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    Il CdG «nella» condizione giovanile: scontro o promozione?



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1979-5-17)


    UN LIBRO SCRITTO CON UN «FRESCO TONO POLEMICO»

    Coloro che hanno seguito la letteratura teologica di questo intenso periodo postconciliare, non troveranno nel «Catechismo dei Giovani» (= CdG) nessuna affermazione particolarmente nuova. Anzi, come è giusto, sono espresse le cose più condivise: la proposta del CdG rappresenta veramente l'attuale consapevolezza di fede della comunità ecclesiale.
    Il nuovo, invece, secondo noi, è su un altro versante: il suo stile, il «fresco tono polemico» con cui è scritto.
    Questi anni sono stati innegabilmente anni duri per la pastorale giovanile. Qualche volta il rispetto alla «misura dei destinatari» ha spinto verso un pericoloso pressappochismo dottrinale oppure ha giustificato l'indebito addomesticamento dell'evento sconvolgente di Dio. In alcuni casi la perentorietà dell'annuncio può aver lasciato spazio alle lunghe e inconcludenti («marce di avvicinamento».
    I temi dello spontaneismo possono essersi infiltrati anche nella prassi di qualche operatore pastorale.
    Certo, non si può generalizzare in modo indebito, quasi che quanto è capitato in questi anni sia tutto da buttare; quasi che la crisi di fede di molti giovani d'oggi sia il frutto imprevisto di un cattivo modo di fare pastorale. Un giudizio così drastico ci sembra falso e ingiusto.
    Comunque, il CdG vuole reagire ai rischi di riduzionismo o di eclettismo, suggerendo un modo «nuovo» di fare pastorale giovanile.
    Abbiamo l'impressione che le eventuali novità sui contenuti siano la conseguenza di questa ricercata novità metodologica.
    In che cosa consiste questo stile?
    Lo diciamo, citando direttamente da affermazioni di «protagonisti» del CdG: Mons. A. Del Monte, presidente della Commissione episcopale responsabile della stesura del catechismo (dalla sua lettera pastorale «Una chiesa giovane per annunciare il vangelo ai giovani; R. Gargini, presidente della commissione di lavoro, G. Angelini, uno dei principali estensori del testo, C. Buzzetti, esperto di problemi linguistici nell'équipe di lavoro (dalla presentazione ufficiale del CdG fatta ai direttori UCD, Collevalenza 1978).

    È tempo di uscire dal provvisorio

    L'epoca in cui viviamo è profondamente segnata dall'esperienza della provvisorietà: provvisorie appaiono spesso le convinzioni alle quali giorno per giorno ci affidiamo per dare giustificazione e senso alle nostre scelte; provvisorie appaiono quindi le scelte stesse, sempre esposte all'eventualità di dover essere riviste e magari smentite alla luce dell'esperienza che un altro giorno di vita porta con sé.
    Questo senso di esasperata provvisorietà di tutte le scelte e di tutte le convinzioni sembra essere ancora più accentuato nell'esperienza concreta dei giovani e nelle espressioni tipiche della loro cultura.
    La cultura dei giovani, o quanto meno prodotta per i giovani - tra le due cose non è sempre facile stabilire una distinzione precisa - ci appare spesso caratterizzata dalla lettura «sublimante» di questa provvisorietà giovanile: nella provvisorietà è riconosciuto un vantaggio, un carattere positivo, una garanzia di autenticità, un segno di libertà, un'espressione di coraggio.
    Crediamo viceversa che questo esasperato senso di provvisorietà debba essere inteso come sintomo di un difetto, di una povertà umana, di una condizione infelice del giovane. E crediamo quindi che sarebbe irresponsabile leggerezza attribuire a tale sintomo i sublimi colori di quella povertà, provvisorietà, permanente ricerca, che sono caratteristiche innegabili della condizione umana, così come essa è compresa nella luce dell'evangelo.
    Occorre infatti riconoscere francamente un aspetto della fede, che viceversa appare alla diffusa coscienza odierna estremamente lontano e improbabile.
    La fede cristiana ha i caratteri della scelta definitiva con la quale si dispone di tutta la vita; è scelta che inaugura un'esistenza stabile, capace di durata e di fedeltà, capace di dischiudere un futuro. L'uomo credente è come a albero piantato lungo corsi d'acqua che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai» (Salmo 1,2). L'uomo credente, che a ascolta queste mie parole e le mette in pratica - dice Gesù - è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia» (Mt 7,24).
    Non contraddice a questa stabilità dell'esistenza cristiana il fatto che si dica poi del Figlio dell'uomo che a non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Non ha casa stabile in questo mondo, il Figlio dell'uomo e ogni suo discepolo, perché ogni cosa costruita dall'iniziativa umana appare ineluttabilmente costruita su terreno fragile e insicuro, destinata prima o poi a sgretolarsi. Ma se il messaggio di Gesù è «vangelo», se può manifestarsi anche all'uomo di oggi come «buona notizia», ciò è dovuto appunto al fatto che tale messaggio annuncia all'uomo che Dio stesso provvede a lui una casa stabile, nella quale ricoverare la sua esistenza frammentaria e dispersa (G. Angelini).

    Proporre con serietà e interezza la «verità» cristiana

    La ricerca della verità: dinanzi alla pluralità delle proposte che gli arrivano, il giovane ha bisogno di veder chiaro e quasi di rifondare la sua adesione di fede. Il testo scommette sulle capacità di ricerca e di riflessione del giovane e pertanto affronta le difficoltà che rendono inaccessibili oggi i contenuti della fede; difficoltà che provengono dalla realtà sociale e dalla cultura moderna. Naturalmente il discorso viene portato avanti in modo probante e stringente non tanto per motivi di carattere apologetico, quanto per liberare il giovane da atteggiamenti pregiudiziali e metterlo in condizione di avere il coraggio della verità.
    Una verità ricercata seriamente: il testo cerca di non indulgere alle mode e agli slogan, ma affronta con decisione la problematica della cultura attuale, andando direttamente alla sua origine, fino ad arrivare ai pensatori più significativi trascurando i loro ripetitori. Questa ricerca, culturalmente severa, viene anche perseguita quando si affronta la proposta cristiana, attraverso un'indagine, più volte ripresa, dei testi, non tralasciando le questioni più importanti offerte dall'analisi scientifica.
    Comunque, vengono attentamente evitati gli artifici che hanno la loro forza nella retorica e nella suggestione emotiva. Anche le critiche persistenti che vengono rivolte alla Chiesa e alla sua storia sono affrontate, accettando con franchezza ciò che è storicamente provato, rifiutando però ogni semplicismo pregiudiziale.
    La pienezza della verità cristiana: la fedeltà alla natura della trasmissione della verità cristiana esige che sia annunziata in tutta la sua pienezza. «La catechesi, avendo come scopo la maturazione della fede nel singolo e nella comunità ecclesiale, deve preoccuparsi che il tesoro del messaggio cristiano venga annunciato nella sua integrità» (DCG, n. 38).
    Il testo, con un procedimento progressivo e ciclico, avanza fino a condurre il lettore verso una prospettiva cristiana esplicita e integrale, che culmina nella professione di fede nel Risorto, Figlio di Dio e Salvatore di tutti gli uomini (R. Gargini).

    L'obiettivo: fondare un'intelligenza critica dell'esperienza cristiana

    Il catechismo dei giovani è per «le lunghe fedeltà», è per «le azioni e le opere durevoli»; perché crede che questo senso esasperato della provvisorietà, come l'approssimativo, la gratuite pacificazioni, la superficialità, il conformismo, l'intimismo alienante, sono una profonda ferita del cuore giovanile; sono segno di povertà umana, che non ha nulla a che vedere con quella «povertà» di cui sono ricchi di elogi le pagine del Vangelo. La fede cristiana ha i caratteri della scelta definitiva simile all'uomo evangelico che costruisce sulla roccia: vengono i venti, straripano i fiumi, ma la casa non crolla (Mt 7,25).
    È vero che questa fede è un dono di Dio; ma è un dono che premia anche la ricerca umana fatta con l'uso della ragione e dell'intelligenza oltre che con la rettitudine del cuore. Di ragione e di intelligenza oggi si fa volentieri a meno.
    I Vescovi italiani, con questo catechismo, fanno un atto di fiducia nell'intelligenza critica dei giovani oltre che nella loro sofferta nostalgia dell'essenziale. Vanno contro corrente e contro la moda, e non esitano - partendo dalle condizioni culturali del nostro tempo - , ad entrare con franchezza e lealtà anche nei santuari degli stessi maestri del sospetto, per snidare tutti i pregiudizi contro la religione e fare vedere, appellandosi seriamente alla ragione ed alla storia; mentre altri tempi, in realtà, furono meno religiosi di quanto si credettero, i nostri sono più religiosi di quanto li si dice. Poi passano ad una rigorosa presentazione del mistero di Cristo morto e risorto (A. Del Monte).

    Il CdG ha una sua architettura interna seria

    Questo catechismo ha una struttura. Non è questa una scelta ovvia e subito da tutti condivisa, a giudicare da quanto testimonia tanta parte della letteratura cristiana attuale, e in particolare della letteratura dedicata ai giovani. Tale letteratura infatti spesso rinuncia alla ricerca d'ogni complessiva architettura del discorso cristiano e si accontenta di evocare, suggerire, rendere plausibile ed attraente il senso del messaggio cristiano, accostandolo all'una o all'altra esperienza, all'uno o all'altro interrogativo, che la mobilissima vicenda dell'opinione pubblica dominante rende via via oggetto obbligato di interesse e di discorso. Sicché i libri cristiani hanno oggi spesso la fisionomia di antologie di pensieri edificanti sui luoghi comuni imposti all'attenzione dall'ultima moda. I tempi di deperimento di questi libri sono molto rapidi, come rapidi sono i tempi di avvicendamento delle mode.
    Intendimento del catechismo dei giovani, con la scelta di darsi un'architettura, e un'architettura suggerita dallo stesso messaggio cristiano, è quello di restituire alla fede capacità di iniziativa, forza di sintesi, consapevolezza chiara della propria irriducibile originalità, autonomia e distanza critica nei confronti di troppo indiscussi e ingiustificati luoghi comuni del mondo che ci circonda.
    Naturalmente la scelta di adottare un'architettura di certa compattezza e rigore ha il suo prezzo. Non è questo un libro che consenta una lettura saltuaria ed episodica; il discorso non comincia e finisce ad ogni pagina o ad ogni capitolo. Non è libro che, utilizzato per la catechesi orale e comunitaria, consenta impieghi gran che produttivi, qualora il discorso comune debba concludersi nello spazio di una o tre sere. Al contrario, esso postula una catechesi la quale possa contare sui tempi lunghi; una catechesi che impegni coloro che vi partecipano ad aprire interrogativi che non possono ricevere subito una risposta risolutiva, ma che debbono progressivamente e pazientemente precisarsi e approfondirsi, che possono raggiungere crescente chiarezza soltanto a prezzo di assidua frequentazione dei vangeli e della bibbia tutta, come pure a prezzo di un'esigente riflessione sui più profondi aspetti dell'esperienza umana individuale e collettiva.
    Chi ha fretta sarà necessariamente deluso da questo catechismo. E purtroppo la fretta è un difetto molto diffuso nel costume civile ed ecclesiastico di oggi. La fretta ha bisogno di formule sbrigative, di slogans semplificanti, di ricette per l'uso: cose queste tutte che pagano il loro vantaggio di immediatezza con il prezzo di una frustrante caducità (G. Angelini).

    Il testo è redatto con un fresco tono polemico

    Il catechismo ha adottato un fresco tono polemico fatto di franchezza e di lealtà, che letteralmente può essere anche molto rispondente al gusto dei giovani, che non amano i discorsi contorti ed ambigui, ma esigono franchezza e linearità. E non è questa, per altro, la caratteristica del linguaggio evangelico? È proprio della verità cristiana il determinare contrasti precisi e il non tollerare astute mediazioni. La parola del Vangelo è spada tagliente, non va alla ricerca di conciliazioni impossibili, non accetta sintesi tra termini per la loro natura opposti (come ciò che è immanente e ciò che è trascendente).
    Questa perentorietà del Vangelo sfida anche il giudizio storico. Il dialogo col mondo moderno è inteso molte volte in modo superficiale così come il tema del pluralismo. Il catechismo non si preclude in nessun modo il riconoscimento dei valori e delle acquisizioni scientifiche proprie della cultura moderna. Ma dice pane al pane e vino al vino. Molti dei presenti valori e dei modelli interpretativi della condizione umana contraddicono in maniera inequivocabile la verità del Vangelo, e si riducono sovente, in buona fede o in mala fede, a comodi luoghi comuni, talora strumentalizzati in funzione del potere (A. Del Monte).

    Ci sono difficoltà linguistiche, ma superabili attraverso la mediazione del gruppo

    Qualcuno potrebbe far notare che il testo usa con eccessiva disinvoltura livelli lessicali e sintattici piuttosto elevati, anche là dove non sembrano strettamente necessari. Ad esempio, si può obiettare che troppo frequenti e troppo scontate sono le parole difficili che una maggiore preoccupazione di «adattamento» avrebbe potuto far sostituire con altre più facili per giovani di scarsa cultura letteraria.
    A queste obiezioni si può rispondere in primo luogo richiamando che al giovane si può chiedere una certa fatica proprio perché è giovane, in evoluzione, e anche la lettura di un catechismo può e deve essere per lui occasione di incremento culturale generale; in secondo luogo richiamando che il catechismo non è stato pensato soprattutto per la lettura privata individuale, ma per la lettura che si compie nei gruppi o che comunque prevede di essere accompagnata da una discussione comunitaria. In quel contesto l'illuminazione reciproca e in particolare il ruolo dei leaders dovrebbero sdrammatizzare notevolmente le difficoltà di ordine linguistico. Sarà compito di questi ultimi misurarlo in rapporto alla cultura e al linguaggio dei giovani che incontrano e prevedere appropriati interventi (C. Buzzetti).

    La scelta di fondo: «il coraggio della verità»

    Queste caratteristiche del CdG si possono riassumere in una scelta di fondo: il coraggio di ricercare e affermare la «verità». Così infatti si apre il CdG. Su questa dimensione si muove tutto il suo impianto: nella sottolineatura dei problemi esistenziali che portano «verso» Gesù Cristo, nella presentazione della sua «proposta» e nella «decisione» di vita, nuova e coerente.
    Riportiamo, come documento, alcuni brani del primo capitolo del CdG.

    La ricerca della verità chiede sempre coraggio. Perché la verità non è serva, ma padrona. La verità non può essere messa al servizio dei nostri fini o dei nostri interessi. Questo può accadere per le conoscenze scientifico-tecniche. Di fatto la ricerca in tali campi esige, più che il coraggio, l'intelligenza, la costanza e il metodo.
    Quando Galileo cominciò a sospettare che l'universo non fosse esattamente come sostenevano le opinioni degli antichi, accolte indebitamente anche dai libri di teologia, gli fu necessario del coraggio per andare avanti nelle sue ricerche, e soprattutto per proporre pubblicamente le sue scoperte. Perché gli fu necessario del coraggio? Perché l'opinione comune cristiana, che aveva nelle autorità ecclesiastiche i suoi custodi e sorveglianti, riteneva l'antica immagine dell'universo una «verità», strettamente legata alla rivelazione biblica: l'incorruttibilità delle sfere celesti e la posizione centrale della terra nel cosmo sembravano far parte integrante della concezione che l'uomo aveva di se stesso e di Dio. L'ordine cosmico si saldava con l'ordine morale e religioso.
    In seguito, l'astronomia cessò di essere terreno pericoloso, proprio perché non metteva più in questione la verità dell'uomo e del suo destino.
    Il succedersi delle diverse teorie scientifiche sull'espansione dell'universo nell'epoca contemporanea lascia abbastanza indifferente l'uomo comune. Infatti non ci vuole un particolare coraggio per studiare i fenomeni della natura, se questo studio non mette in discussione i valori ai quali - consapevolmente o inconsapevolmente - ciascuno affida il senso della sua vita.
    C'è invece una verità che richiede coraggio; quella sola merita pienamente questo nome. È la verità che si trasforma in programma di vita, che magari costringe al cambiamento, all'autoaccusa, a una speranza impegnativa. La verità che richiede coraggio è quella che mette in discussione tante illusioni e svela le inquietudini più profonde dell'uomo.
    Certamente la domanda «Chi è Gesù?» ha a che fare con questa verità: affrontarla dunque esige coraggio, è impresa fatta per gente disposta a camminare su sentieri pericolosi.

    Queste espressioni «verità», «cercare la verità», «coraggio della verità», possono suscitare qualche sorriso scettico; o generare disagio e insofferenza. Certe parole solenni - «verità» è una di quelle - sono sospette, e perciò escluse dal linguaggio critico ed emancipato dell'uomo contemporaneo. Secondo molti non c'è «la verità», ma ci sono tante verità quante sono le culture, i caratteri, gli uomini, gli interessi di ciascuno.
    Questo scetticismo nei confronti della «verità» non è nuovo. Pensiamo alle parole di Pilato nel dialogo con Gesù: «Che cos'è la verità?» (Vangelo di Giovanni 18,38). Di fronte a questa confessione di scetticismo, Gesù tace: non ha più nulla da dire a chi ha già deciso che la verità è una parola vuota.
    Nuovi e più sofisticati sono gli argomenti «scientifici» che l'uomo d'oggi trova per giustificare il suo sospetto, o peggio il suo rifiuto nei confronti di ogni verità. Ma si tratta realmente di argomenti, oppure si tratta di alibi, mediante i quali sottrarsi alle pretese esigenti della verità che giudica la nostra vita?
    Sotto la domanda scettica «che cos'è la verità?» si nasconde sempre il volto di Pilato.

    Rassegnarsi a non cercare la verità, vuol dire tradirla.
    Chi dice: «Non esiste la verità», non si può conoscere la verità, è come colui che sostituisce la sposa vera con una prostituta, la compagna fidata con una sconosciuta. La compagnia della sconosciuta è attraente e facile, ma dura un giorno e finisce, lasciando ogni volta più soli.
    La verità, quando non è più cercata, viene sempre sostituita - consapevolmente o meno - da un surrogato. Quando l'incertezza e il dubbio diventano fitti, e la strada per uscirne appare troppo lunga e faticosa; quando viene a mancare il coraggio della ricerca paziente, onesta, perseverante, e viene meno l'impegno della libertà, allora fatalmente ci si rifugia in qualche pregiudizio collettivo, capace di dare temporanea sicurezza e di esonerarci dal rischio personale.
    Ci sono tante bandiere dietro le quali arruolarsi, ci sono tanti gruppi nei quali rinchiudersi. Una volta che hai scelto una bandiera e un gruppo, hai dei compagni, un linguaggio, la sensazione di avere trovato un mondo in cui si può vivere; hai un giudizio pronto su tutto. Basta dunque scegliere: e allora «verità» diventa quella del gruppo o del partito a cui appartieni.
    Proprio perché molte delle verità che circolano sono di questo tipo, accade che nessuna comunicazione sia possibile. Rimane spazio solo per la lotta senza quartiere, oppure per il compromesso equivoco in nome del principio del vivere e lasciar vivere. Per comunicare infatti occorre credere nella verità, nella sua possibilità di imporsi con una forza che non è quella del numero, e neppure quella della prepotenza o addirittura delle armi. Occorre avere delle ragioni, e non solo prendere decisioni. Altrimenti il dogmatismo diventa la regola; facile, arrogante e sempre pronta è la rozza schematizzazione di ogni idea diversa dalla propria.
    Contro questa tentazione di fanatismo privo di ogni capacita critica è necessario ritrovare il coraggio della verità.

    Questo tradimento della verità può esser dettato dalla paura della solitudine. Per essere accolti in una comunità, in un gruppo, in un giro di amicizie, si è costretti spesso a essere falsi e a recitare una parte che non è la nostra. A poco a poco la recita si confonde con la realtà, e noi non sappiamo più distinguere le due cose.
    Il coraggio della verità non è semplicemente l'impegno di una ricerca intellettuale faticosa; è prima di tutto il coraggio di guardare a noi stessi con schiettezza, senza rifugiarci in fretta nell'accusa degli altri per giustificare le nostre mediocrità e i nostri sotterfugi. Non è possibile la veracità nei confronti degli altri senza questa preliminare opera di ricostruzione della nostra veracità interiore.
    La verità di cui si parla in questo libro - la verità di cui ci parla Gesù di Nazaret - è una di quelle che toccano la vita di ciascuno nelle sue scelte e nelle sue abitudini più profonde: per questo, per essere compresa e valutata con onestà, esige il difficile esercizio della veracità interiore. Ma promette anche molto.

    Il vero «uomo maggiorenne» è colui che non si affida all'opinione comune o alla semplice tradizione secolare come a una norma infallibile di verità, ma su tutto si interroga, ogni parola ascolta, nella ricerca attenta e appassionata d'ogni briciola di verità.
    La fede cristiana non è un'alternativa rispetto al programma esigente che si propone quest'«uomo maggiorenne»; al contrario, fa proprio quel programma. La fede cristiana è la scelta di chi ha già percorso un lungo cammino nella ricerca della verità; anche dopo la scelta, il cammino non s'interrompe, ma piuttosto si riapre, più impegnativo e insieme più promettente.
    A chi cerca il cammino per diventare cristiano maggiorenne sono offerte queste pagine: come una traccia, che il coraggio, la veracità e la perseveranza di ciascuno dovranno rendere vissuta e concreta.

    QUALE CONDIZIONE GIOVANILE?

    Coloro che hanno progettato e elaborato il CdG si sono interrogati a lungo sulla condizione giovanile. Essi sono profondamente consapevoli che «la misura e il modo di questa pienezza (la piena predicazione del messaggio cristiano) sono variabili e relativi alle attitudini e necessita di fede dei singoli cristiani e al contesto di cultura e di vita in cui si trovano» (RdC 75). Lo dimostra, se ce ne fosse bisogno, la lunga fatica percorsa per giungere al testo attuale.
    La «condizione giovanile», come ogni realtà storico-culturale, non è però interpretabile con pretese di oggettivismo rigido. La precomprensione dell'interpretatore gioca un peso condizionante nella sua descrizione.
    A complicare le cose, si deve aggiungere un secondo fatto. L'educatore (e il CdG rappresenta il servizio a educativo» della comunità ecclesiale nei confronti dei giovani di oggi) valuta quanto ha interpretato, per decidere lo stile della sua presenza. Analizza la realtà, preoccupato di raccogliere gli imperativi che essa gli rilancia, in vista della sua azione educativa.
    Anche gli estensori del CdG hanno valutato l'attuale condizione giovanile, alla luce della fondamentale esperienza cristiana. Le scelte con cui hanno caratterizzato il «tono» del catechismo, esprimono bene la valutazione fatta da essi «sulla» condizione giovanile attuale. Il processo non è meccanico e, soprattutto, non è apodittico.
    Ogni comunità ecclesiale e ogni educatore della fede è chiamato a inserirsi in questo processo creativamente e responsabilmente. Per favorire questa impresa, suggeriamo un nostro ritratto della condizione giovanile. Trascriviamo, cioè, quei dati che, secondo noi, hanno avuto dinanzi gli estensori del CdG e da cui hanno elaborato le loro opzioni.
    Coloro che studiano oggi la condizione giovanile insistono sul «nuovo» rispetto alle grandi idealità che avevano caratterizzato la contestazione sessantottesca. Questo confronto non va interpretato nel senso che il '68 ha portato solo valori e il riflusso dal '68 produce solo disvalori: nella storia dell'uomo è ben difficile elencare i periodi culturali con paradigmi etici troppo rigidi.
    Chiamiamo la caduta di idealità (molte delle quali rappresentavano esasperazioni adolescenziali di intuizioni positive) «crisi», nel senso etimologico della parola. Queste crisi hanno costruito un modo diverso di vedere e di progettare la vita e la storia. Quelle che elenchiamo sono soprattutto dimensioni culturali (sovrastrutturali, direbbe qualcuno) perché in questo contesto sono le cose che ci interessano di più. Siamo consapevoli che tra situazioni strutturali e culturali esiste un rapporto stretto, spesso circolare.
    Chi vuole dialogare con i giovani deve tener conto di questo mutato quadro di riferimento. Il CdG, nelle sue scelte stilistiche, si confronta con «questa» condizione giovanile. Reagisce a «queste» concrete caratteristiche.
    Prima di valutare se si tratterà di scontro o di promozione, dobbiamo constatare la situazione di fatto.
    Una cosa è evidente: i nostri sono solo veloci accenni, per di più disorganici per la documentazione utilizzata. Hanno queste pagine, come dicevamo, soltanto la funzione di attivare la consapevolezza riflessa di un necessario confronto.
    Anche qui usiamo il metodo antologico: elenchiamo alcuni «titoli» e riportiamo della documentazione. Sappiamo di ripetere cose che i lettori più affezionati già conoscono. E per questo procediamo velocemente.

    Dalla crisi di «legittimazione» alla fuga verso l'«irrazionale»

    L'aspetto nuovo della crisi attuale è che essa è anche crisi di legittimità.
    Cosa è avvenuto? La crisi di secolarizzazione, quella della famiglia e della comunità locale, la perdita di senso nella vita quotidiana hanno fatto saltare la componente che definisco vitale, esterna al sistema e pure ad esso integrata. Tali fenomeni hanno spiazzato allora la partecipazione politica e sindacale, hanno messo in moto meccanismi irriducibili alla logica dei rapporti di compatibilità e governabilità del sistema. La decomposizione provocata dal rinsecchimento o dalla rivolta degli ambiti vitali è dunque una parte rilevante, «irrazionale» ma non tanto, della crisi. Allora si spiega la tendenza emersa anche, ma non solo, nel mondo cattolico, a recuperare questa dimensione della vita, della fraternità, anche in forma statica, come momento di rigenerazione; tutto ciò pone interrogativi di grande portata culturale. Perciò includo in tale aspetto della crisi anche quella parte del mondo cattolico che, del nesso evangelizzazione e promozione umana, rifiuta la seconda parte e si realizza nel momento della contemplazione comunitaria ed estatica della fede in Cristo.
    [ .. .]
    Non credo sia oggi presente, nel mondo cattolico, una ripresa del momento etico, bensì c'è ripresa di speranza e di contemplazione nella fede. L'etica è mediazione tra ispirazione religiosa e realtà storica. Oggi siamo, invece, nella fase precedente, in cui si pone il problema della speranza di vita e del modo di vivere in essa. Esiste oggi un pullulare di gruppi carismatici, pentecostali, neocatecumenali e tanti altri. Essi sono prevalentemente composti di piccola borghesia e di strati operai urbani, che probabilmente in modo maggiore avvertono anche se a livelli esistenziali semplici la perdita di senso della vita nella società d'oggi. Negli incontri di questi gruppi, composti prevalentemente da laici, ci si comunica, fra individui, la propria esperienza personale di conversione, il proprio incontro personale con Cristo. Questa dimensione di «nuova nascita», di ricerca della fede senz'altra aggiunta, non si è ancora cristallizzata in nuovi codici di comportamento (A. Ardigò, in Un dialogo dentro la crisi, riportato da «La città futura», 8 nov. 1978).

    Dalla crisi di garanzia al riflusso verso l'autonomia e la deresponsabilizzazione sociale

    Si compie anche in Italia, dopo la svolta degli anni sessanta, un processo tipico dello sviluppo capitalistico, che consiste nel generare lavoro astratto sottraendo sapere e decisione ai produttori diretti. Questi - attraverso la socializzazione della produzione - si estendono quantitativamente in modo massiccio, mentre le funzioni di piano e di scelta - poste nella forma di un sapere generale della previsione e del programma - si concentrano in pochi vertici manageriali. La gratificazione attraverso il lavoro si rivela un'illusione per strati sociali sempre più ampi e, presso i giovani, sembra porsi come un dato di coscienza comune che traversa i diversi gruppi sociali. Si lavora per vivere, e non c'è nessuna soddisfazione nel lavorare: sono dati banali per la massa dei giovani che affrontano il lavoro sempre dal gradino più basso e più oneroso, sia in fabbrica che in ufficio che nelle professioni. La mobilità sociale - il passaggio dalla fabbrica all'ufficio - scopre sotto forme diverse la medesima realtà dell'estraniazione: il lavoro, nella macchina organizzativa del capitale, non emancipa: consente solo di vivere.
    [ . . .]
    Il lavoro precario sottolinea la condizione di avventura della vita giovanile di oggi: non offre garanzie, non dà certezze per il futuro, ma non impegna, non costringe a decisioni, lascia impregiudicata la gamma delle scelte di vita.
    [ .. .]
    La proletarizzazione delle figure intermedie del processo sociale è, ci sembra, soprattutto questo: astrazione del lavoro, riconoscimento pratico dell'alienazione, ricerca di un risarcimento materiale nel consumo. I giovani, quelli che riescono ad entrare dalla porta stretta del mercato del lavoro, lo sanno perfettamente: è questa, forse, la prima generazione che sperimenta a livello di massa, in modo consapevole, il decentramento del lavoro rispetto al proprio progetto di vita.
    [ .. .]
    Il lavoro, riconosciuto nella sua alienazione, esce dalla dimensione del tempo, della costruzione. La sua immobilità, parcellizzata e provvisoria, lo riduce a condizione materiale della vita, vincolo pratico. Non arricchisce l'esperienza, ne condiziona soltanto i modi di costituzione. Non costruisce la personalità, ne vincola solo i momenti di crescita. In queste condizioni la perdita della finalità del progetto rappresenta anche una riduzione della socialità. L'astrazione esclude la prestazione di lavoro da un circuito sociale: la correlazione delle attività è stabilita, al di fuori dei produttori, dal sapere organizzativo del capitale, che è sovrimposto ai singoli lavori. La connessione dei produttori è mediata dall'organizzazione estranea della fabbrica (o dell'ufficio). Il lavoro, nel momento in cui è spossessato della decisione, perde anche la socialità: parcellizzandosi, si isola. La socialità si ricostruisce nel gruppo informale fuori del lavoro.
    [ .. .]
    Tra la macchina in cui si è depositata l'esperienza sociale del passato e le giovani generazioni che devono conquistarsi la propria esperienza sociale, si stende una terra di nessuno. L'organizzazione manca sia come termine di confronto in positivo, come concrezione di sapere sociale accumulato nel tempo, sia come ostacolo, come negatività, in quanto deposito di una volontà strumentata diversa e estranea, condensato di un'intenzione sociale che differisce da quella del soggetto.
    [ .. .]
    Di fronte alla nuova configurazione del processo di lavoro, si forma tutta una seria di programmi dell'agire (il senso dell'avventura, il disimpegno verso il futuro, l'atteggiamento strumentale verso la socialità organizzata vista essenzialmente come deposito di risorse cui attingere) che prescindono dall'influenza e dai vincoli delle organizzazioni.
    [ .. .]
    La rimessa ai soggetti della responsabilità della socializzazione significa il blocco di un apparato di uso collettivo, di valore pubblico. Sul piano sociale, si consuma organizzazione: nel lavoro la introietta, gonfiandosene, il capitale; nella scuola si smarrisce, si vanifica. Si distrugge l'esperienza accumulata, ricchezza sociale. Non nascono nuovi modi di organizzarla, nuovi percorsi per costruirla: non c'è rivoluzione, ma disgregazione, non una nuova esperienza, più ricca, ma un impoverimento complessivo del rapporto sociale.
    La socialità organizzata deperisce: la soggettività, con i processi di autocostruzione, di socializzazione selvaggia, cresce d'importanza, si gonfia. Ma è una crescita malata, nutrita di miseria organizzativa, non di ricchezza sociale. La soggettività non può crescere se l'attrezzatura sociale diventa uno scheletro, se l'esperienza si isterilisce. La riduzione del rapporto sociale è sempre un impoverimento della soggettività, anche se le apparenze sono contrarie (P. Bassi A. Pilati, in I giovani e la crisi degli anni settanta, Editori Riuniti).

    Dalla crisi del politico alla scoperta della soggettività

    La crisi degli apparati e la contemporanea trasformazione del mercato del lavoro e dei modi del processo di produzione aprono per i giovani la questione di una riorganizzazione dell'uso del tempo. Il tempo di vita, sottraendosi ai vincoli della richiesta sociale, si unifica in una concretezza il cui segno distintivo è la scissione dal mondo esterno. La crisi degli apparati «libera» il tempo. Ma come l'obsolescenza dei tradizionali progetti di vita non offre, per conseguenza immediata, nuovi valori sociali, così faticano a costituirsi i nuovi ritmi della giornata. La vita quotidiana è «organizzata» anche dall'alienazione: la ripetizione degli obblighi offre certezza, genera - per accumulazione - un senso sociale. Il ritmo di vita cerca di riorganizzarsi attorno a forme organizzative (come la banda) sincrone ai valori che emergono dalla frammentazione sociale. La socializzazione spontanea consiste anche in questo: in una definizione - vincolante per il gruppo e soddisfacente per il singolo - di nuovi assi portanti attorno a cui ricostruire la giornata. Ma fuori di un progetto, lontano da una connessione organizzata, il tempo di vita finisce nella dissipazione. I ritmi della giornata riflettono la disgregazione sociale.
    In questa ricostruzione dal basso, spontanea, del tempo di vita, i momenti portanti della giornata non vengono più fissati dall'esterno (dalla richiesta sociale), ma vengono costituiti dall'interno, non sulla base dell'accettazione di un ordine organizzato, ma sulla base della scelta individuale. A un ritmo di vita deciso socialmente si sostituisce un ritmo di vita deciso individualmente. Al ritmo della responsabilità, al tempo della collettività, si sostituisce il ritmo del desiderio, il tempo dell'autodifesa.
    In questo modo tra i giovani nascono nuove forme di uso del tempo: nel momento in cui viene a perdersi la rigida suddivisione tra tempo astratto e tempo concreto, il tempo si rende fluido, dimensionato su un eterno presente. L'autodifesa, come il desiderio, non conosce il progetto: al di qua dell'organizzazione non esiste l'anticipazione (orientata) del futuro. La finalità richiede la suddivisione del tempo: per costruire bisogna separare, deve essere scomposto il tempo individuale perché ve ne sia una quota da devolvere ad un investimento sul futuro. In ciò la libertà del tempo fluido, la concretezza di un ritmo di vita scandito dal desiderio definiscono una forma di regressione: inibiscono la costruzione (il tempo non viene «messo da parte»), mantengono la soggettività al livello dell'autodifesa, non offrono l'accesso alla ricchezza sociale. Il tempo fluido non sviluppa le capacità in quanto non consente l'appropriazione organizzata dell'esperienza sociale: separato dalla memoria perde di plasticità, e lo schema di sviluppo che lo regola - mancando il confronto con le scadenze collettive - si ripete senza modificazioni. È sotto la pressione della responsabilità che si realizza un'accumulazione produttiva delle capacità: il tempo fluido esprime, nella ripetizione, lo schema sempre uguale dell'autodifesa. La concretezza, dissociandosi dal progetto, ricade nella alienazione: la liberazione dall'obbligo sociale è, di fatto, anche la liberazione da ogni capacità di sviluppo della soggettività.
    La cessione di tempo al gruppo non avviene sotto il vincolo di un patto di produttività diretto alla realizzazione di un progetto, ma piuttosto sulla base di una promessa di rafforzamento verso l'esterno estraneo, come gesto di fiducia verso la realizzazione di un organico circuito di sentimenti e di opere. Al posto del futuro dell'investimento progettuale domina il presente del gesto. Il corteo, come il servizio d'ordine, la provocazione ironica, come il rito dell'assemblea, manifestano una tensione collettiva, hanno l'apparenza del progetto: al fondo però resta l'affermazione immediata della soggettività che, all'impegno della costruzione, privilegia l'espansione dell'affettività, il gesto di autorassicurazione.
    Il nesso che lega la banda alla realizzazione immediata del desiderio si coglie con chiarezza nel momento della festa. La festa trasforma l'affettività, investita collettivamente nelle operazioni dell'autodifesa, in gioco, in immediata manifestazione di creatività. Il tempo dell'accumulazione cede al tempo della dissipazione. L'affettività si riconosce come tale e si brucia nel gesto collettivo. La festa è il momento in cui la banda si riconosce come sicura, come inquilino autosufficiente dell'ambiente sociale e può esprimere, senza obbligo, la propria invenzione fantastica.
    Il gesto fine a se stesso, l'azione del desiderio ripiegano verso la distruzione, l'ironia inclina alla morte: il tempo concreto, nell'obbligo all'estetico, finisce per smarrire anche la creatività. La festa diviene solo il tempo del risarcimento (P. Bassi A. Pilati).

    Dalla crisi delle ideologie alla ricerca di senso

    Nel 1968 la contestazione studentesca avanzava una proposta culturale (sebbene errata) come alternativa al «sistema»; oggi i giovani si ritrovano scettici verso ogni ideologia, privi d'ogni progetto positivo, in balia d'un processo di disgregazione culturale che toglie ogni senso alla vita. Così, la condizione giovanile oggi si risolve in una drammatica domanda sul significato della vita. Senza una risposta convincente a questo interrogativo, sarà impossibile non solo frenare la fuga dei giovani nel sesso, nella droga, nella violenza e in altre forme di autodistruzione; ma soprattutto sarà impossibile ricuperare le loro energie creatrici e generose allo sforzo comune, che oggi tutti ci impegna, di costruire un mondo nuovo.
    Da un lato, i giovani sono delusi, perché sono crollati i miti in cui avevano riposto la loro speranza per un futuro migliore. La crisi economica, con il suo doloroso corteo di frustrazioni, di esclusioni, di disoccupazione, ha fatto toccare con mano che il progresso indefinito non esiste; che lo sviluppo non solo ha limiti intrinseci, ma che ci sono equilibri in natura che l'uomo non può alterare, senza scatenare processi incontrollabili, mortali.
    D'altro lato, la cultura e i valori della società industriale si sono rivelati autodisgreganti. L'individualismo e la ricerca del massimo profitto, dopo aver consentito passi notevoli verso il benessere e il consumo di massa, hanno finito col lacerare la coscienza morale del Paese, alimentando egoismi corporativi, inducendo mentalità e costumi materialistici, umiliando l'uomo che oggi si ritrova non padrone, ma schiavo degli stessi processi da lui avviati.
    Come se ciò non bastasse, le principali correnti del pensiero contemporaneo hanno contribuito a oscurare ulteriormente nei giovani il vero significato della vita. Infatti, che senso ha l'esistenza, se la vita - come vuole l'esistenzialismo - non ha un'essenza propria, una giustificazione trascendente? Perché sforzarsi di vincere le difficoltà, perché impegnarsi a costruire la propria vita, se - come vuole una facile interpretazione della psicanalisi - l'uomo in realtà non è libero, ma è schiavo del subconscio individuale e dell'inconscio collettivo? Se l'uomo è privo di una sua identità spirituale, ed è solo - come vorrebbe lo strutturalismo - un semplice «supporto» e una risultante delle componenti antropologiche e culturali?
    Dovrebbe farci riflettere seriamente il fatto della rivalutazione di Nietzsche e del nichilismo, quale si sta verificando ai giorni nostri. È il tentativo assurdo di «razionalizzare» la disperazione. In realtà per l'uomo annientato, negato nella sua essenza spirituale, nella sua libertà e nella sua personalità non resta che una sola alternativa: cercare, giorno dopo giorno, il proprio appagamento individuale, senza preoccuparsi degli altri. Si cade in un individualismo ancora più esasperato. Si giunge a teorizzare il Piacere come scopo unico dell'esistenza. E poiché l'unica realtà certa di cui uno dispone è il proprio corpo, la felicità suprema starà nella «riappropriazione» del proprio corpo, nella soddisfazione dei sensi: In principio era il corpo; allora divengono «diritti civili» la omosessualità e l'aborto, l'erotismo e la netta separazione tra sessualità e trasmissione della vita, l'uso della droga e la pornografia, l'egoismo e l'individualismo più squallidi. Ma, a questo punto, la vita umana non ha più senso! E a testimoniarne la perdita paurosa presso i giovani restano gli slogan del '77, scritti sui muri dell'ateneo romano: «Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine», o a Bologna: «Perché la morte ci trovi vivi e la vita non ci trovi morti» (B. Sorge, La questione giovanile oggi in Italia, in «La civiltà cattolica», 3069).

    Dalla crisi di razionalizzazione alla nuova «domanda religiosa»

    La cultura secolarizzata è profondamente legata alla società industriale e all'enfasi della razionalità e del progresso. Come essa, sostiene infatti vigorosamente che ciò che conta è la dimensione tecnologica e demiurgica dell'uomo. Il sapere si riduce alla strumentazione tecnica. Ciò che vale è conoscere il mondo in forma scientifica, per essere in grado di dominarlo e di manipolarlo. Per questi motivi, «ideologie religiose e politiche diventano non già funzionali e subalterne, ma semplicemente inutili».
    Contro la logica della gratuità, della spontaneità, dei rapporti creativi (e quindi contro la logica «religiosa») si afferma il primato dell'efficienza, della razionalizzazione. «Possiamo designare con il termine "razionalizzazione" il processo attraverso il quale dei settori sociali sono sempre più sottoposti a criteri di decisione di natura razionale. A questo processo corrisponde l'industrializzazione dell'attività sociale, con la conseguenza che i criteri dell'agire strumentale determinano ormai altri ambiti della vita (urbanizzazione dello stile di vita, controllo tecnico dei mezzi di circolazione e di comunicazione...). La razionalizzazione della società è in connessione con l'istituzionalizzazione del progresso scientifico e tecnico. Nella misura in cui scienza e tecnica prendono possesso degli spazi istituzionali della società e li trasformano, le istituzioni medesime e le vecchie legittimazioni vengono distrutte».
    L'uomo ha preteso di farsi adulto nella potenza della sua ragione. Egli crede di essere autosufficiente nell'opera di salvezza, perché non c'è alcun male dal quale i suoi mezzi tecnici e ideologici non lo possano salvare.
    Eppure i fatti dimostrano il contrario. L'emancipazione dell'uomo non coincide con la sua liberazione: «Interpretare la secolarizzazione sul filo del dispiegarsi della ragione, del progressivo e inevitabile progredire dell'uomo verso il meglio, significa ignorare i limiti di tale impianto, quei limiti che ritroviamo nell'assetto tecnico, scientifico e industriale del nostro mondo contemporaneo».
    Si pretendeva di governare il mondo e di risolvere i suoi problemi senza dover ricorrere a precomprensioni religiose, perché bastava l'applicazione di una competenza specifica. Ma questa pretesa è esplosa tra le mani dei suoi ideologi.
    Serpeggia, tra i giovani soprattutto, la coscienza della radicale insufficienza dell'uomo razionale per risolvere i drammi dell'umanità; incombono gli esiti negativi di una tecnologia scatenata e incontrollabile.
    Questi fatti conducono molti giovani ad un senso di angoscia, di insicurezza, ad una incapacità a guardare avanti con fiducia e con speranza. Molti si muovono ormai verso una nuova qualità di vita: un innegabile bisogno di senso, che permane anche al di là della soddisfazione o della negazione delle esigenze materiali della vita; la ricerca di valori gratuiti, fuori dalla logica efficientistica e consumistica, aperti al ludico e allo spontaneo; la ricerca di esperienze umane nuove, più autentiche e creative, misurabili con criteri diversi dalla fredda funzionalità.
    Questi atteggiamenti contengono una innegabile istanza religiosa, anche se espressa in un panorama così frastagliato, da rendere difficile l'attribuzione di un indirizzo unitario e univoco. D'altra parte, il significato di questa «nuova domanda religiosa» è «in un certo senso condizionato, soprattutto in prospettiva del futuro, dalla risposta che esso riceve» (R. Tonelli, in Pastorale giovanile oggi).

    Dalla marginalità sociale alla cultura della marginalità

    La condizione oggettiva dei giovani rischia di rimanere una condizione di marginalità sociale. «Marginalità sociale» significa che una volta l'adolescente poteva sperare attraverso i traguardi scalari della scuola e della università di raggiungere una sicurezza occupazionale dopo un anno e mezzo dalla laurea. Oggi anche completato in modo brillante un corso di studi, non c'è più una prospettiva concreta, il futuro è percepito come un «buco» vuoto.
    Questa insicurezza del termine ad quem dell'adolescente produce modificazioni anche soggettive rispetto alla «normale» socializzazione dell'adolescente d'ambo i sessi, ossia un'assunzione soggettiva e polemica della propria marginalità.
    Cosa voglio dire? Voglio dire che la marginalità (che è la condizione di chi non ha, di chi è fuori della partecipazione al reddito, alla cultura, ai centri di influenza, al prestigio...) viene rovesciata e proposta come controcultura, come un modo cioè di vivere alternativo che fa della condizione oggettiva una base di scardinamento e di difesa. Ciò è abbastanza evidente nelle minoranze visibili dei giovani e in tutti quelli che accettano come proprio stato una condizione pigra, mobile e gregaria di vita (gruppi coetanei); una condizione che cerca, a differenza del passato, la gioia subito, e quindi l'uso del corpo, della comunicazione attraverso il corpo e il sesso, o che esalta polemicamente il narcisismo giovanile (un certo femminismo), nel senso di spingere i giovani e le giovani a viaggiare, e a ripiegarsi in occupazioni marginali, senza significato per il futuro.
    Tale soggettivizzazione polemica della marginalità oggettiva si esprime nel rifiuto anche della socializzazione attraverso i partiti e i sindacati, e nella reazione, sino alla violenza contro chi propone l'austerità e il «principio della realtà». Vi è, in qualche modo, una disperazione che si fa strumento di difesa. Vi è una enorme accentuazione del principio del piacere («Diamo la scalata al paradiso» e scritto sui muri della contestazione). Vi è un rifiuto del «principio della realtà» (perché questa realtà li distrugge) che viene espressa anche nei confronti delle grandi macchine politiche e sindacali della sinistra storica (A. Ardigò, in Catechesi e pastorale giovanile, Ave).

    CdG E CONDIZIONE GIOVANILE A CONFRONTO

    Viene spontaneo un montaggio in parallelo tra il modello culturale rappresentato dal CdG e le dimensioni antropologiche dell'attuale condizione giovanile (ammesso che la nostra interpretazione dell'uno e dell'altra sia corretta).
    C'è un innegabile riscontro. Esso si evolverà in uno scontro o in una provvidenziale promozione?
    È difficile dare una risposta conclusiva. Saranno i «fatti», documentati, lunghi e sofferti, a dire come andranno le cose.
    Possiamo suggerire qualche cosa, per incoraggiare e giustificare la speranza riposta nel CdG.

    Un confronto

    Una cosa appare a prima vista; ed è sicuramente positiva. Il CdG ha colpito il denominatore comune dell'attuale condizione giovanile: la ricerca di qualcosa di nuovo, di rassicurante, il bisogno di un diverso modo di essere uomini. Anche quei giovani (e sono la maggioranza) che non si pongono in termini riflessi questo problema e perseguono solo l'affascinante più superficiale, non solo cercano, indirettamente, questo stesso significato; ma soprattutto lo cercano in uno stile molto diverso da quello tradizionale.
    Il CdG, cogliendo questa attesa, sente la necessità di proporre con perentorietà Gesù Cristo come colui che, unico, può risolverla radicalmente. Ad una ricerca vissuta ormai senza mezzi termini, la risposta non può essere che precisa e recisa. Altrimenti si resta nuovamente nel vago, nell'incerto: in quel magma di provvisorietà che sta alla radice della crisi di cui soffrono i giovani di oggi.
    Dunque, il circuito domanda-risposta si chiude bene? Dunque, il CdG è «quello che ci voleva», finalmente?
    Abbiamo l'impressione che... bisogna andarci un po' cauti.
    La «domanda» è reale. La «risposta» è corretta. Eppure, secondo noi, non si può concludere troppo affrettatamente in un «dunque», che sarebbe vero soltanto sul piano «oggettivo», sul piano della comprensione metafisica del problema. Sul piano soggettivo, esistenziale, le cose vanno ben diversamente. E se ne rende conto certamente anche il CdG, dal momento che insiste molto sulla comunità reale, come luogo in cui leggere il catechismo. Ricordiamo tre importanti «pregiudiziali».
    - Le «domande» dei giovani sono normalmente in un'altra direzione esistenziale, rispetto alla «risposta» che è (oggettivamente) l'evento di Gesù Cristo. Sono domande di «sicurezza»: sono un'affannosa ricerca di rassicurazione sull'esistenza. Tutto è buono, tutto è prezioso, tutto merita attenzione, quando serve a rassicurare, a sostenere la sopravvivenza. Molti giovani non cercano un'esperienza di trascendenza; ma una esperienza di senso. Esso è raggiungibile su diversi fronti: qualche volta la «preghiera» è il surrogato (meno pericoloso o meno costoso) della droga o del «travoltismo». Lo sanno bene coloro che analizzano le reazioni giovanili cercando di andare al di là delle apparenze (più o meno gratificanti). Ci pare importante sottolineare che questo è un fatto «positivo», nonostante tutto. Perché significa che il discorso non è chiuso con nessuno, neppure con coloro che possono sembrare ormai lontani e «disperati», perché hanno fatto scelte lontane e disperate. Come non è risolto per coloro che hanno «riscoperto la preghiera»; così non è chiuso con coloro che si buttano nella disperazione del consumismo musicale. Gli uni e gli altri cercano, spesso, solo sicurezza.
    - Il secondo motivo è più «cristiano»: non si può chiudere troppo frettolosamente il circuito domande-risposte. Gesù Cristo non è mai riducibile ad una risposta rassicurante. Egli è l'interpellanza più radicale e quindi l'inquietudine irriducibile per coloro che si affidano a lui, rinunciando ad «esistere», a «responsabilizzarsi». Lo sa molto bene il CdG: basta leggere la parte centrale, dove si presenta Gesù Cristo.
    Il primo passo obbligato del percorso per incontrare Gesù Cristo consiste nella scoperta degli interrogativi religiosi presenti nelle esperienze fondamentali dell'uomo. Gesù Cristo, però, non è la punta più profonda, il segno terminale, delle domande che l'uomo si pone sul senso della propria vita. La sua attesa non coincide con gli interrogativi umani più veri. Tra queste domande e la proposta di Cristo c'è continuità di significato, nel senso che Cristo è risposta a questi interrogativi. Ma c'è contemporaneamente un salto di prospettiva, nel senso che Gesù Cristo è proposta, dono gratuito del Padre all'uomo, che chiama sempre in causa la responsabilità personale, che «convoca»: salva, rendendo capaci di autosalvarsi. È quindi indispensabile responsabilizzare i giovani, per poter annunciare cristianamente Gesù Cristo.
    - Il terzo motivo è pacifico: basta quindi accennarlo. L'incontro con Gesù Cristo, che radicalmente costituisce il cristiano, non coincide con l'accoglienza della sua dottrina, ma chiede l'adesione personale, totale, in una vita che si fa nuova, perché vissuta nella sua sequela. Non si tratta di porre un'alternativa tra ortodossia e ortoprassi, né di ricercare una priorità genetica dell'una dall'altra. In realtà, non esiste che l'esistenza cristiana, prassi consapevole e consapevolezza di prassi, assieme quindi ortodossa e ortopratica, nella comunità ecclesiale.
    Molte domande giovanili sono nella direzione della prassi, cercano una qualità di vita, «vivendola». Il CdG, per forza di cose, è fondamentalmente «consapevolezza»: offre una qualità di vita, perché aiuta a «conoscere» la ragione della vita nuova. Tra questi due mondi, il dialogo potrebbe risultare impossibile, se i due poli sono assolutizzati. Integrati, invece, nel crogiolo della comunità ecclesiale che «usa» il CdG, possono produrre una reale esistenza cristiana.

    È possibile lo scontro

    Tra CdG e condizione giovanile si può arrivare allo «scontro». Uno scontro dai volti diversi: rifiuto, polemica, disinteresse, marginalizzazione indiscriminata.
    Lo scontro è il frutto del «dunque» troppo precipitoso: ci sono «domande», noi abbiamo le «risposte», dunque. Il tutto venato della nostalgia del «finalmente»: finalmente qualcosa di preciso, finalmente un po' di ordine, finalmente basta con lo spontaneismo soggettivizzante...
    Per dirla più seriamente, crediamo che si giunga allo «scontro»:
    - Quando si ignora la specificità della «nuova» domanda religiosa dei giovani, perché si interpreta la condizione giovanile con categorie astratte o inadeguate, rischiando di slittare nelle analisi psicologistiche o metafisiche (i giovani sono poi quelli di sempre...).
    - Quando le domande giovanili sono interpretate in modo riduttivo o con una consequenzialità rigida. Secondo noi questa ipotesi si verifica in tre modelli diversi: quando il rapporto domanda-risposta è vissuto in modo deterministico, senza capacita interpretativa; quando la domanda è colta nella sua dimensione solo apparente, senza una lettura profonda che ne disveli i germi di possibili alienazioni (domanda religiosa come domanda di sicurezza...); quando, infine, si fa coincidere troppo facilmente la fede con le sue acculturazioni (e siamo nell'integrismo), «contando» l'adesione alla fede sull'accettazione del CdG.
    - Quando il CdG è vissuto come la firma ufficiale a «cambiare rotta», e cioè a tornare indietro, ai modelli preconciliari. Qualche adulto c'è, sicuramente, che la pensa così. Ha atteso al varco i giovani, senza scomporsi troppo. Ora, rileggendo il CdG alla luce della sua precomprensione, conclude che gli dà ragione (si può far dire tutto a tutti...) e quindi lo utilizza in modo ideologico.
    - Quando lo si rifiuta, con una sicurezza presuntuosa, dopo averlo scorso in modo superficiale, solo perché i primi cinque titoli... dicono già tutto.
    - Quando lo si usa in modo antologico, come prontuario da cui ricavare le cose da dire, visto che non c'è stato il tempo sufficiente per preparare bene l'intervento, invece di raccogliere il pressante invito alla sistematicità di cui le sue pagine giustamente trasudano.

    Il CdG per la promozione

    Il CdG può diventare invece un prezioso strumento promozionale, in campo di pastorale giovanile. Un dono dello Spirito alla comunità ecclesiale italiana, per far incontrare i giovani con Gesù Cristo e dare a tutti un'autocomprensione critica della propria fede.
    La cosa è pacifica. E ne abbiamo già parlato a lungo in NPG 1979/1. Indichiamo le «condizioni»:
    - Prima di tutto è indispensabile una conoscenza precisa e seria del CdG. La conoscenza per sentito dire o per lettura veloce è insufficiente: dannosa, perché inficiata da tutti i possibili pregiudizi.
    - È poi importante utilizzare saggiamente il CdG. Certo, non è fatto per un uso indiscriminato, secondo la logica che «un po' di bene comunque lo fa». In questo dossier suggeriamo qualche appunto in merito.
    - Inoltre raccomandiamo agli operatori di pastorale giovanile di «affrontare» il CdG con quell'approccio ermeneutico (fede e processi di acculturazione) che il Sinodo ha sottolineato, proprio a proposito della catechesi giovanile. Si veda l'articolo che parla di questi problemi nel numero già citato di NPG (1979/1).
    - Una cosa importante: anche il CdG deve inserirsi nei processi di educazione liberatrice che sono fondamentali per ogni corretta educazione alla fede. Si tratta di non forzare mai troppo i tempi di maturazione. Di non imporre nulla d'alto, in modo perentorio. Di rispettare la gradualità e la progressività. Di proporre e sollecitare incessantemente, facendo però emergere lentamente dall'interno dell'esperienza dei giovani l'attesa e il «bisogno» esistenziale verso quello che il CdG «già» è e di fatto propone. Si tratta, cioè, di far nascere «domande» concrete. Non solo le grandi domande metafisiche da cui muove il CdG; ma soprattutto le domande di fatto, dei giovani qui-ora con cui si dialoga. Perché l'evento testimoniato e espresso dal CdG sia davvero «buona novella». In questo terreno, le scadenze rigide e i tempi programmati in generale sono, presto o tardi, un grosso pericolo educativo e pastorale.
    - Il CdG si inserisce nella grande prospettiva pastorale aperta da «Il rinnovamento della catechesi»; è uno strumento per realizzarne la «svolta». Non bisogna dimenticarlo.
    Il CdG va quindi utilizzato all'interno dei punti-fermi, codificati per la comunità ecclesiale italiana da RdC, senza ritorni nostalgici a vecchi schemi pastorali.

    Il nodo: quale «domanda religiosa»?

    Nelle pagine precedenti è ritornato con frequenza il problema delle «domande religiose». Ci sembra il punto nodale della utilizzazione del CdG, il luogo del suo «confronto» con l'attuale condizione giovanile.
    L'annuncio di Gesù Cristo, perché diventi «agevolmente motivo e criterio per tutte le valutazioni e le scelte della vita», «deve apparire ad ognuno come un'apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande» (RdC 52). Deve cioè inserirsi nel cuore delle domande religiose.
    Il CdG ha il doppio compito di evocare domande religiose e di annunciare Gesù Cristo come «buona novella» a queste domande.
    Non entriamo in merito alla ricerca di quali siano, per i giovani d'oggi, queste domande religiose. Il CdG privilegia quelle di ordine culturale: la ricerca della verità, del significato, della speranza, la storicità della persona di Gesù e del suo vangelo. Non mancano però accenni incisivi anche su problemi più esistenziali. D'altra parte, il passaggio tra dimensione culturale e dimensione esistenziale è abbastanza facile, quando c'è un educatore accorto o una comunità di forte identificazione, come ci ricorda l'articolo di F. Pajer in questo dossier.
    Il problema su cui vogliamo suggerire qualche riflessione, è un altro, più a monte: quando una domanda umana è «domanda religiosa»? Come e quando possiamo realizzare un corretto rapporto tra le domande emergenti nell'attuale condizione giovanile e l'annuncio sconvolgente di Gesù Cristo, testimoniato anche dal CdG?

    In che senso «domanda religiosa»?

    Il rapporto tra domanda e proposta cristiana non può essere interpretato nel senso che l'uomo pone una domanda e la rivelazione cristiana è qualificata come la risposta a questa domanda. «Sarebbe come un suonare sulle tastiere di due piani accordati su diverse tonalità». Si deve invece toccare la soglia del «religioso» già dentro l'umano, con una congenialità così intima che la proposta cristiana risulti rivelazione della «sovrabbondanza di senso contenuta nel senso che l'uomo ha scoperto nel mondo»; «qualcosa che dà nome e lo dà in modo esplicito, cosciente e fondato: gioia per il mistero identificato, che, tuttavia, continua ad essere mistero».
    Si tratta di un passaggio fondamentale e delicato. Il suo sviluppo richiede alcune precisazioni.
    La prima annotazione riguarda lo stesso termine usato: dimensione «religiosa» delle esperienze. L'espressione può risultare facilmente equivoca, perché nella lettura psicologica e pastorale si usa il termine «religioso» con accezioni molto diverse. In questo contesto, vogliamo utilizzarlo in un senso ristretto e tecnico. «Si può intendere che appartiene all'area del religioso non tutto ciò che trascende un aspetto della realtà o della coscienza umana (cioè ad es. tutto ciò che trascende il livello della vita puramente biologica), ma solo ciò supera radicalmente (o ipotizza la possibilità di superare radicalmente) tutto l'uomo, la sua esperienza, la sua storia». In questo senso, «religioso» è quella caratteristica delle esperienze umane che si manifesta quando l'incontro con la realtà solleva interrogativi che vanno al di là dell'immediatamente dato in modo globale e radicale, facendo così emergere la consapevolezza della parzialità delle diverse risposte immanenti. È perciò dimensione di confine: profondamente umana e, nello stesso tempo, proiettata verso il trascendente.
    Questa precisazione ci permette di comprendere quale debba essere il procedimento corretto, per definire la dimensione religiosa della vita. Le esperienze quotidiane, restituite al giovane nella densità di problematicità che comportano, costringono ad interrogarsi sul «perché» della vita; fanno emergere domande di significato.
    Queste domande incontrano molte concrete risposte, nel crogiolo della ricerca umana. Ma le domande più radicali resistono all'onda di queste risposte storiche. Esse sono importanti, interessanti. Ma non bastano, perché si dimostrano incapaci di risolvere «tutto» il problema del significato. Quando queste («domande di significato» sussistono anche «oltre» le diverse possibili risposte, queste domande e le esperienze da cui emergono) sono «religiose». Sono quindi attente e aperte alla proposta del trascendente.
    Un'altra cosa bisogna aggiungere, per evitare equivoci, pericolosi soprattutto per le conseguenze sul terreno metodologico.
    Il rapporto domanda-risposta non è un processo culturale ma vitale. E cioè non comporta un problema di ordine intellettuale, ma prima di tutto è esperienza: un fatto di vita che, compreso nella sua provocante densità, costringe a ricercarne il «perché», nel significato globale della vita. Questa sottolineatura è importante. Ci permette di comprendere meglio come l'iniziale risposta alla domanda di significato debba essere offerta dall'uomo stesso. Colui che vive le sue esperienze quotidiane in uno stile così denso di umanità, fa emergere (in sé e negli altri) il problema del «perché», e sospinge questo problema verso una soglia di ulteriorità, che sola può giustificare questa situazione esistenziale. Davvero, egli ha posto la domanda sul senso della vita e ha dato una risposta che apre al trascendente, perché relativizza le altre possibili risposte immanenti. «La sua risposta fa trasparire qualcosa del miracolo dell'esistenza umana, ossia del miracolo consistente nel fatto che, nonostante tutto, l'uomo desidera realizzare il bene, e che nonostante Dachau, Buchenwald, il Biafra, il Vietnam e nonostante l'invisibile miseria personale, spirituale e sociale di tanti uomini, seguita tuttavia ad avere fiducia che il bene prevarrà, e si impegna per questo. In realtà possiamo costatare ciò in molti uomini; c'è qualcosa nell'uomo che non viene da lui, che è veramente un "troppo" in lui».

    Il tragico quotidiano dialogo tra vita e morte

    Abbiamo affermato genericamente l'itinerario. Esistono direttrici privilegiate per far emergere la dimensione religiosa delle esperienze? Pur nei limiti di ogni schematizzazione, sottolineiamo due risonanze tipiche di ogni fatto veramente umano: il tragico, quotidiano dialogo tra positività e fallimento.
    In primo luogo, perciò, l'appello al trascendente può affiorare dalla dimensione di positività, di autenticità, di cui molte esperienze sono cariche. Esse hanno in sé una vivacità umana così ricca, così nuova da diventare «come frecce o segni di un senso ultimo e totale della vita umana» Ci offrono una modalità di essere uomini che ci rilancia più a qualcosa che ci supera e ci è stato donato, che alla nostra responsabilità e autosufficienza.
    Il «religioso» affiora anche dalla costatazione che l'esperienza umana è continuamente minacciata dallo scacco. La ricerca di significato, l'attesa ansiosa di valori, si fa grido di salvezza. Ogni giorno tocchiamo con mano la minaccia di inquinamento (personale o sociale) verso cui sono trascinate le nostre esperienze, anche le più affascinanti. Da questa costatazione nasce un desiderio di liberazione, un fremito di speranza, che spinge oltre, al di là dei confini angusti dell'esperienza quotidiana.
    «Tutte le esperienze negative messe assieme non possono spazzar via il nonostante della fiducia che si manifesta nella resistenza critica e che ci impedisce di abbandonare gli uomini, il mondo e la società, e di arrenderci senz'altro al completo nonsenso». Dal positivo e dal negativo assieme (e cioè dalla «vita») emerge così l'attenzione verso il «qualcosa», capace di dare conto di questa significatività «nonostante tutto», che è «toccata in sorte al mondo in virtù della creazione».


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