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    Per fare un progetto educativo-pastorale



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1980-6-57)

    L'idea di ricercare modelli sistematici per la progettazione degli itinerari educativi e pastorali, non è certo molto antica e, forse, neppure molto diffusa.
    Le ragioni sono due, di consistenza diversa.
    Il primo motivo è di ordine teologico. Investe il problema alla radice, perché propone l'interrogativo di fondo: si può parlare di programmazione e di «metodo» nell'educazione alla fede o non bisogna utilizzare con molta cautela questi modelli?
    Quando l'accento è posto sulla discontinuità tra l'esperienza umana e l'evento cristiano, come fanno in termini diversi tutte le teologie che insistono troppo sulla prospettiva escatologica, si nega che la ragione possa apportare contributi decisivi alla maturazione della fede. Solo la conversione radicale porta a Dio. Nel versante opposto, contesta il significato di una programmazione pastorale anche chi fa coincidere l'evento di Dio con l'esperienza umana, in assoluto. In questo caso non c'è una progettazione specifica per l'educazione alla fede, perché tutto si riduce a semplici processi educativi e quindi ad una corretta utilizzazione delle scienze umane.
    Il secondo motivo riguarda invece proprio le scienze dell'educazione e in particolare la didattica, la scienza cioè che studia i modelli di programmazione educativa. Questa scienza è relativamente recente. Solo nel dopoguerra statunitense vengono emergendo documenti di ricerca e di studio in merito. Fino a poco tempo fa, non c'era un accordo approfondito e diffuso sulle esigenze che comporta un processo complesso come quello educativo-pastorale. La ricomprensione dei compiti relativi all'educazione alla fede in termini anche educativi, ha portato necessariamente a fare i conti con i modelli di programmazione educativa. Lo sviluppo di questo settore della didattica offre così contributi stimolanti anche nell'ambito pastorale, attuando un vero processo interdisciplinare.
    Anche nell'educazione alla fede si introduce il concetto di «curricolo», intendendo per curricolo «il tentativo di rendere comunicabili i principi essenziali e le configurazioni concrete di una proposta educativa, in modo da renderla disponibile ad analisi critica e passibile di una effettiva traduzione operativa».

    LE DIMENSIONI Dl UNA CORRETTA PROGRAMMAZIONE

    Se traduciamo il progetto pastorale secondo un modulo curriculare, costatiamo immediatamente, la necessità di rispondere in modo pertinente a quattro «interrogativi». E cioè:
    - quali sono le finalità educative-pastorali che si intende raggiungere?
    - quali domande, implicite o esplicite, emergono nei soggetti?
    - quali esperienze educative, verosimilmente adatte a raggiungere queste finalità, sono disponibili?
    - in quale modo è possibile verificare che queste finalità sono state raggiunte?
    Le quattro domande esprimono le dimensioni di una corretta programmazione: l'obiettivo, la situazione di partenza, il metodo, la valutazione.
    Approfondiamo brevemente queste dimensioni.

    Obiettivo

    Si chiama obiettivo l'orizzonte globale in cui si colloca la programmazione, orizzonte determinato dalle competenze finali a cui tende tutto il processo. Queste competenze sono normalmente costituite da conoscenze da acquisire e da atteggiamenti a cui abilitare.
    In questi anni, nella comunità ecclesiale italiana che ha recepito RdC, si è parlato di «integrazione tra fede e vita», come preciso obiettivo per la pastorale giovanile. Questo obiettivo va operazionalizzato, definito cioè in termini operativi e verificabili.

    La situazione di partenza

    La situazione di partenza del processo pastorale è rappresentata dalle «domande» presenti nei soggetti del processo stesso.
    Queste domande sono spesso implicite e quindi non è facile identificarle. Possiamo più correttamente parlare di «bisogni» di educazione. E cioè: il bisogno rappresentato dallo scarto esistente tra il soggetto e gli standards definibili sull'obiettivo; il bisogno rappresentato dai desideri presenti nel profondo della persona; il bisogno espresso attraverso domande esplicite; il bisogno che nasce dal confronto con altre persone o altre esperienze esistenziali; il bisogno identificabile come anticipazione di future necessità.
    Per determinare in modo corretto la situazione di partenza è indispensabile riuscire a diagnosticare questi bisogni, rendendo il protagonista sempre più auto-consapevole delle sue domande. Non possiamo inoltre dimenticare che questi bisogni sono facilmente manipolabili dagli influssi sociali, culturali, ambientali. Per questo si richiedono approcci interpretativi complessi e raffinati, se vogliamo fare una buona diagnosi delle domande giovanili.

    Il metodo

    Metodo è quella particolare selezione e organizzazione delle diverse operazioni educativo-pastorali, funzionale a creare le condizioni favorevoli a far raggiungere gli obiettivi, nelle diverse situazioni di partenza.

    La valutazione

    Valutazione è il processo mediante cui si verifica fino a che punto i soggetti-destinatari hanno raggiunto gli obiettivi.
    Il processo di valutazione investe sia il metodo, per verificarne la funzionalità in ordine agli obiettivi, sia gli obiettivi stessi, per verificarne l'adeguatezza in ordine ai destinatari.
    La valutazione conclude quindi la programmazione e, nello stesso tempo, la riapre ad ondate successive.

    MODELLI Dl PROGRAMMAZIONE

    Abbiamo elencato le dimensioni di una corretta programmazione. L'abbiamo fatto in ordine casuale.
    Esiste un ordine normativo?
    La strutturazione in una sequenza o in un'altra non è un fatto indifferente. Rappresenta invece un preciso modello di programmazione educativa, che investe problemi antropologici e, nel nostro caso, teologici.

    Due modelli inadeguati

    Confrontiamo queste due sequenze:
    obiettivi → domande  metodo  valutazione
    domande  obiettivi  metodo  valutazione
    Sono eguali nei contenuti; differiscono solo nella posizione delle prime due caselle. Tuttavia, concettualmente e praticamente, esse riflettono due concezioni pastorali molto differenti.
    Nella prima gli obiettivi sono definiti in assoluto; e sono poi applicati deduttivamente ai destinatari del processo. Il metodo è strumentale rispetto agli obiettivi.
    Nella seconda sequenza, gli obiettivi sono definiti in funzione delle «domande» giovanili. Prevale così la dimensione esperienziale su quella oggettiva.
    In rapporto all'educazione alla fede, ci sembrano inadeguati tutti e due i modelli, per ragioni epistemologiche.
    Il primo modello interroga le scienze umane solo nel momento di definire il metodo. La teologia descrive l'obiettivo, in modo autonomo; e si tratta evidentemente di un obiettivo oggettivo, stabilizzato al di fuori della mischia problematica della situazione giovanile. Alle scienze dell'educazione compete solo il ruolo di offrire suggerimenti circa il modo di rendere accessibile e comunicabile questo obiettivo. Al massimo, si può giungere al compromesso provvisorio dell'adattamento, per la temporanea incapacità dei destinatari di cogliere tutta la ricchezza dell'evento da comunicare.
    Nel secondo modello, invece, prevale l'esperienza soggettiva, a scapito dei contenuti oggettivi. La prassi concreta è normalmente preoccupata più di rispettare le domande immediate dei giovani che le esigenze profetiche di cui è carico l'evento.
    In questo modello, le scienze descrittive e progettative hanno l'ultima e decisiva parola.
    Mentre nel primo modello la ricerca è tutta sul «come» fare, in questo secondo essa investe violentemente il «cosa» e il «perché». E questo può diventare pericoloso, dal momento che il nucleo fondamentale dell'esperienza cristiana è troppo «ricco», troppo «dato» per poter essere ricostruito solo dalle sue frammentazioni.

    Il modello «ermeneutico»

    Esiste una alternativa praticabile, che permetta di uscire dai limiti dei due modelli descritti?
    Crediamo di si.
    Vediamo questa concreta alternativa nella elaborazione di un modello costruito nella logica dei processi ermeneutici, così come sono stati formulati anche dalla quarta assemblea del Sinodo dei Vescovi, a proposito del problema dell'acculturazione della fede.
    Schematicamente, la sequenza in cui si organizzano le dimensioni della programmazione, può risultare questa:

    progetto


    Dobbiamo spendere una parola di approfondimento, per comprendere bene il senso di questa opzione. Crediamo, infatti, che su questo scottante terreno ermeneutico si giochi oggi la funzione della pastorale giovanile. Una corretta gestione di questo modello permette infatti di accogliere nello stesso tempo il nuovo emergente dalla condizione giovanile e quanto c'è di normativo nella prassi tradizionale della comunità ecclesiale. Inoltre colloca molti problemi pratici nella loro reale prospettiva di comunicazione e di linguaggio.

    Prima di tutto, «decodificare»

    La fede si incarna sempre in una cultura e cioè nella vita, negli orientamenti di valore, nelle espressioni linguistiche di un popolo. Questo processo avviene in un dialogo, fatto di «dare» e «ricevere». Per questo la fede è una potente forza di umanizzazione, nel senso che sollecita ad essere uomini secondo il progetto di «uomo nuovo» rivelato da Dio in Gesù Cristo. Nello stesso tempo, si umanizza, prendendo l'umana carne di una concreta cultura.
    L'ambito del processo di «acculturazione» è la «fides quae» e la «fides qua». Il contenuto della fede, infatti, nella sua forma più piena, è determinato da una serie di eventi e informazioni, che dicono il «che cosa» dell'esperienza cristiana, e da una batteria di atteggiamenti che descrivono la logica nuova del cristiano, il «come» della sua esistenza. Chiamiamo i primi «fides quae» (+ il «che cosa») e i secondi «fides qua» (+ il «come»).
    Nella comunità ecclesiale, «fides quae» e «fides qua» sono già acculturate: esprimono già in una determinata cultura storica l'indisponibile della fede (che è, come dicevamo, evento e logica).
    Non è quindi possibile assumere gli obiettivi in modo incondizionato: si correrebbe il grave rischio di attribuire lo stesso indice di normatività alla fede e alla cultura umana in cui essa si esprime.
    L'esigenza di attivare corretti processi di acculturazione comporta in primo luogo la «decodificazione» di quelli già avvenuti: richiede cioè di separare l'indisponibile della fede dalla cultura in cui viene espresso. Solo dopo questa operazione pregiudiziale, si può tentare una nuova acculturazione.

    La condizione giovanile può «dare» mentre «riceve»

    Ogni cultura ha la capacità di far emergere dimensioni nuove e insperate della «fides quae» e della «fides qua». Essa sottolinea con maggior insistenza alcuni aspetti che prima potevano essere messi in secondo piano e intreccia consequenzialità che introducono una ventata di novità.
    L'insieme degli elementi culturali che segna l'attuale condizione giovanile non è perciò solo il luogo di una acculturazione passiva, ma esercita una vera funzione di spinta in avanti, di stimolo al progresso rispetto alla «fides quae» e alla «fides qua». Costringe la comunità ecclesiale a cogliere, nell'immensa ricchezza dell'evento di salvezza, quelle dimensioni che lo rendono salvifico per questi giovani.
    I giovani non sono perciò solo destinatari dell'evento, ma lo fanno esistere, gli danno quella umana carne per cui «è», qui-ora. Quando ad essi si chiede di ripetere passivamente le espressioni tradizionali della fede, non solo si fa loro un cattivo servizio, ma si impoverisce la fede stessa.
    Chi è troppo abituato all'uniformità nel nome della trascendenza, fa fatica ad accogliere questi suggerimenti. Sono in questione valori di ordine trascendente; e quindi non si può agire da spregiudicati. Il cambio e la pluralità di espressioni non tocca però la trascendenza, ma la povertà e lo svuotamento delle mediazioni culturali in cui essi esistono di fatto.

    La funzione critica dell'evento

    L'indisponibile esercita sempre una funzione critica e normativa rispetto ai processi di acculturazione. E questo nelle due direzioni indicate: non solo in rapporto ai valori irrinunciabili espressi nella fede, ma anche in rapporto alla logica nuova che da questi valori promana.
    Non si può pretendere che ogni espressione culturale possa adeguatamente «dire la fede» o che i modelli giovanili siano corretti solo perché corrispondono alla sensibilità e ai bisogni dei giovani. Esistono culture ed espressioni esistenziali troppo lontane dalla fede e dalla sua logica: esse non possono fornire il supporto al processo di acculturazione. Prima vanno «umanizzate», anche mediante il contributo critico che proviene dalla fede, e poi potranno esprimere l'evento di Dio in modo rinnovato rispetto al passato.
    Questo è un punto importante, per evitare che la reinvenzione degli obiettivi si concluda nello svuotamento e nella riduzione antropologica dell'evento di Dio.
    Questa esigenza si concretizza in una doppia azione: al momento in cui si analizzano i bisogni e le domande giovanili e al momento, ancora più delicato, in cui si riformulano gli obiettivi della educazione alla fede.
    Prima di tutto è indispensabile interpretare la condizione giovanile alla luce della fede. La memoria ecclesiale ha l'importante funzione di aiutarci a giudicare meglio la storia e le esigenze che in essa emergono. Non possiamo leggere la realtà solo con approcci socioculturali e poi interpellare la fede per rispondere a questi bisogni. Dobbiamo utilizzare la fede come chiave di lettura. Essa non può sostituirsi alle scienze descrittive. Ma queste non possono fare a meno della fede, quando vogliono dirci ciò di cui ha bisogno l'uomo, nel profondo della sua esistenza.
    L'acculturazione della fede nella condizione giovanile richiede perciò una lettura credente della condizione giovanile stessa. In secondo luogo, non dobbiamo dimenticare che la «memoria» della comunità ecclesiale non è soltanto il luogo in cui incontrare l'evento di Dio, dopo che essa è stata spogliata dalle sue incrostazioni culturali. La comunità ecclesiale è luogo della fede in se stessa (anche se non in modo esclusivo): ha quindi il compito di giudicare tutte le espressioni della fede (e quindi anche la definizione degli obiettivi nella sua educazione), per aiutarle a conservarsi «credenti» ed «ecclesiali per permettere di risiedere dentro l'evento di Dio.
    Contenuti della fede e domande giovanili entrano così in un vortice circolare. Le esperienze aiutano a formulare storicamente gli obiettivi. I contenuti selezionano le domande rendendole capaci di mediare la salvezza, e giudicano i progetti di autorealizzazione nel confronto, affascinante e colpevolizzante, con l'evento definitivo di Dio, Gesù Cristo.

    ALLA RADICE DEL PROBLEMA: PERCHÉ LA COMUNICAZIONE PASTORALE SIA «AVVENIMENTO»

    La scelta di un modello ermeneutico non ci aiuta solo a stabilire la sequenza in cui strutturare la programmazione. Essa ci fa comprendere che la radice del problema educativo-pastorale è fondamentalmente un problema di «comunicazione», che riguarda tanto la proposta dell'evento di Dio come la risposta dell'uomo a questo dono interpellante.
    L'evento di Dio si rende comunicabile all'uomo attraverso le parole umane che lo esprimono. La risposta dell'uomo si invera nella sua esperienza esistenziale. Appello e risposta possiedono perciò una struttura visibile che veicola un evento più profondo e radicale. Perché comunicazione «ad» un uomo «di» un uomo, sono nell'ordine simbolico: una struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa un altro senso indiretto, secondario, figurato, che può essere appreso soltanto attraverso il primo.
    La comunicazione pastorale si realizza quindi sempre sotto il segno dei processi linguistici.
    La teologia ha espresso genericamente questa consapevolezza utilizzando il tema della sacramentalità. L'accento sul simbolo e sui processi lnguistici ci aiuta a comprendere meglio questa esigenza e ci permette di riformulare i compiti che ne scaturiscono, in termini interdisciplinari.
    Se definiamo il simbolo come la struttura significativa mediante la quale qualcuno dice qualcosa (il segno linguistico) su qualcosa (l'evento reale) a qualche altro, dobbiamo ricordare che l'efficacia salvifica dei processi pastorali è assicurata dall'evento di cui si parla. Ciò di cui si parla (o che si «manipola», perché, come è evidente, pensiamo ad un «parlare» fatto non di sole parole, ma anche di gesti, di riti), carica di «grazia salvifica» il «che cosa» che lo esprime e rende gli interlocutori umani capaci di dire e di accogliere. La comunicazione risulta salvifica non perché «parla» di salvezza, ma perché «produce» salvezza, mentre ne parla.
    La teologia sottolinea però che questo processo non avviene in modo meccanico. Anche il segno sacramentale è sempre, come tutti i segni, appello e espressione di una decisione. Solo se esso viene compreso e vissuto nella sua struttura di appello-decisione, può esprimere efficacia salvifica.
    Questa costatazione ci rimanda nuovamente alla logica della comunicazione. Solo quando la comunicazione è compresa nel suo essere-appello e fatta propria nella decisione di vita, essa è vera. Vera nel senso che è corretta, perché scorre nella formula linguistica di proposta-risposta; vera nel senso di autentica, perché rispettosa della responsabilità di ogni uomo, chiamato a decidersi liberamente e personalmente di fronte ad ogni appello.
    L'efficacia della comunicazione pastorale è perciò legata alla piena partecipazione del soggetto a quell'avvenimento linguistico che è costituito dal simbolo.
    Usiamo il termine «avvenimento» per ricordare che in ogni comunicazione sono in gioco diversi elementi. Li elenchiamo, evidenziando i problemi pastorali che ci sembrano connessi con questo processo. Nella ricerca di un metodo per la pastorale giovanile dovremo necessariamente confrontarci con queste esigenze.

    La comunicazione è un «atto»

    La comunicazione è un atto che «esiste» collocandosi in un preciso qui-ora del tempo e dello spazio.
    Nell'atto del comunicare si incrociano le componenti storiche (la dimensione diacronica) e quelle situazionali-strutturali (la dimensione sincronica). Le prime producono la ricchezza dei diversi segni linguistici, perché in essi si è accumulata la storia dell'uomo, che il segno concentra ed evoca. Cosi, quando dico «volume», connoto molti e diversi significati e quel mondo culturale che ciascuno di essi produce. Le seconde, invece, creando il contesto al segno utilizzato, limitano la sua ricchezza e la orientano verso un preciso significato tra i tanti possibili. Cosi, per ritornare all'esempio, se sviluppo un tema geometrico, la parola «volume» sarà interpretata come «un corpo nello spazio»; se invece il tema è quello della biblioteca, la parola «volume» sarà interpretata come «libro». È evidente che il processo non avviene in modo deterministico, perché, nell'atto di parlare, gli interlocutori operano concrete scelte personali, producendo spesso combinazioni nuove.
    Già questo primo livello introduce alcuni gravi problemi pastorali.
    Il linguaggio ecclesiale possiede, in qualche misura, le caratteristiche di un gergo. Infatti utilizza alcune parole che non si usano normalmente fuori del suo ambito; oppure assume termini correnti, ma li carica di significati specializzati.
    Questo fatto rende equivoca la comunicazione, perché il sovraccarico di senso che a quel determinato segno proviene dalla storia, non è limitato (e quindi precisato), nell'atto del parlare, nella direzione con cui lo si pronuncia, ma è invece trascinato verso altre significazioni.
    Facciamo un esempio.
    L'operatore pastorale pronuncia la parola «grazia», scegliendo, tra i molti possibili significati, quello che si è accumulato nell'uso ecclesiale di questa parola. Egli è convinto che l'oggettiva polisemia sia superata dal contesto in cui si agisce. La parola «grazia» oggi è normalmente usata in significati diversi da quello specialistico che qui viene privilegiato. Non basta più il contesto a limitare-precisare, se le strutture linguistiche ricorrenti hanno ormai vanificato «quel» senso. E così siamo nell'equivoco.
    Si aggiunga, a complicare le cose, il fatto del pluralismo, teologico e antropologico. Lo stesso segno può evocare significati diversi, a partire dalla differente collocazione culturale o esperienziale. Neppure è sufficiente dare una definizione previa, perché le parole usate per definire e la loro concatenazione possono risentire già della situazione di pluralismo.

    La comunicazione ha un riferimento alla realtà

    Il parlare sensato è sempre, come dicevamo, un dire qualcosa su qualcosa. Il segno (che è il «qualcosa» che si dice) si protende e si trascende verso una realtà di cui esso è riferimento. L'atto del parlare è così compiuto. Si produce l'apertura dell'idealità del senso alla realtà della cosa significata.
    Nel simbolo si incrociano perciò due prospettive: il rapporto tra significato e significante e il riferimento del segno alla cosa. Queste due prospettive (strutturale la prima e funzionale la seconda) determinano due ambiti di verifica. Si studia il rapporto significante-significato per verificare se veramente «si dice qualcosa», per analizzare cioè se e come il supporto utilizzato sia in grado di condurre al suo significato. Il linguaggio, però, pretende di dire qualcosa su qualcosa: ha presa sulla realtà e esprime, in forma simbolica, questa stessa realtà. Si studia perciò il movimento del senso al riferimento, per verificare la funzione del segno nel discorso.
    Possiamo collocare in questo secondo livello tutti i problemi relativi alla «comprensibilità» del linguaggio utilizzato dalla comunicazione pastorale. Quando ci si chiede se una parola, un gesto, un rito sono comprensibili, ci si interroga proprio a questi livelli. Il significante (per esempio, quel gesto liturgico) permette di arrivare al suo significato, oppure risulta così equivoco da indirizzare la comunicazione verso gli altri significati? E tutto questo (ammesso cioè che sia corretto il rapporto tra significante e significato) porta all'evento di salvezza, oppure il linguaggio resta bloccato in una spirale formale?

    La comunicazione è intersoggettiva

    Infine, ogni comunicazione è avvenimento perché sempre c'è «qualcuno» che intende parlare a «qualcuno». Anzi, qui sta l'essenziale della comunicazione. Un soggetto prende un sistema di segni, che gli è messo a disposizione, per comunicare qualcosa ad un altro soggetto. La comunicazione comporta una intersoggettività. Non c'è comunicazione se non in questo scambio reciproco di andata-ritorno.
    Le note con cui abbiamo aperto questa riflessione amplificano questa esigenza linguistica, perché hanno sottolineato che l'azione pastorale è, costitutivamente, chiamata e risposta.
    Nessuna comunicazione unidirezionale potrà quindi essere vera comunicazione e vera azione pastorale.
    Rientrano in questo ambito i problemi relativi alla dimensione evocativa (o «auto-implicativa») del linguaggio pastorale. Quando, infatti, ci si chiede fino a che punto il segno utilizzato nella comunicazione pastorale possieda la capacita di evocare l'esperienza di chi parla e di chi ascolta, si ripete con altre parole l'esigenza di realizzare un avvenimento linguistico segnato da reale intersoggettività.

    NON IL METODO, MA PRINCIPI DI METODO

    Possiamo ora riprendere il discorso sul «metodo». Rappresenta il tema più scoperto e più urgente.
    Come si è notato, il metodo si costruisce in funzione di due variabili: gli obiettivi e i bisogni giovanili. Queste due variabili sono in movimento, perché nel nostro modello i bisogni giovanili influenzano la definizione degli obiettivi.
    Non è possibile quindi, determinare un metodo da considerare in qualche modo come definitivo e ottimale, tale cioè che possa risultare sempre positivo, in qualsiasi situazione.
    È possibile, invece, suggerire alcuni «principi di metodo». A questi ci si può ispirare nella fase di progettazione educativa e pastorale; montati in un certo modo danno un itinerario metodologico.

    Principio di significatività

    Si può apprendere qualcosa per scoperta o per recezione. Nel primo caso, l'accento è posto sul fatto che la conquista di una conoscenza avviene per intervento autonomo, almeno in modo relativo. Nel secondo caso, invece, l'apprendimento si realizza per trasmissione culturale e per comunicazione da parte di altri.
    Questi due modi di apprendere non si escludono a vicenda, né tanto meno vanno contrapposti. Sono egualmente adeguati al raggiungimento dell'obiettivo, anche se in modalità diverse, quando rispettano il principio della significatività.
    Una proposta o una scoperta risulta significativa quando essa si può collegare (sul piano oggettivo) e di fatto viene collegata (nella percezione soggettiva) con i concetti, le capacità, le esperienze già possedute da una persona. Per questo la proposta e la scoperta viene incorporata in modo armonico con la precedente struttura conoscitiva o esperienziale.
    Anche quando si pretende di provocare una evoluzione nella struttura di personalità dei soggetti, è indispensabile costituire come punto di partenza la storia personale e sociale: le informazioni già possedute, le attese esistenziali, il proprio «mondo interiore».

    Principio di motivazione

    Se si vuole allargare lo spettro degli interessi e aprire a proposte diverse da quelle già possedute, rispettando nello stesso tempo la logica della significatività, è indispensabile far emergere una spinta motivazionale interiore. Essa, anche se indotta, rende soggettivamente significativo il nuovo, il diverso, l'ulteriore.
    Questa spinta proviene dalla messa in crisi della struttura precedente e dall'esigenza interiore di superare questa destabilizzazione, attraverso una serie di condotte cognitive e esperienziali che mirino a produrre una strutturazione più completa e più aperta.
    Il processo motivante è scatenato normalmente dalla presenza di un elemento perturbatore, che inquieta e mette in crisi la strutturazione consolidata. Si tratta di una «presa di coscienza», sollecitata da eventi con cui ci si è confrontati.
    L'elemento perturbatore, perché funzioni come spinta motivazionale, deve risultare da una parte non troppo lontano o difficoltoso, per non apparire estraneo, e, dall'altra, non troppo familiare, perché altrimenti non motiverebbe a sufficienza.

    Principio di approfondimento e concentrazione

    Il principio di approfondimento-concentrazione parte da una importante costatazione educativa: non si conquista una conoscenza ne ci si abilita ad un atteggiamento d'un colpo solo. Si richiede invece la ripetizione frequente degli stessi interventi, il ritorno e la ripresa di temi e di comportamenti. Questo fa emergere quanto è rimasto dai confronti precedenti, come sedimentazione a lungo termine.
    Questo processo può essere descritto come una spirale che si allarga, mano mano che procede. Lo sviluppo è nella direzione dell'estensione e dell'intensità.
    La ripresa e l'approfondimento offre nuovi stimoli, apre verso orizzonti più impegnativi, collegandosi però intensamente con il preesistente, con quello che si è ormai sedimentato ed è stato bene incorporato. I diversi ritorni vanno infatti realizzati con la preoccupazione di risolvere tutto in una direzione costante e omogenea. Questa concentrazione interiore assicura l'unità e la continuità.
    Il principio di approfondimento-concentrazione ricorda quindi che ogni metodo deve rispettare diverse esigenze complementari: la ripresa frequente delle stesse proposte, il progressivo allargamento, l'unità direzionale e l'attenzione verso l'unita interiore del soggetto in educazione.

    Principio di integrazione

    Il principio di integrazione sottolinea l'urgenza di rispettare la globalità e la complessità degli approcci, anche nella preoccupazione di servire l'unità interiore della persona.
    Si potrebbe anche definirlo: principio di interdisciplinarità.
    Alla radice di questo principio stanno infatti le ragioni che esigono e giustificano l'interdisciplinarità nell'azione educativa.
    Il processo educativo è necessariamente composto di interventi differenziati, perché la realtà è complessa e non può essere afferrata che per settori. Ma questi interventi risultano maturanti solo quando sono armonici e complementari; e sono percepiti così dai loro destinatari.
    Il principio di integrazione sollecita quindi a progettare gli interventi in modo da rispettare nello stesso tempo la complessità del movimento educativo, mai riducibile a una sola dimensione di approccio, e la sua armonia e complementarietà. Per questo ogni intervento viene realizzato nella consapevolezza dei poteri e dei limiti della sua unilateralità ed è costante l'attenzione verso l'unificazione interdisciplinare, sia armonizzando gli interventi, cosa non facile in un tempo di pluralismo, sia abilitando il soggetto a reagire in modo integrato alle differenti operazioni e proposte.


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