelli quella diretta offerta con tanto amore e passione, siamo costretti a mettere sul tappeto il discorso degli atteggiamenti.
    Assodato questo, inizia la fase positiva.
    Il modo di rapportarsi con gli «oggetti» psicologici proposti dipende molto dal tipo di educazione ricevuta. Il grosso nodo degli «atteggiamenti» è nelle mani degli educatori.
    Il domani, in altre parole, non si costruisce prima di tutto attraverso le mille esaltanti proposte «verbali» e neppure attraverso la presentazione di modelli concreti di persone che hanno scelto.
    Il domani si forgia, in buona parte, attraverso lo stimolo educativo, come «liberazione della libertà», ad acquistare una buona batteria di atteggiamenti.
    Nell'educazione indiretta (quella che passa l'impianto educativo come dato di fatto: famiglia, scuola, comunità educative, parrocchia...), se si lavora per abituare ad una capacità critica tale da «permettere» di essere liberi nei confronti dei condizionamenti negativi e se si riesce a creare un clima educativo positivo (un clima in cui riscuotano l'approvazione sociale atteggiamenti «maturi» umanamente e cristianamente).
    Nell'educazione diretta (le singole proposte fatte a ragion veduta, con la toga addosso dell'ufficialità educativa...), se si guida davvero ad una presa di coscienza sulla linea dei discorsi che stiamo facendo, evitando la facile retorica e la controtestimonianza.
    Il discorso si allarga a macchia d'olio. D'altra parte, quando si hanno tra mano persone, non si può viaggiare sulle ali del solo entusiasmo o del genericismo.
    Partiamo da un esempio, classico dell'impostazione teologica cristiana. S. Giovanni dice che non è possibile amare veramente Dio se non si ama il prossimo: la motivazione è legata alla «visibilità» (Dio che «non si vede» nel prossimo che «si vede»). È un chiaro discorso sugli atteggiamenti.
    Vivere nella carità teologica significa apprendere a rapportarsi con gli altri in atteggiamento d'amore. L'educatore della fede è preoccupato soprattutto di stimolare il giovane ad un atteggiamento di amore-servizio nei confronti degli altri. Questo modo di intessere i rapporti interpersonali (servizio o sopraffazione) dipende in buona misura dalla educazione; un modo o l'altro è il frutto di un tipo di educazione o di un altro, nell'ordinaria amministrazione dell'economia di salvezza.
    Educare all'amore di Dio significa perciò stimolare a mettersi in atteggiamento di reciproco servizio e «annunciare» che in questo servizio umano è all'opera un progetto d'amore ontologicamente diverso: la carità soprannaturale.
    L'insistenza sull'aspetto soprannaturale dell'amore di Dio senza una correlativa educazione alla dimensione umana-naturale dell'amore interpersonale porta a quella disintegrazione tra fede e vita, che RdC denuncia come uno dei «tarli» della vita di fede.
    L'esempio ci aiuta a comprendere alcune cose importanti nel quadro dei discorsi che stiamo facendo:
    * è necessario partire dal lato «educabile» («umano», se si vuole: ma il termine è inadeguato perché pone separazioni assurde), per giungere alla pienezza della vita;
    * questo lato «educabile» lo chiamiamo «atteggiamento»;
    * è necessario individuare atteggiamenti che siano corrispettivi, correlativi alla meta che si vuole raggiungere (si pensi al rapporto tra amore umano e amore di Dio);
    * l'elenco degli atteggiamenti è variabile, perché relativo alla meta, tenendo conto però delle modalità di tempo, di spazio, di «cultura» generale (la ricerca va fatta sempre «in situazione», cioè nel contesto socioculturale all'interno del quale si è chiamati a spendere la propria vita).
    Si possono fare degli esempi, tenendo conto della media delle situazioni quotidiane che i nostri giovani vivono: il senso del gratuito, dei tempi lunghi, la disponibilità al sacrificio, il significato della croce nella dialettica morte/vita (ho parlato sopra della «verità dell'uomo», proprio con questa connotazione), la capacità ad una fiducia reciproca nei rapporti interpersonali...
    Ogni comunità deve porsi il problema e decifrare nel proprio concreto gli aspetti su cui insistere, quelli da autenticare, quelli da ricostruire in un progetto educativo coraggiosamente «alternativo».[19]

    UNA PASTORALE GIOVANILE AMMALATA DI OTTIMISMO?

    Un'obiezione potrebbe farsi strada nel lettore pensoso. Non ci troviamo in presenza di una pastorale giovanile troppo ottimistica? La realtà del peccato ha un suo posto adeguato in questa prospettiva? E quale, in concreto?
    L'obiezione è importante. Non può essere elusa, a suon di battute. Il peccato fa parte dell'esperienza quotidiana: «il libero aprirsi dell'uomo alla salvezza soprannaturale è radicalmente ostacolato dal peccato». Per questo «tacendo questo aspetto dell'antropologia cristiana, non si renderebbe pienamente ragione della missione di Cristo, che è posta in relazione con il peccato e si svolge attraverso il mistero della croce». Tuttavia la riflessione pastorale sul peso condizionante del peccato deve essere svolta «nella convinzione che si è riversata su tutti, con ben più grande abbondanza, la grazia di Dio e il dono conferito per merito di un solo Uomo, Gesù Cristo. Il disegno di Dio è di comunicare se stesso in Gesù Cristo, con una ricchezza che trascende ogni comprensione e travolge ogni ostacolo» (cf RdC 93 passim).
    L'elaborazione di una metodologia pastorale assume significato esattamente nei termini in cui diventa strumentazione adeguata per facilitare l'irruzione del dono di Dio all'uomo, tenendo conto del peccato come «variabile indipendente», come punto fisso cioè cui far riferimento nella ricerca degli strumenti umani e nella presentazione di quelli divini.
    Alla radice di tutto però c'è una chiara scelta di campo da fare. Mi pare indispensabile optare per l'ottimismo di Rom 8: «Se Dio è con noi... chi sarà contro di noi?».
    Parlare di ottimismo, nel contesto del mistero della morte e risurrezione di Cristo significa:[20]
    * affermare che l'esistenza quotidiana è principalmente lo spazio temporale in cui l'uomo ritrova la gioia di permettere al suo Dio di salvarlo,
    * proprio perché quotidianamente tocca con mano la contraddizione del peccato, che gli dà la consapevolezza esperienziale di essere «peccatore bisognoso di salvezza»,
    * nella certezza che la salvezza è la novità diffusa abbondantemente nella morte e risurrezione di Cristo, all'unica storica condizione di ritrovare ogni giorno la verità di se stesso nella coscienza di essere «peccatore».
    Ho l'impressione che i giovani d'oggi siano molto sensibili a questa coscienza di «incoerenza radicale» e quindi a questa «istanza di salvezza». Soprattutto quando l'esperienza del peccato tende a superare la prospettiva «individuale, privata e intimista, affermata solo quanto basta per aver bisogno di una redenzione "spirituale" che non mette in questione l'ordine nel quale viviamo» per giungere invece a cogliere il peccato «come fatto sociale, storico: mancanza di fraternità, di amore nelle relazioni con il prossimo, rottura dell'amicizia con Dio e con gli uomini, e, conseguentemente, divisione interiore, personale».[21]
    Non sempre atteggiamenti del genere sono in diretta sintonia con la rispettiva verità sul piano trascendente. Toccherà proprio all'educatore della fede iniziare con essi quel processo di autentificazione, di cui ho parlato nelle pagine precedenti, sul versante positivo.

    UNA CONCLUSIONE APERTA: LA RESPONSABILITÀ DELL'EDUCATORE

    Ho indicato alcune scelte preferenziali con cui caratterizzare una pastorale giovanile fedele a Dio e fedele al giovane d'oggi, per sintonizzarla con quel criterio fondamentale di cui ci parla il RdC. Non basta però una più o meno ampia chiarezza concettuale. L'educatore, nel concreto della situazione, ha il compito di mediare le scelte, impastando continuamente tensione ideale e realismo storico.
    Altrimenti ogni discorso di educazione alla fede diventa tanto utopico da scollare la presa con il giovane «vivo».
    Le mie riflessioni non sono un rullino di marcia. Ma uno stimolo nelle mani dell'educatore. Sono una scelta provvisoria, da verificare e superare. Un'impostazione globale e non una prassi.
    Ad ogni educatore della fede quindi il compito duro di mediare queste pagine nel concreto della sua situazione. Nella fatica di inventare momento per momento, il gesto e la parola giusta per «non trascorrere giorno senza che in qualche modo sia stato annunciato l'amore di Dio per tutti gli uomini in Gesù Cristo», tessendo nella vita quotidiana «la fitta e misteriosa trama entro cui si incontrano Dio, che si rivela e l'uomo, che lo va cercando per varie strade» (RdC 198).

    NOTE

    [1] Citazioni se ne potrebbero riportare molte, per «dimostrare» l'assunto di partenza e soprattutto per precisarne il contenuto.
    Ne trascrivo una, significativa per il «clima pastorale» nel cui ambito si muove la rivista: «Non è possibile impostare una educazione alla fede, se non inserendola all'interno di un processo di umanizzazione; per questo la catechesi si orienta oggi più attentamente verso una vera promozione della persona. Quando la fede è pienamente integrata nella vita del credente, allora la coscienza del cristiano non conosce fratture, è profondamente unitaria e tende a giudicare e ad agire con vigore ed entusiasmo. Le espressioni "fede e vita", "fede impegnata" "mentalità di fede", "maturità della fede", così frequenti nella letteratura pastorale odierna, rilevano la realtà di una fede che, secondo la vocazione data all'uomo da Dio, tende a diventare pienezza e vertice di unità di tutto l'uomo, sicché ogni crescita nella fede fa l'uomo più grande e ogni crescita in umanità è crescita verso il divino» (Capitolo generale speciale della congregazione salesiana, 312-313).
    [2] Si veda la posizione «barthiana» nello studio di L. SERENTHÀ, Una cultura aperta alla rivelazione, in Note di Pastorale Giovanile, 1973/6-7. Questa posizione percorre attualmente molte spiritualità giovanili e quindi molti movimenti impegnati.
    [3] Il problema è trattato con ampiezza rilevante di particolari da H. SCHILLING, Teologia e scienze dell'educazione, Armando.
    [4] Almeno questa è l'impressione predominante, anche se, evidentemente, le sfaccettature concrete possono essere diverse. Si vedano le seguenti opere, l'ultima delle quali è particolarmente orientata alla problematica della pastorale giovanile: Il rinnovamento della catechesi in Italia, Università salesiana di Roma; E. ALBERICH, Orientamenti attuali della catechesi, LDC; W. ESSER - G. NEGRI, L'incontro personale con Dio nella nuova catechesi, LDC; C. BUCCIARELLI, Realtà giovanile e catechesi, LDC.
    [5] J.B. METZ, Sulla teologia del mondo, Queriniana, ha un capitolo di estremo interesse sulla necessità di progettare una nuova «ascesi», corrispondente alla nuova sensibilità teologica sulle realtà terrestri.
    [6] Esempi concreti e interessanti possono essere ritrovati nella prima parte de «Il nuovo Catechismo Olandese».
    [7] Si veda il cap. VII di PH. ROQUEPLO, Esperienza del mondo: esperienza di Dio?, LDC
    [8] «È questo il punto centrale della nostra catechesi: qui sta il vero rinnovamento a cui le comunità devono guardare. Evangelizzare è annunciare la Persona Vivente di Cristo, ieri, oggi, nei secoli: Gesù Cristo, Uomo-Dio, punto focale tra l'amore divino e quello umano; è annunciare un fatto storico: Gesù di Nazareth, Figlio di Dio incarnato, crocifisso e risorto; è annunciare una presenza sempre attuale nella chiesa: comunità che ha incontrato il Signore e che mossa dallo Spirito tende verso il suo ritorno; è annunciare il Cristo totale nella sua dimensione storica e in quella della sua Risurrezione: sempre vivo tra gli uomini, quale dinamico Signore della storia» (Capitolo generale speciale della congregazione salesiana, 302). Istanze del genere hanno trovato uno sviluppo davvero stimolante in E. VIGANÒ, Il volto di Cristo per i giovani d'oggi, in Note di Pastorale Giovanile, 1972/2. Sul piano operativo raccomando due sussidi preziosi: Ecco l'uomo (collana «mondo e fede»), LDC e FANULI, Il Cristo che mi piace, LDC.
    [9] Un'analisi attenta del tema è sviluppata da G. GATTI, Evangelizzazione e realtà profane, in Note di Pastorale Giovanile, 1974/2.
    [10] Uno sviluppo per una comprensione più ampia è ritrovabile in L. SERENTHA', art. cit.
    [11] Cfr. NEGRI-TONELLI, Linee per la revisione di vita, LDC.
    [12] Diventano sempre più numerosi i giovani e i gruppi giovanili che mettono in seria crisi la loro fede per il duro impatto con l'impegno politico. Un'eco interessante di tale situazione è rimbalzata anche nel RdC: «L'uomo del ventesimo secolo può apparire quasi allergico all'esperienza della fede e proteso, spesso generosamente, all'impegno nel mondo. Da questa rilevazione, non di rado troppo esteriore, traspare l'urgenza di educare i cristiani a comprendere che la fede non allontana dalla storia, ma svela in essa le intenzioni di Dio, riversando luce nuova sulla vocazione integrale dell'uomo» (43).
    A livello di esigenza un documento già citato indica suggerimenti preziosi: «Dalla continuità dinamica tra fede e vita nasce l'impegno della promozione umana come segno che accompagna l'annuncio. La promozione non si identifica con la evangelizzazione, ma non si può ammettere una evangelizzazione che sia insensibile alle aspirazioni umane. Il Vangelo non sarà credibile se il cristiano non cercherà di affrontare e di risolvere i grandi problemi del mondo contemporaneo immergendosi in essi; è una esigenza d'incarnazione, essenziale al cristianesimo e voluta dal Figlio di Dio che "ha preso dimora tra noi". Dalla attuazione di questo "vasto impegno di coerenza al Vangelo dipende la sorte stesso del Cristianesimo, particolarmente presso le generazioni dei giovani" (RdC 97). La fede impegnata illumina particolarmente il tema che discrimina credenti e non credenti, cioè il modo di concepire la libertà dell'uomo e quindi la liberazione. Chi lavora a sviluppare la fede nei credenti, rivela loro la dimensione liberatrice della Parola di Dio, fa prendere coscienza della dimensione sociale e pubblica del messaggio cristiano, rivalorizza la centralità della Croce, educa ad un atteggiamento di energia, di lotta, di martirio» (Capitolo generale speciale della congregazione salesiana, 315).
    [13] In La liberazione, un dono che impegna, LDC, esiste uno studio che nella sua parte conclusiva affronta e chiarisce l'affermazione (cf Ruolo dell'educatore nell'impegno di liberazione). Dal punto di vista teologico una sintesi davvero stimolante è contenuta in ROQUEPLO, op. cit., pag. 153-161.
    [14] Cfr. la sintesi di C. MESTERS, Paradiso terrestre: nostalgia o speranza?, LDC.
    [15] J. MOLTMANN, Il Dio Crocifisso, Queriniana, cap. 1.
    [16] La sintesi riportata si allaccia ai cap. VII, VIII, IX dell'opera di ROQUEPLO (op. cit.) che ritengo molto illuminante in questo contesto.
    La monografia prossima di Note di Pastorale Giovanile (1974, 7-8 e 9-10) riprenderà a fondo queste problematiche.
    [17] Ho ripreso e approfondito queste istanze in un mio libro che propongo come approfondimento (cf in appendice la bibliografia): R. TONELLI, La vita dei gruppi ecclesiali, LDC.
    [18] Per uno studio scientifico sull'argomento, cf CARRIER-PIN, Saggi di sociologia religiosa, Ave, pag. 275-295.
    [19] Cfr. G.C. NEGRI, Predisporre la pasta perché riceva il lievito, in Catechesi, 1 97 1-4-B.
    [20] Cfr. ROQUEPLO, op. cit., pag. 177-200.
    [21] G. GUTIERRERZ, Teologia della liberazione, Queriniana, pag. 180.


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