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    Identificarsi in una comunità che narra la sua passione per la vita


     


    Riccardo Tonelli

    (NPG 1983-10-15)

     


    UN PROBLEMA DI COMUNICAZIONE EDUCATIVA

    Se pensiamo l'atto educativo in termini di comunicazione ci accorgiamo facilmente che esso si svolge normalmente secondo modelli chiaramente asimmetrici.
    La costatazione è abbastanza pacifica.
    Anche coloro che contestano il valore educativo dell'asimmetria partono dalla considerazione che la relazione educatore-educando inizia spesso in modo asimmetrico.
    Se le cose stanno così, è possibile una comunicazione quando gli interlocutori sono in posizione asimmetrica oppure si deve superare l'asimmetria per poter comunicare?
    Su questo interrogativo si punta la nostra ricerca.
    Per comprendere bene la sua importanza, dobbiamo precisare i termini della questione e mettere adeguatamente a fuoco le ragioni di problematicità.
    Incominciamo dal primo obiettivo.

    I termini della questione

    Riprendiamo gli elementi dell'affermazione iniziale.
    Prima di tutto sottolineiamo l'orizzonte globale: intendiamo collocare la comprensione del problema e la sua soluzione in una prospettiva educativa.
    Questa collocazione determina il punto di riferimento e di discriminazione, quello che spinge ad affrontare il discorso secondo una precisa scelta di campo.
    Quale sia questa prospettiva e cosa comporti l'esigenza educativa, qui lo diamo per scontato, per non ripetere cose già dette in altri contesti (si rivedano, per esempio, i Q 5-6, 7 dei «quaderni dell'animatore»).
    Aggiungiamo solo un altro rilievo. Quanto riferiamo all'atto educativo, lo estendiamo anche all'atto pastorale. Esso infatti assume e radicalizza quella caratteristica dell'atto educativo (l'asimmetria) che forma l'oggetto di questo articolo.
    Il processo educativo e pastorale si sviluppa secondo modelli di tipo comunicativo: facendo educazione e pastorale qualcuno dice qualcosa a qualche altro su qualcosa e per qualcosa.
    Siamo abituati a considerare soprattutto il «qualcosa» che viene detto, quello che forma l'oggetto del processo. Anche questo rappresenta certo un fatto di comunicazione. Ma non è né l'unica realtà né, forse, la più importante. Noi insistiamo maggiormente sulla relazione che si instaura tra i due protagonisti: tra colui che dice qualcosa (persona, persone, istituzioni) e colui che accoglie o rifiuta questa parola e in ciò rimette in questione il primo interlocutore.
    Chi sottolinea questa dimensione comunicativa dell'atto educativo e pastorale, ricorda che i modelli utilizzati per produrre e far circolare i contenuti hanno un grosso peso nella definizione dei contenuti stessi, sulla loro validazione soggettiva e sulla capacità di creare identificazione.
    E così siamo giunti all'ultimo degli elementi presenti nella affermazione iniziale.
    La relazione comunicativa utilizzata nei processi educativi e pastorali è di tipo asimmetrico.
    Chiamiamo «asimmetria» la mancanza di corrispondenza e di proporzione tra due punti. Asimmetria dice perciò «diversità»: nel nostro caso distinzione e diversità tra i due interlocutori.
    Ogni relazione educativa è segnata dalla diversità. Tra educando e educatore non c'è infatti corrispondenza a livello di età, di formazione, di possesso di informazioni, di ruoli sociali. La stessa funzione dell'educatore è giustificata e caricata di responsabilità sociale proprio a partire dal riconoscimento dell'asimmetria esistente.
    Il problema sta nella valutazione di questo fatto.
    Ci sono teorie e prassi educative che contestano il valore dell'asimmetria e lavorano per superarla quando ne costatano la presenza. A noi invece piace valutarla positivamente. Crediamo che rappresenti la condizione fondamentale per scatenare un corretto processo educativo e pastorale.
    Educare significa infatti, nel nostro modello, «fare proposte», stimolando verso qualcosa di ulteriore, che si presenta sempre con la pretesa di una certa oggettività e normatività.
    Questo è il senso dell'affermazione con cui abbiamo aperto la ricerca.

    Le ragioni di problematicità

    Compreso bene lo stato della questione, ci si rende facilmente conto delle grosse difficoltà che ne scaturiscono.
    Asimmetria, processi comunicativi e dimensione educativa sembrano elementi che si escludono reciprocamente.
    Accettandone pienamente uno siamo quasi costretti a dissolvere inesorabilmente l'altro.
    Non vogliamo addentrarci in lunghe considerazioni. Ci basta, anche qui, evocare dati noti e esperienze quotidiane.
    Quando la comunicazione avviene tra interlocutori troppo diversi (quando cioè esiste asimmetria), essa risulta povera di messaggio; salta quindi la struttura comunicativa.
    Come si sa, messaggio non è quello che il primo interlocutore trasmette al suo partner. È messaggio solo quello che il ricevente riesce a decifrare di quanto l'emittente pensa, crede e trasmette, perché solo quello che è soggettivamente decifrato può essere ricevuto e fatto proprio.
    La comunicazione si realizza perciò solo quando tra i due interlocutori esiste uno spazio di convergenza, tale da permettere al ricevente la condivisione dei codici utilizzati.
    Solo in questo caso egli sovrappone, almeno in parte, il suo mondo interiore con quello dell'emittente.
    Messaggio non è quindi il contenuto astratto della comunicazione, ma solo quanto è contemporaneamente inteso dall'emittente e decifrato dal ricevente.
    Quando c'è asimmetria tra due interlocutori, la sovrapposizione semantica è davvero molto scarsa.
    La crisi di messaggio può essere superata se si scatena un processo di iniziazione ai modelli culturali che l'educatore utilizza per comunicare.
    In questo caso la diversità viene eliminata. Il modo con cui l'operazione può essere condotta, lascia però perplessi.
    L'ipotesi più praticabile è quella che chiede all'educando di entrare passivamente nel mondo interiore del suo maestro, accettando la cultura che esso incarna. Qualche volta, al contrario, l'educatore cerca di recuperare la capacità comunicativa rinunciando alla sua funzione e eliminando tutto ciò che strutturalmente lo differenzia dall'educando.
    Nei due casi la comunicazione viene certamente assicurata dal punto di vista formale. Entra invece in crisi la sua dimensione educativa.
    Quando prevale la logica dell'indottrinamento viene svuotata una esigenza fondamentale di ogni atto educativo: la progressiva condivisione intenzionale dei fini e dei beni educativi. Se invece l'educatore rinuncia troppo facilmente al suo ruolo propositivo, siamo in un pericoloso libertinaggio culturale che nulla ha da spartire con la corresponsabilità educativa.
    Asimmetria e comunicazione sembrano escludersi reciprocamente.
    Ma non basta.
    Una comunicazione destinata a produrre educazione richiede un indice alto di autorevolezza in colui che inizia il processo. Si tratta infatti di spingere attraverso la comunicazione a superare il già acquisito per immettere in modo responsabile nell'inedito della storia, personale e collettiva.
    Questo sfondamento non è facile, come tutti noi abbiamo sperimentato in prima persona. L'asimmetria assicura una certa autorevolezza perché istituzionalizza il ruolo e dà prestigio proprio sulla diversità. A parte la già ricordata difficoltà di comunicare in situazioni simili, gli educatori sono sempre meno disponibili ad elemosinare prestigio in questa forma.
    Al contrario, la rinuncia e la rassegnazione con cui si cerca di raggiungere una simmetria comunicativa, svuotano di autorevolezza. Le grandi cose che l'educatore sente di poter comunicare non trovano nessuno interessato ad accogliere: altre emittenti, dotate di forte autorevolezza, interferiscono nella comunicazione.
    Potremmo continuare ad elencare difficoltà. L'operazione è troppo facile e, in fondo, abbastanza inutile perché la quotidiana esperienza dei lettori può tranquillamente sostituirsi alla nostra ricerca.
    È tempo di tentare qualche soluzione.

    VERSO UN PROGETTO: COMUNITÀ E NARRAZIONE

    Con la consapevolezza acquisita, riprendiamo l'interrogativo da cui siamo partiti: è possibile una piena comunicazione educativa in situazione di asimmetria?
    Crediamo di sì, ad alcune condizioni.
    Le presentiamo articolandole in un progetto. È costruito attorno a due orientamenti: la comunità come soggetto di comunicazione e un modello comunicativo che riscriva concretamente il dato «oggettivo» in un pieno coinvolgimento di tutti gli interlocutori.
    L'esito è uno stile globale di comunicazione educativa e pastorale: la narrazione.

    La comunità come soggetto

    Il primo suggerimento progettuale sottolinea uno spostamento di accento: soggetto della comunicazione non è né l'educatore né l'educando ma la comunità.
    L'esigenza ritorna spesso. Rappresenta come il ritornello di ogni progetto di rinnovamento educativo e pastorale.
    Non c'è quindi bisogno di soffermarci troppo. Vogliamo solo sottolineare alcuni dati di ordine strutturale.
    La comunità rappresenta quella struttura comunicativa che assicura contemporaneamente il rispetto dell'asimmetria e il raggiungimento della simmetria.
    Essa è la convergenza dinamica di diversi attorno ad un progetto comune, uno spazio esperenziale in cui le diversità convergono in unità.
    La comunità è costituita da persone che mantengono la loro identità. Restano quindi reciprocamente «diversi», con le loro specifiche funzioni.
    La convergenza è assicurata non dall'appiattimento forzoso, ma dalla condivisione dinamica delle ragioni per cui si è assieme.
    Nel nostro caso, educatori e educandi conservano non solo le caratteristiche per cui sono strutturalmente asimmetrici (età, cultura, sensibilità, informazioni, funzioni), ma possiedono la consapevolezza che solo mettendo la diversità al servizio dell'unità possono reciprocamente convergere.
    Li accomuna la grande intenzione educativa: ciascuno si sente nella comunità perché vuole educare ed educarsi, offrendo e ricevendo. In questa convergenza dinamica viene progressivamente definito «cosa» caratterizza il processo educativo per la cui realizzazione si converge.
    Il punto d'incontro, perciò, non è predeterminato, ma viene progressivamente elaborato. Non rappresenta l'esito di un processo di indottrinamento né il limite praticabile della rinuncia alla propria identità.
    Per assicurare un obiettivo così impegnativo sono necessarie precise garanzie anche strutturali.
    Ne ricordiamo tre, tra le tante.
    Si richiede, prima di tutto, la profonda disponibilità a condividere e a convergere verso progetti e preoccupazioni che sono ulteriori rispetto al livello in cui ciascuno si trova.
    Questa disponibilità comporta la consapevolezza di essere tutti in stato di educazione. La ricchezza esperenziale e culturale che ciascuno possiede può crescere ed allargarsi se viene superata nell'incontro e nel confronto.
    Si può affermare così che non esiste possibilità di fare comunità per coloro che cercano di catturare il proprio interlocutore nella rete del già posseduto.
    La comunità, in secondo luogo, evidenzia e sostiene la diversità, mentre cerca e produce convergenza. È incontro profondo tra diversi. Non è mai appiattimento della diversità per assicurare una inutile uniformità.
    Si richiede quindi la capacità di controllare ogni pressione al conformismo.
    Anche a questo proposito, si può affermare che non può vivere in comunità chi troppo facilmente è disponibile a rinunciare ai propri progetti, in un rassegnato adattamento alle logiche vincenti o alle voci più gridate.
    Infine, la comunità è propositiva e si fa luogo di comunicazione a forte messaggio nella misura in cui sa scatenare e sostenere processi di identificazione.
    Chiamiamo identificazione quel processo attraverso cui una persona, anche senza esserne chiaramente consapevole, giunge a far proprie qualità e valori percepiti in un'altra persona, riconosciuta come importante e autorevole.
    La comunità rappresenta il terreno privilegiato di questo processo intersoggettivo, se essa stessa è luogo di identificazione per i suoi membri.
    Si realizza così una comunicazione intensa, anche se latente, tra le singole persone e i valori che si respirano nella comunità; quelli che strutturalmente riscuotono consenso, quelli incarnati nei modelli di riferimento.
    L'identificazione è legata al fascino emanato dalla comunità, alla consapevolezza della sua importanza, alla esperienza degli innegabili vantaggi assicurati attraverso l'appartenenza ad essa. Il tutto in una percezione che passa dalla sfera emotiva a quella razionale.
    Quello che la dinamica di gruppo dice a proposito della «coesione» è molto utile per definire la funzione identificativa della comunità.

    Una comunità che autovalida la sua funzione

    Analizziamo ora una seconda dimensione del nostro progetto.
    Tutti sappiamo quanto sia difficile instaurare un rapporto educativo, soprattutto se riempiamo questa formula con la preoccupazione di sollecitare responsabilmente verso l'ulteriore e l'inedito, aiutando a maturare secondo quel progetto di vita che è offerto come ipotesi normativa di autorealizzazione.
    Come abbiamo già ricordato, colui che intende promuovere questa relazione, deve prima di tutto motivare la sua pretesa, deve produrre garanzie che gli assicurino l'autorevolezza necessaria.
    Impresa certo non facile, soprattutto in un tempo di pluralismo come il nostro: un tempo in cui il diritto di parlare è spesso legato alla tacita accettazione di dire cose che non contano.
    La comunità deve validare la sua pretesa comunicativa, offrendo buone ragioni.
    Lo deve fare per scatenare il processo di identificazione, in quella libertà e responsabilità di decisione personale che è condizione di ogni servizio educativo.
    Il problema è serio.
    Ci si trova quasi stretti tra alternative impraticabili: o l'autoritarismo, che cerca di ritagliare un ambito lontano dai frastuoni del pluralismo, o la rassegnazione rinunciataria.
    Crediamo che esista una via di uscita, come dimostrano tante quotidiane esperienze.
    La comunità può autovalidare la sua funzione comunicativa e educativa attraverso una doppia convergente attenzione.
    Essa, prima di tutto, fonda ogni suo gesto nell'unica globale pretesa di «aiutare a vivere». Esiste ed agisce solo perché ciascuno avverta di essere reintegrato progressivamente in una piena «gioia di vivere».
    Certo, vita è termine generico e ambiguo per la devastazione di cui è continuamente fatto oggetto.
    Lo pronunciamo però senza ulteriori aggettivazioni, perché crediamo nella vita: essa si porta dentro un suo germe di autenticità, al di là di ogni deturpazione. Su questo germe di vita interviene la passione educativa «per aiutare a vivere»: per liberare e portare a compimento.
    In secondo luogo, vogliamo sottolineare che il compito della comunità non può essere compiuto che ponendo gesti concreti dalla parte della vita.
    Producendo i segni dell'amore che fa nascere la vita, la comunità progressivamente acquisisce quella autorevolezza educativa e comunicativa richiesta per educare con autorità in un tempo di pluralismo.
    Possiamo chiederci quali siano i segni di vita oggi, per l'attuale condizione giovanile. La risposta si dovrebbe fare troppo lunga e forse correrebbe il rischio di sovrapporsi alla necessaria ricerca locale.
    Crediamo però che l'ambito della «accoglienza» (tante volte ricordata) rappresenti un denominatore comune urgente di ricerca e di sperimentazione.
    Una comunità che produce segni di vita per aiutare a vivere, senza ulteriori secondi fini, assicura il contesto ottimale di ogni comunicazione educativa.
    La convergenza è sul generale, sulla intenzione e preoccupazione di fondo.
    Se ancora le piccole cose producono disinteresse, gelosie, contrasti e conflitti, nessuno se ne preoccupa troppo, certo della potenza dell'amore.
    La comunità è come una grande famiglia dove la passione reciproca per la vita è il grande unitario progetto di educazione.
    I figli non chiedono continuamente ai genitori le ragioni dei loro interventi perché sentono di potersi fidare incondizionatamente della passione per la loro vita.
    I genitori danno fiducia ai figli, anche quando non riescono a possedere totalmente la trama della loro giornata. Sanno di poter contare su una trasparenza ben più grande delle piccole ombre che la incrinano.
    Questa è la comunità i cui membri, nella diversità, sanno intensamente comunicare.

    La nuova figura dell'educatore

    Il progetto che stiamo delineando non prevede la dissoluzione della specifica funzione dell'educatore. Al contrario, proprio nella ricostruzione della sua figura sta l'affermata irriducibilità della asimmetria comunicativa.
    La comunità infatti resta una sterile astrazione se in essa qualcuno non sa raccogliere sulla sua persona quello che la comunità dovrebbe essere e fare.
    La comunità è quindi costruita dagli educatori. Essi, morendo a se stessi, si rigenerano e danno vita alla comunità.
    Per fare questo, l'educatore ripensa allo stile della sua relazione educativa e comunicativa. Tentiamo di ritagliare alcuni tratti di questa rinnovata figura.
    L'educatore si porta dentro un'unica grande passione: crede alla vita e gioca tutto perché ci sia vita.
    Sente il sapore duro della morte dentro e attorno a sé. E lotta per restringerne progressivamente i confini, dilatando festosamente quelli della vita.
    Per assolvere questi compiti opera su tre fronti.
    Egli è un testimone della vita come dato, come evento che giudica inesorabilmente tutte le nostre pretese e misura ogni nostra ricerca. Questo «valore» prende forma progressivamente nell'avventura dell'uomo. Ha una storia e diventa una cultura.
    L'educatore è quindi garante e propositore coraggioso del già espresso e posseduto.
    Egli però esprime la vita nella sua vita. Sa che nulla di vitale può essere detto nella fredda pretesa di oggettività formale. Tutto è detto vivendo, rischiando, costruendo.
    Egli è il testimone della vita nella sua testimonianza di vita. Racconta la storia della vita, raccontando la sua passione e la sua esperienza.
    Infine l'educatore sa che la vita è all'opera attorno a sé, nelle domande, gridate o inespresse, maturate o desolate, dei giovani con cui lavora.
    Egli testimonia la vita dando voce a coloro per i quali è testimone, raccogliendo la loro storia nella sua storia.
    Essi non sono l'oggetto del suo servizio. E neppure sono chiamati in causa perché sono lasciati liberi di scegliere o di rifiutare le sue proposte. L'interlocutore sente che si sta parlando di lui, personalmente. Avverte che la storia narrata è la sua storia; costata che la vita difesa e liberata è la sua vita.
    Egli è coinvolto pienamente in ogni battuta del servizio educativo.
    L'educatore è uno che racconta «storie di vita» per aiutare a vivere. Svolge questo racconto intrecciando continuamente tre storie: la storia della «vita», piena di pretese per chiunque voglia vivere; la sua storia personale, perché non riesce a parlare di vita se non trasformando in messaggio la sua quotidiana esperienza; e la storia dei suoi interlocutori a cui restituisce protagonismo e parola.
    L'educatore aiuta a vivere, raccontando questa storia di vita e producendo i segni di un grande amore che si fa servizio.

    QUESTA È LA NARRAZIONE

    Ci piace chiamare questo modello una comunicazione a stile di «narrazione».
    Chi è del mestiere sa che riprendiamo la formula da quella lunga e complessa ricerca che ha recentemente affascinato linguisti, pedagogisti e teologi.
    La riempiamo però di alcune connotazioni tipiche. La sottraiamo dal conflitto attuale delle interpretazioni per farne un modello nuovo, il nostro modo di ripensare la relazione educativa e pastorale.
    Anche in questa proposta c'è quindi una storia a tre storie.
    La raccontiamo ancora con la speranza che gruppi di giovani e di educatori, pieni di passione per la vita, costruiscano comunità dove i confini della vita si dilatino verso tutti, per lodare con i fatti il Signore della vita.


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