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    Educatori della fede



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1991-01-3)


    Il dossier "educatori della fede" affronta, da una prospettiva abbastanza insolita, un tema che torna con frequenza nelle pagine della Rivista.
    La maturazione dei giovani nella fede rappresenta il centro di ogni impegno di pastorale giovanile. Infatti, aiutare i giovani a crescere nella libertà e nella responsabilità, impegnandoli ad amare la vita e il suo Signore e a giocare tutte le risorse personali perché essa cresca piena ed abbondante per tutti, significa per noi sollecitarli ad una intensa e matura esperienza di fede.
    Di questo abbiamo parlato spesso. In un tempo in cui sono molti e diversificati i modelli teologici e antropologici, ci è sembrato decisivo ricomprendere l'autenticità personale per far spazio al mistero creduto, e rivisitare la stessa esperienza cristiana per restituirle la capacità di risignificare pienamente la vita quotidiana.
    Spesso, però, la domanda correva subito al "come fare", sotto l'urgenza della situazione dei giovani più poveri di prospettive e di attese.
    Sentivamo urgente riconquistare un modello teorico, contro le diffuse, ricorrenti esperienze di disintegrazione tra fede e vita. E volevamo restituire ad esso il fascino del concreto, mostrandone criteri e orientamenti di praticabilità.
    Tutto questo il dossier attuale lo presuppone e lo invoca.
    Si colloca però sul piano del "cosa": in qualche modo, parla di educazione alla fede, proponendo una figura teologica di fede. Lo fa su una scommessa, cara ai lettori della Rivista: prendiamo sul serio la vita, nel ritmo, fragile e affascinante, della sua quotidianità.
    Tre temi si intrecciano, quasi a formare la filigrana della proposta.
    - Vivere di fede significa "possedere la vita" fino al mistero che si porta dentro. Educare alla fede comporta di conseguenza l'impegno di aiutare i giovani a leggere la propria quotidianità ai differenti livelli in cui essa si colloca, utilizzando le strumentazioni adeguate: dalla scienza e sapienza dell'uomo al dono, gratuito e insperato, della rivelazione del mistero di Dio.
    - Possedere la vita dalla parte del mistero significa scoprire che siamo diventati "creature nuove" nel dono dello Spirito di Gesù. La scoperta è di quelle che cambiano il tono dell'avventura dell'esistenza: siamo già per dono quello che desideriamo diventare. Educare è "svelare"; non è prima di tutto "proporre".
    - Alla voglia di possedere la vita si oppone, violenta e indiscutibile, la morte. Vivere di fede significa riaffermare la fiducia nella vita "da adulti": da persone capaci di vivere nel ritmo quotidiano, possedendo progressivamente la morte. Educare alla fede, in questa logica, è veramente generare alla vita, perché ci si scambia amichevolmente ragioni per vivere e per sperare e perché si grida con i fatti che l'impossibile può diventare veramente possibile.
    Bastano questi rapidi cenni per evocare il taglio specifico del dossier. Il "come fare" è rimandato a tutto quello che già sappiamo e su cui siamo tornati spesso.
    Qui, il lettore attento si incontra con una proposta che afferra l'educatore della fede al livello della sua esperienza quotidiana, per suggerire dall'interno di essa qualche punto di verifica del suo servizio.


    1. Si può educare alla fede?

    Una ricerca sulle modalità in cui realizzare l'educazione alla fede è condizionata pregiudizialmente da un problema di fondo: si può educare alla fede? Possiamo cioè intervenire, attraverso approcci a carattere formalmente educativo, nella crescita e maturazione di quella qualità nuova di esistenza, che i credenti chiamano "vita nella fede"? O, al contrario, è tempo perso porsi una questione del genere, dal momento che la fede è dono di Dio e l'unica cosa seria da fare è forzare le persone a prendere contatto con le occasioni di questo dono?
    Non intendo riprendere esplicitamente questa grossa questione. Ne ho già parlato a lungo in altri contesti.
    Ricordo solo il punto di vista in cui mi riconosco, cercando soprattutto di chiarire i termini.

    I TERMINI DELLA QUESTIONE

    Nella fede cristiana è presente un pacchetto di dati, che hanno una loro consistenza molto precisa, che supera e giudica ogni esperienza personale. In gergo tutto questo viene chiamato "la dottrina della fede": le verità teologiche su Dio, sull'uomo, sul rapporto che lega nell'amore queste due libertà e sul progetto che egli ha per la nostra pienezza di vita.
    Questo contenuto della fede, documentato dalla tradizione ecclesiale, è un dato importante e irrinunciabile, per riconoscere un fondamento saldo e sicuro, su cui radicare la decisione di affidarsi totalmente a Dio. Rinunciando ad esso, corriamo il rischio di fondare tutto sulla sabbia, esponendo la nostra costruzione ai venti impetuosi della crisi.
    Per qualcuno fede è solo questo. Si vive nella fede quando si conosce questo pacchetto di verità, si è capaci di esprimerlo in modo abbastanza corretto e, soprattutto, ci si impegna ad adeguare la propria esistenza alle proposte in esso contenute.
    Altre persone preferiscono invece sottolineare che la fede è l'esperienza personale nei confronti del progetto globale di esistenza proposto dalla "dottrina della fede".
    In questo modo di vedere le cose, i contenuti della fede non sono considerati una poesia da ripetere a memoria, evitando persino le inflessioni personali di tono e di voce. Anche nella tensione progressiva verso quello che la comunità ecclesiale confessa con le parole solenni della sua professione di fede, il credente dice il suo credo con le parole e i gesti della sua libertà e responsabilità. In ogni caso, conta soprattutto quella qualità nuova di esistenza, che nasce sul fatto di affidare la propria vita e la propria speranza ad un evento più grande di ciò che una persona è in grado di riconoscere e di progettare per sé.
    "Dottrina della fede" e atteggiamenti personali e vitali non sono proprio la stessa cosa. Non possono però essere contrapposti, come se una realtà potesse reggersi senza l'altra. Non si può nemmeno dire che una sia più importante dell'altra. Chi lo fa, si espone al rischio di costruire solo delle macchine di riproduzione fonica che sanno ripetere alla perfezione quello che è stato precedentemente registrato, o di ritrovarsi solo e triste, senza un fondamento sicuro alla propria speranza.
    La diversità si nota invece quando scegliamo un punto di vista per osservare la maturazione di una persona nella fede.
    Questo è di estrema importanza in una ricerca sui processi e le modalità relative alla educazione alla fede. Se sono preoccupato prima di tutto dei contenuti oggettivi della fede, sono più facilmente portato a valutare la distanza che corre tra lo stato di fatto e il suo dover essere. Se privilegio invece l'espressione personale, ragiono più facilmente in termini di cammino, di crescita, di gradualità. Nella prima ipotesi, educo alla fede quando sollecito la persona ad accogliere e a riesprimere correttamente questi dati normativi, imitando la logica tipica del mondo della scuola. Nella seconda ipotesi, l'attenzione dell'educatore corre più rapidamente al mondo degli atteggiamenti e allo stile globale di esistenza.
    Nella mia ricerca non rifiuto certo la dimensione oggettiva, ma la considero l'orizzonte verso cui orientare e da cui valutare il cammino di progressiva maturazione personale.
    Per questo, pensando agli interventi relativi all'educazione alla fede, mi colloco soprattutto dal punto di vista dell'esperienza personale di fede.

    L'EDUCABILITÀ INDIRETTA DELLA FEDE

    La seconda sottolineatura ricorda l'ambito, preciso e ristretto, dell'educabilità della fede.
    Mettendo al centro di ogni espressione dell'esistenza cristiana l'evento dell'Incarnazione, sembra importante distinguere, nella Rivelazione e in ogni processo di evangelizzazione, tra il suo contenuto (il mistero ineffabile di Dio in Gesù Cristo) e il segno storico in cui esso si incarna (le diverse "parole" umane che hanno la funzione di esprimere questo mistero: prima fra tutte l'umanità di Gesù di Nazareth e, in lui, la nostra umanità). Possiamo ancora distinguere, sul piano del processo salvifico, tra l'appello ad una decisione personale, libera e totalizzante (che investe il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profondità dell'esistenza umana che sfuggono ad ogni processo educativo) e le modalità concrete in cui si realizza il gioco tra l'appello di Dio e la risposta dell'uomo (modalità che sono sempre di natura educativa e che, di conseguenza, sono oggetto delle scienze dell'educazione).
    Queste distinzioni orientano verso un modello di pastorale che fa spazio abbondante e rispettoso ai contributi, teorici e pratici, delle scienze dell'educazione, fino a riconoscere la loro funzionalità indiretta nella maturazione della fede.
    In questa prospettiva indico in che senso e a quali condizioni si può parlare di educazione della fede.
    Anche se a battute veloci, perché la proposta è ritornata spesso sulle pagine della Rivista, decido così l'orizzonte teologico da cui affrontare il problema.

    Non c'è educazione "diretta" della fede

    Prima di tutto è indispensabile affermare che non si dà educazione diretta e immediata della fede.
    La fede si sviluppa sul piano misterioso del dialogo tra Dio e ogni uomo. Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo di intervento dell'uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell'iniziativa di Dio.
    La risposta dell'uomo consiste nell'obbedienza accogliente: la fede è un dono, in senso totale; proviene quindi dall'udire e non dal riflettere, è accoglienza e non elaborazione.

    L'educazione alla fede è indiretta

    L'appello di Dio che costituisce il fondamento del processo di salvezza, si fa sempre parola d'uomo, per risuonare come parola comprensibile dall'uomo, e cerca una risposta personale, espressa in gesti e parole dell'esistenza quotidiana.
    C'è quindi una dimensione del processo di salvezza che si svolge secondo modalità comuni ad ogni processo educativo e comunicativo. Non rappresenta un aspetto che si aggiunge a quello della immediatezza dell'azione di Dio, in una divisione di compiti che corrisponde al clima del momento.
    L'atto pastorale è, nello stesso tempo e con la stessa intensità, tutto sottratto alla qualità della relazione interpersonale, perché attinge direttamente nel mistero di Dio potenza ed efficacia, e tutto intensamente condizionato dalla qualità umana dei gesti e delle parole poste e dalla disponibilità "educabile" del soggetto.
    Il condizionamento (positivo o negativo) è collocato nel rapporto del "segno" rispetto all'evento. Attraverso le modalità antropologiche in cui si svolge, il segno diventa sempre più significativo rispetto alle attese del soggetto e sono ricostruite queste attese per sintonizzarle con l'offerta della fede e della salvezza.
    Questo è l'ambito tipico dell'azione pastorale. Riconosce la funzione insostituibile di tutti gli interventi educativi rispetto all'educazione della fede: essi hanno il compito di attivare, sostenere, mediare il processo di salvezza, nel doppio movimento di proposta e di risposta.

    La potenza di Dio investe anche gli interventi educativi

    Le due modalità (quella misteriosa e indicibile in cui si esprime l'appello di Dio alla libertà dell'uomo e quella delle mediazioni educative) non sono sullo stesso piano né possono essere considerate "alla pari".
    Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell'intervento divino anche nell'ambito educativo, più direttamente manipolabile dall'uomo e dalla sua cultura.
    La fede dunque riconosce la grandezza dell'educazione: il fatto cioè che liberando la capacità dell'uomo e rendono trasparenti i segni della salvezza, libera e sostiene la sua capacità di risposta responsabile e matura a Dio.
    Ma la fede riconosce che anche l'educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull'educazione dell'uomo in genere e, in particolare, sul modello educativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove generazioni.
    Questo, in fondo, non è attentato al dovere di rispettare l'autonomia dei fatti umani.
    Significa invece che l'approccio educativo e comunicativo è giudicato dall'evento al cui servizio si pone.
    Nel nostro caso comporta la costatazione che questo approccio, anche se è legato ad esigenze tecniche, avviene sempre nel mistero di una potenza di salvezza che tutto avvolge: la grazia salvifica possiede una sua rilevanza educativa, certa e intensa anche se non è misurabile attraverso gli approcci delle scienze dell'educazione.

    2. Vivere di fede

    Chiariti i termini, posso finalmente entrare nel merito.
    Descrivo prima di tutto il punto d'arrivo. Su esso si misura lo sviluppo degli interventi educativi relativi all'educazione alla fede.
    Cosa significa in concreto "vivere di fede"?
    L'espressione "fede" viene utilizzata in differenti contesti. Si parla di fede politica, di fede in una persona o in una istituzione; qualche tifoso scatenato dichiara persino la sua fede in una squadra di calcio.
    In questi modelli esiste un denominatore comune: fede è un complesso di ideali, capaci di guidare gli orientamenti di una persona, fino a sollecitare un impegno coerente di vita.
    Nella declinazione religiosa la fede riferisce a Dio il fondamento di questi ideali e l'orizzonte ultimo della vita.
    La fede cristiana assume e condivide questo atteggiamento. Lo radica sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé nella creazione e nella storia. E si esprime come risposta personale alla Parola ascoltata. Si differenzia dalle altre fedi religiose perché riconosce in Gesù di Nazareth il testimone definitivo del Padre.
    La diversità non è piccola. Proprio su essa i cristiani pretendono di essere gente che vive in questo mondo come se fosse di un altro mondo.
    Ci pensiamo con un po' di calma, verificando e modificando eventualmente quella figura di "vita nella fede" che abbiamo ereditato da concezioni dualiste o intellettualiste.

    FEDE È POSSEDERE QUELLO CHE NON SI VEDE

    Nella Lettera agli Ebrei è contenuta una bellissima definizione di fede: "La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono" (Eb 11, 1). L'autore la commenta e la concretizza, raccontando la storia di personaggi famosi che hanno vissuto in questa prospettiva.
    Ci sono gli uomini che consegnano tutta la loro esistenza alla Parola che Dio loro rivolge, fino a compiere gesti impensabili e inediti. Significativo è l'esempio di Abramo. Aveva ardentemente desiderato un figlio. L'aveva sognato sulla promessa di Dio. Ora accetta di sacrificarlo sulla parola esigente del suo Dio. Nella sua fede, forte come la roccia, diventa padre di una moltitudine di gente.
    Ci sono personaggi e situazioni dal sapore molto più quotidiano. Dice, per esempio, l'autore della Lettera agli Ebrei che per fede la mamma di Mosè decide di non obbedire alla parola del tiranno che le chiedeva di uccidere il bambino. Il suo gesto "normale" di mamma affettuosa e coraggiosa viene interpretato come grande gesto di fede.
    Sono citate anche situazioni abbastanza strane: a partire dalle "cose che non si vedono", diventano gesto di fede anche l'intrigo con cui Giacobbe ruba la primogenitura ad Esaù e l'ospitalità che la prostituta Raab offre agli esploratori ebrei.

    Dalla vita quotidiana alla vita quotidiana

    In tutti i casi, due dati sono in gioco e si richiamano reciprocamente: quello che si vede e si costata, perché forma il tessuto quotidiano dell'esistenza, e quello che non si vede e che si spera. Ciò che non si vede e si spera viene "conosciuto" e "posseduto" tanto da diventare la ragione e il significato di quello che si vede e si costata.
    È importante pensare alla fede in questa logica, per riconoscere il suo rapporto con la vita di tutti i giorni, con i suoi ritmi e con le sue scelte.
    La fede non si interessa infatti di alcuni temi e problemi tutti suoi, che si aggiungono a quelli che già pervadono l'esistenza quotidiana. E non è certamente l'adesione intellettuale ad alcune informazioni. Oggetto della fede è invece l'esistenza concreta e quotidiana, la storia profana, che è storia e avventura di tutti e luogo dove si affaccia l'avventura salvifica dell'amore di Dio.
    Una lettura di fede richiede il coraggio di leggere la realtà, personale e collettiva, con uno sguardo che si fa sempre più penetrante, fino a toccare le soglie del mistero. Ed esige la capacità di ritornare sull'oggetto della fede a partire dal mistero, posseduto nella speranza, come la verità più intima di ogni avvenimento.
    In questa lettura complessiva, che parte dalla vita e torna alla vita dopo aver contemplato il mistero, il credente "vive di fede".

    Una lettura della realtà a differenti livelli

    Questa conclusione è bella e importante. Sembra però fatta apposta per far nascere grossi problemi.
    La fede riguarda la vita quotidiana nella trama complessiva degli avvenimenti, personali e collettivi, che la caratterizzano. Di questi eventi e del loro intreccio si interessano però anche le scienze dell'uomo e quel modo sapienziale di intendere le cose che ci fa esclamare di alcune rare persone: ecco finalmente un uomo saggio.
    Nasce, per forza di cose, un conflitto di competenze.
    Per vivere di fede da uomini maturi e riconciliati, dobbiamo imparare a non vedere le cose in modo dissonante, quando le guardiamo dalla parte della fede e da quella della vita. Questo modo di fare ci porterebbe ad un pericoloso "strabismo" interiore.
    C'è strabismo, infatti, quando si guarda nello stesso tempo in due direzione diverse. Soffre di strabismo il cristiano che si sente costretto ad osservare, con sguardo non omogeneo (o, peggio, conflittuale) le esigenze della sua esperienza credente e la sua prassi quotidiana, nell'impegno storico, culturale, politico, economico, affettivo.
    Nella vita di fede lo strabismo è una malattia pericolosa. Se ne può... morire. Si diventa persone che rinunciano scioccamente alle esigenze della scienza e si rifugiano nei toni nebulosi delle frasi ad effetto; oppure persone che fanno riferimento a Dio solo in alcuni momenti della loro vita quotidiana.
    La via di uscita è ancora una volta il confronto con Gesù di Nazareth.

    Il riferimento a Gesù

    Noi siamo figli di Dio per mezzo di Gesù Cristo, proclama Paolo agli abitanti della Galazia (Gal 3, 26). Per comprendere la qualità della nostra fede, dobbiamo perciò riferirci a Gesù: "Teniamo lo sguardo fisso in Gesù: è lui che ci ha aperto la strada della fede, e ci condurrà fino alla fine" (Eb 12, 2).
    Gesù è volto e parola di Dio nella grazia della sua umanità. Come in Gesù, anche la nostra quotidiana realtà è costituita da una trama intensa di visibile e mistero. Visibile e mistero non sono due realtà separabili, quasi che una potesse esistere senza l'altra o si potessero studiare indipendentemente l'uno dall'altro e attraverso approcci separati. Sono invece come le due facce della stessa realtà. Hanno logiche diverse; presuppongono metodologie conoscitive molto differenti. Ma si richiamano reciprocamente.
    Dal momento che il mistero è incontrabile solo dentro il suo visibile, per coglierlo e farsene possedere è necessario prima di tutto leggere bene il visibile, decifrarlo in tutta la sua pregnanza.
    La verità piena del visibile è però data, in ultima analisi, dal mistero in cui è immerso. Solo quando esso è compreso nelle pieghe più profonde, dove si affaccia, insondabile e coinvolgente, il mistero, possiamo dire di possedere il visibile nella sua verità.
    Questo rapporto conoscitivo, diverso e complementare, che lega visibile a mistero, determina la qualità della "lettura di fede".

    I due livelli di lettura

    Immagino come due livelli di lettura. Lo faccio solo per motivi funzionali: per distinguere senza confusione e per sottolineare la necessaria unità.
    In un primo livello di lettura analizziamo e comprendiamo quello che costatiamo, attraverso gli strumenti della tecnica e della scienza. Utilizzando i contributi della sapienza, che l'uomo ha accumulato nel lungo cammino della sua storia, cogliamo anche quella trama nascosta delle cose e degli avvenimenti, che sfugge allo sguardo superficiale e distratto. Leggiamo così il visibile in tutte le sue logiche.
    Nel secondo livello di lettura, andiamo alla ricerca del mistero che il visibile si porta dentro. Anche se lo sguardo è diventato penetrante, il mistero resta collocato oltre la nostra scienza e sapienza. Non lo vediamo e non possiamo manipolarlo. Lo possiamo solo invocare e sperare. Eppure lo possediamo già, tanto intensamente da riuscire ad utilizzarlo come chiave di interpretazione e di decisione delle vicende in cui ci sentiamo protagonisti e responsabili.
    Per spiegarmi in termini un po' più concreti, faccio un esempio.
    Molti amici conoscono mia mamma. Dicono di lei tante cose che io riconosco vere. La trovano cordiale, allegra, simpatica, una cara vecchietta capace di compagnia e di molte attenzioni. Anch'io dico lo stesso di lei. Aggiungo però sempre un dato che solo io posso sperimentare come vero e autentico: "è mia mamma".
    Le doti di carattere e il fatto che sia mia mamma sono due costatazioni ugualmente vere. Restano collocate a due livelli diversi. Le prime sono facilmente costatabili da chiunque abbia occhi per vedere. La seconda investe quel rapporto intimissimo e misterioso che lega un figlio alla madre.
    Nei confronti di mia mamma si è realizzata una lettura a differenti livelli di comprensione.
    Qualcosa di simile avviene quando leggiamo la realtà nella fede.

    LA SCRITTURA: LO STRUMENTO PER ACCEDERE AL MISTERO

    Ogni livello di lettura ha i suoi strumenti.
    Il primo livello si serve di tutto quello che l'uomo è riuscito ad elaborare mettendo a frutto la sua intelligenza e la sua fantasia.
    Quali sono gli strumenti per il secondo livello di lettura?
    I credenti indicano nella Parola di Dio, scritta e vissuta nella Chiesa, l'unico strumento utilizzabile per accedere al mistero.
    Bisogna stare attenti: non solo è diverso lo strumento; è profondamente differente anche il modo di utilizzazione.
    La Parola di Dio è già una esperienza di fede: una lettura, credente e confessante, della realtà. Per l'autorevolezza del suo protagonista e per una presenza specialissima dello Spirito, questa "interpretazione" può "interpretare" in modo normativo la nostra comprensione della realtà dalla parte del suo mistero.
    Al primo livello, in cui ogni uomo è sollecitato ad utilizzare saggiamente il frutto della sua ricerca e i contributi delle differenti scienze, la Parola di Dio non ha proprio nulla di speciale da suggerire. Anzi il credente si rende sempre più conto di quanto sia importante utilizzare queste strumentazioni anche per decifrare correttamente quello che essa ci dice di proprio e di specifico. Si tratta cioè di leggere bene, secondo i diversi generi letterari, mettendo correttamente in contesto il documento, interpretando esattamente quello che l'autore ci vuole dire... per poter raccogliere, all'interno di queste parole umane, il progetto di Dio sulla nostra vita e sulla nostra storia.
    Anche questo è un modo serio di vivere di fede. Ci libera dalla tentazione, sempre in agguato, di utilizzare la fede come una ideologia a cui ricorrere per risolvere i conflitti sociali o da quella ancora peggiore di catturare la forza inquietante del Vangelo per darci ragione.
    Chi ha un po' di conoscenza critica della storia della Chiesa, ricorda i guai combinati tutte le volte che la Bibbia è stata utilizzata come un testo di scienza e non come un documento di fede, detto con le parole e le espressioni che giravano nel tempo in cui è stato scritto.
    Pensiamo, per esempio, alla parabola dei vignaioli ribelli, che Gesù ha raccontato per dare le sue credenziali (cf Mt 21, 33-41).
    Il contesto è quello tipico della società latifondista dei tempi di Gesù. La terra apparteneva a poche persone, le quali la affidavano a servi e operai per farla lavorare. Nel tempo giusto, mandavano a riscuotere quello che essi consideravano loro dovuto. Ed era una parte altissima, che strozzava i poveri contadini.
    Gesù non racconta la parabola con una preoccupazione di giustizia sociale, quasi per invitare alla rivolta; nemmeno la racconta per dare ragione al padrone. Parla invece di sé: lui dà la vita, con un gesto folle di amore, che diventa il principio insperato di vita per tutti.
    Questa "buona notizia" è "dentro" gli avvenimenti raccontati. Va raccolta e accolta, andando oltre la storia dei vignaioli ribelli e del padrone esoso. La "buona notizia" della morte che dà la vita è preziosa per leggere gli avvenimenti della nostra vita quotidiana.
    Ma c'è di più.
    Anche nel contributo che le è specifico, non possiamo utilizzare la Parola di Dio come fosse un dato della scienza, tutto dimostrabile e da cui derivare conclusioni sicure e rassicuranti. Guida e ispira la nostra ricerca, orienta le nostre decisioni, giudica le nostre esperienze, mettendo sempre in primo piano la ricerca, la decisione, l'esperienza dell'uomo. Essa infatti resta "parola d'uomo": parola di Dio pronunciata dentro le povere parole dell'uomo. È parola che cerca la libertà dell'uomo e la sua responsabilità. La sorregge contro l'incertezza e il tradimento; la esige contro il facile disimpegno.

    IMPARARE A "LEGGERE DENTRO" LA VITA QUOTIDIANA

    Una lettura di fede richiede la capacità di uno sguardo complessivo e globale, che corre da quello che si vede a quello che non si vede. Non possiamo sicuramente disinteressarci o, peggio, rifiutare le logiche e le esigenze della prima lettura, quella condotta con gli strumenti della scienza e della sapienza dell'uomo. Esige, però, come momento decisivo il coraggio di contemplare il mistero.
    Senza questa immersione nel profondo, fatta di possesso nella speranza e di visione dell'invisibile, restiamo catturati dal fascino di quello che vediamo e ci ritroviamo sperduti nella trama confusa degli avvenimenti, esposti alla tentazione di manipolarli nel nostro egoismo.
    Il credente, che vuole vivere da adulto nella fede, lo sa e persegue continuamente questa esperienza. Diventa una persona capace di "leggere dentro" la vita quotidiana: diventa un "contemplativo".
    La contemplazione è una dimensione irrinunciabile per la vita di fede. Nella contemplazione ci tuffiamo nel mistero, alla ricerca di eventi che vanno oltre quello che la sapienza umana è in grado di decifrare. Viviamo il presente dalla prospettiva dell'invisibile: "possediamo già le cose che speriamo e conosciamo già le cose che non vediamo" (Eb 11, 1).
    Quando possiamo dire a noi stessi di aver veramente incontrato l'evento di Dio nelle pieghe della nostra vita quotidiana?
    Non possiamo certamente pronunciare la parola della nostra fede con la stessa saccente sicurezza con cui intessiamo i nostri affari e srotoliamo le conquiste della nostra scienza. Ma non vogliamo neppure illudere noi stessi e gli altri, contrabbandando come esperienza dell'invisibile quello che invece è solo frutto dei nostri sogni e delle nostre illusioni.
    Mi metto alla scuola dei grandi credenti e suggerisco alcune condizioni che ci aiutano a vivere di fede nel ritmo della vita quotidiana.

    Saper ascoltare nel silenzio

    Per decifrare la realtà e radicare la nostra fede nel possesso di una speranza capace di portarci alla verità, dobbiamo incontrare il mistero della volontà di Dio (cf Ef 1, 9). Esso ci giunge attraverso quel gesto di accondiscendenza e di vicinanza con cui Dio parla agli uomini come ad amici (Gv 15, 14-15), che i cristiani chiamano "la rivelazione".
    Non siamo noi che tentiamo, magari balbettando, di dire qualcosa a Dio. Lui ci parla dal silenzio per portarci alla sua verità. L'ascolto, obbediente e disponibile, è la condizione fondamentale della fede, proprio perché è la condizione fondamentale per avvicinarsi alla rivelazione di Dio.
    Purtroppo noi siamo gente abituata al frastuono e ad ascoltare solo coloro che gridano a squarciagola. Per ascoltare la voce di Dio che viene dal silenzio, dobbiamo, per forza, imparare a rivestirci di silenzio.
    Dio è Parola sussurrata, come la brezza di una calda sera d'estate (Gen 3, 8), sconvolgente e imprevedibile perché mai posseduto. Ce lo ricorda una pagina famosa della Bibbia: l'incontro di Dio con Elia, il profeta che "era come il fuoco, la cui parola bruciava come una fiamma" (Sir 48, 1). "Il Signore stava passando. Davanti a lui un vento fortissimo spaccava le montagne e fracassava le rocce, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento venne il terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto venne il fuoco, ma il Signore non era neppure nel fuoco. Dopo il fuoco, Elia udì come un lieve sussurro. Si coprì la faccia con il mantello, uscì sull'apertura della grotta e udì una voce che gli diceva: Che fai qui, Elia?" (1 Re 19, 11-14).
    Dio ci ha già parlato e continua a parlarci. Lo fa in molti e differenti modi, lui che è futuro e novità continua. Per questo l'ascolto credente diventa "memoria". "Ricordati di Gesù Cristo", raccomanda Paolo al discepolo Timoteo (2 Tim 2, 8), quando lo invita a pensare seriamente alla sua vocazione.
    Facendo memoria delle cose meravigliose che Dio ha compiuto per il suo popolo, prolunghiamo nell'oggi la forza trasformatrice di questi stessi avvenimenti. Li facciamo diventare il nostro "oggi": un presente che ci rende presente il Dio di Gesù, impegnato per la vita nostra e di tutti gli uomini.

    Una ricerca mai interrotta

    L'avventura di scoprire il mistero che la nostra vita si porta dentro non è mai conclusa. Non abbiamo un deposito sicuro a cui attingere, come se bastasse trovare il libro giusto, per avere tutte le risposte o per averle una volta per sempre.
    In presenza di un mistero che supera la capacità di comprensione sapiente, il credente si immerge nella fede e ritorna, con attenzione penetrante, sugli avvenimenti. Legge dentro le vicende della sua vita quotidiana, alla ricerca del mistero di cui sono cariche.
    La decisione di fede è un salto coraggioso nel mistero che ci sovrasta. Non sopporta i lunghi tentennamenti né cerca i calcoli accorti dei bilanci previsionali.
    Questa stessa decisione va però progressivamente riconquistata e posseduta, per tornare ogni giorno fresca e giovane. Per questo la prima avventura viene rimeditata continuamente, ripresa e rivissuta in una tensione che porta maggiormente alle soglie del mistero. Non ripensiamo a quello che abbiamo vissuto per capirlo meglio. Lo rileggiamo per sprofondarsi di più nell'abisso di Dio che chiama nel silenzio e nell'imprevedibile.

    Nel santuario intimissimo di ogni persona

    Il luogo in cui la parola di Dio risuona, per svelare il mistero della speranza, è l'esistenza di ogni persona, quel santuario intimissimo e sacro che, in un certo modello espressivo, chiamiamo la "coscienza".
    Ciascuno di noi è impegnato a dire personalmente: io credo. Non possiamo farci sostituire da nessuno.
    Questo spazio va conquistato ogni giorno, liberato dagli idoli che lo affollano. È un luogo di libertà per l'ascolto. Ed è un luogo di lotta solitaria: la speranza che viene dall'invisibile costringe ad una decisione che è come quella dei martiri della prima era cristiana, e l'esperienza della giustizia di Dio rende terribilmente inquieto un cuore affamato di giustizia.

    La risonanza ecclesiale

    Ascolto, ricerca, contemplazione sono un atto strettamente personale. Non sono però un processo da realizzare cercando un isolamento rassicurante dal frastuono degli altri. Sono sempre un atto ecclesiale: da vivere nella comunità ecclesiale, lasciando misurare la nostra soggettività da altre soggettività e riconoscendo la funzione autorevole dei testimoni della fede e della Parola, in quella comunità che custodisce la nostra debole fede, la vivifica e la rigenera.
    La comunità ecclesiale è come il "grembo materno": custodisce una esistenza personalissima e irrepetibile, che "esiste" però solo perché accetta di essere custodita. Come il bimbo che nasce è legato a sua mamma, così ogni decisione nella fede non può mai essere separata dal nostro essere nella comunità ecclesiale. La comunità è il soggetto credente che ci permette di credere come figli di Dio, nella verità e nell'unità.
    All'interno della comunità la nostra debole fede si consolida: la vita nella fede cresce progressivamente e gradualmente, in conoscenza e in coerenza.
    La comunità ecclesiale custodisce la fede dei figli che ha generato alla vita nuova, la vivifica, la rigenera.


    3. Il mistero dentro la vita quotidiana

    Finora ho fatto un discorso di metodo, suggerendo le procedure per vivere nella fede.
    È importante; ma non è certo sufficiente.
    L'educatore della fede è chiamato a sfondare un po' il limite del mistero per introdurre alla comprensione e all'esperienza di ciò che dà senso e contenuto alla nostra vita quotidiana.
    Cosa scopriamo dentro la nostra vita, quando la leggiamo abbandonandoci all'abbraccio imprevedibile di Dio?

    SIAMO "CREATURE NUOVE"

    Una bellissima testimonianza di Paolo, riportata nel cap. 8 della Lettera ai Romani, ricorda il grande segreto della vita quotidiana: siamo già "creature nuove". "Voi [...] vi lasciate guidare dallo Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in voi. Ma se qualcuno non ha lo Spirito donato da Cristo, non gli appartiene. Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà vita. Se lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, lo stesso Dio che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche a voi, sebbene dobbiate ancora morire, mediante il suo Spirito che abita in voi. [...] Quelli che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto in dono uno spirito che vi rende schiavi o che vi fa di nuovo vivere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di Dio che vi fa diventare figli di Dio, e vi permette di gridare Abbà, che vuol dire Padre, quando vi rivolgete a Dio. Perché lo stesso Spirito di assicura che siamo figli di Dio" (Rom 8, 5-17).
    Meditiamo questa pagina con calma e libertà.

    È finita la paura della morte

    Nel cap. 7 della Lettera ai Romani Paolo parla della sua paura di fronte alla morte. Lo fa in modo serio, andando alla radice dell'esperienza.
    Fariseo, zelante e impegnato, si fidava ciecamente della legge. Ma si è trovato presto deluso. Confrontato con esigenze impegnative, Paolo costata la sua fragilità. Ne ha paura, perché s'accorge quanto questa incoerenza sia radicata in lui. Fa ormai parte del suo vivere: ci vede chiaro di fronte agli obblighi della legge, ce la mette tutta per osservarli fedelmente; e si trova a fare i conti continuamente con i suoi tradimenti. "Io sono un essere debole, schiavo del peccato. Non riesco nemmeno a capire quello che faccio: quello che voglio non lo faccio, faccio invece quello che odio" (Rom 7, 15).
    L'esperienza di Paolo è molto vicina a quella che facciamo tutti i giorni anche noi. La legge non produce vita; non ha mai salvato nessuno. Serve solo ad inchiodare la persona al proprio peccato; è fatta per scoprire quante volte non la osserviamo correttamente. Dice ancora Paolo, con molta amarezza, "Quando venne il comandamento, il peccato prese vita, e io morii. E così la legge che doveva condurmi alla vita, nel mio caso invece mi ha condotto alla morte" (Rom 7, 9-10).
    Il baratro della morte gli si spalanca davanti, come esito del suo peccato. Ha paura. E grida disperato: "Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà?" (Rom 7, 24).
    Dal profondo della sua angoscia, riscopre Gesù, il suo Signore e Salvatore: "Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro" (Rom 7, 25).
    Rimedita il dono grande e insperato della sua presenza. Una novità radicale è entrata nella nostra storia: "Siamo morti nei confronti della legge che ci teneva in suo potere: non siamo più al suo servizio. Per questo, non serviamo più Dio secondo il vecchio sistema che era fondato sulla legge scritta, ma lo serviamo in modo nuovo, guidati dallo Spirito" (Rom 7, 6).
    Il cap. 8 è un inno, entusiasta e sorpreso, alla potenza di Dio che ci fa "creature nuove" in Gesù.
    Il brano che ho citato sta al centro di questo grido di gioia.
    Paolo dice forte la sua esperienza: abbiamo vinto la morte. Non possiamo più avere paura. Essa resta, inesorabile come un nemico in agguato. Ma ormai ha le armi spuntate: è un nemico vinto e legato. La vita può essere vissuta in piena fiducia.
    La ragione è il dono dello Spirito di Gesù: "la legge dello Spirito che dà la vita, per mezzo di Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rom 8, 2). Viviamo nello Spirito di Dio. Egli è la sorgente della vita; è la forza che ci fa riconoscere Dio come Padre; è quel frammento della vita stessa di Dio, che ci fa diventare pienamente figli suoi, come lo è Gesù di Nazareth.

    Il dato prima della sua consapevolezza

    Un oggetto che due amici si scambiano assume un valore che va oltre quello materiale. Non è legato alla cosa donata, ma all'atto del donare. Ciò che fa cambiare il valore dell'oggetto è infatti lo scambio di intenzioni che si realizza nel momento del dono. Io so chi è il donatore e so perché me lo offre. Così l'oggetto diventa davvero diverso. In sé è lo stesso oggetto, che può essere scambiato per mille differenti ragioni: un bacio può dire amore, egoismo, tradimento. Per la circostanza speciale in cui è utilizzato, l'oggetto esprime simbolicamente un rapporto interpersonale. Anche se in sé non è proprio una gran cosa, dal momento che me l'ha regalato una persona a cui io voglio bene, vale tantissimo. E ne sono felice.
    Quando diciamo che siamo diventati figli di Dio nello Spirito che ci è stato donato, siamo a questo livello? Dobbiamo cioè aggiungere subito, per precisione: siamo così se lo sappiamo e se ci impegniamo a riconoscerlo nei fatti.
    Oppure, al contrario, la novità di vita, che ci libera dalla paura della morte perché ci immerge nello Spirito di Dio, ci afferra e ci travolge tutti, come un dono che vale per se stesso?
    Il documento che ho citato dà una risposta molto precisa e sicura: nello Spirito di Gesù siamo "già" creature nuove. Lo siamo non perché lo sappiamo e ne siamo contenti; lo siamo perché Dio ci ha fatto il dono di diventare nuovi.
    I testi della fede della Chiesa apostolica lo ripetono continuamente.
    Cito, tra i tanti, la prima Lettera di Giovanni. Questo lungo, meditato canto dell'amore di Dio nasce dal contatto diretto con Gesù, che di questo amore è la manifestazione definitiva: "La Parola che dà la vita esisteva fin dal principio: noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre mani. La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta. Siamo suoi testimoni e perciò ve ne parliamo" (1 Gv 1-2). Pone al centro la bella notizia: "L'amore vero è questo: non l'amore che abbiamo avuto verso Dio ma l'amore che Dio ha avuto per noi; il quale ha mandato Gesù, suo Figlio, per farci avere il perdono dei peccati" (1 Gv 4, 10). E si conclude con una affermazione da capogiro: "Non avremo più paura davanti a Dio. Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore" (1 Gv 3, 29-30).
    Dobbiamo ripeterci questa esperienza come un dolce ritornello, perché riguarda una dimensione dell'esistenza che sfugge alle nostre abituali regole di comprensione e che resta mistero grande.
    Dio ci ha amato per primo e ci ha amato per quello che siamo. Non ci ha chiesto di convertirci, per poterci amare. Non ha posto delle condizioni. E non ha avanzato delle pregiudiziali. Ci ha amato; e basta. Tutto il resto è l'esito del suo amore.
    Certo, dobbiamo cambiare vita, dobbiamo imparare a vivere da figli di Dio nel ritmo della nostra esistenza quotidiana. Lo dobbiamo fare "perché" Dio ci ama, e non per conquistare il suo amore. L'impegno personale è l'esito, non il titolo di acquisto.
    Questo è molto bello. E ci riempie di coraggio, nonostante la fragilità che continuiamo a sperimentare nella nostra vita.
    Dice ancora Paolo, per tirare le conclusioni dell'esperienza meravigliosa di cui è stato testimone: "Che cosa diremo dunque di fronte a questi fatti? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Dio non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha dato per tutti noi; perciò come potrebbe non darci ogni cosa insieme con lui? [...] Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Sarà forse il dolore o l'angoscia? La persecuzione o la fame o la miseria? I pericoli o la morte violenta? [...] In tutte queste cose noi otteniamo la più completa vittoria, grazie a colui che ci ha amati" (Rom 8, 31-37).

    L'ESISTENZA NELLO SPIRITO

    Facciamo fatica a prendere sul serio il dono dello Spirito: a riconoscere che sulla sua potenza siamo diventati veramente "creature nuove". L'abbiamo nel sangue la tentazione del fariseo che prega felice il suo Dio perché finalmente è riuscito ad osservare tutte le leggi, a forza di impegno duro e di un sacco di buon volontà (Lc 18, 9-14).
    Il massimo che riusciamo a fare, quando siamo catturati da questa logica, è pensare che dobbiamo metterci noi alla ricerca dello Spirito, interrogarlo, lasciarci ispirare, chiedergli di parlare... Sentiamo inquietante la preoccupazione di Paolo: "Mi è stata inflitta una sofferenza che mi tormenta come una scheggia nel corpo. [...] Tre volte ho supplicato il Signore di liberarmi da questa sofferenza". Ma ci dimentichiamo della conclusione che egli stesso ci propone: "Ma egli mi ha risposto: Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole" (2 Cor 12, 7-10).
    Dobbiamo riflettere ancora un poco sul dono dello Spirito. Penetrando, con lo sguardo della fede, nel mistero che ci avvolge, possiamo meglio condividere la raccomandazione conclusiva di Paolo: "Se è lo Spirito che ci dà la vita, lasciamoci guidare dallo Spirito" (Gal 5, 25).

    "Avevo fame, e mi hai dato da mangiare"

    Lo Spirito è il dono grande dell'amore di Dio: in lui abbiamo la vita.
    Il dono di Dio precede la nostra libertà. La sostiene e le permette un'espressione intensa ed autentica. La sollecita, però, in una decisione di accoglienza o di rifiuto. Per questo, il dono dell'amore di Dio richiede sempre una risposta, libera e responsabile.
    Non basta certamente una risposta generica o interlocutoria, come quella che sappiamo dare quando non vogliamo impegnarci eccessivamente. La risposta deve essere piena, totale, convinta, anche se, come tutte le decisioni umane, è chiamata a crescere in consapevolezza ed in intensità.
    Quale risposta siamo chiamati a dare al dono dello Spirito di Dio?
    La fede cristiana sottolinea un punto di riferimento fondamentale: accogliamo Dio che ci chiama, quando ci impegniamo a costruire vita attorno a noi.
    La responsabilità per la costruzione o la distruzione della vita è affidata alle mani operose dell'uomo; in ogni momento della nostra esistenza operiamo scelte in cui è in gioco la qualità della vita. Questi stessi gesti e gli atteggiamenti interiori che li sostengono, esprimono concretamente il nostro sì a Dio che ci chiama alla vita nuova; oppure dicono il nostro rifiuto al suo invito.
    Il confine tra l'accoglienza di Dio o il suo rifiuto è determinato perciò dall'autenticità personale: dall'impegno per la promozione della vita e dal perseguimento del bene morale, conosciuto in modo soggettivamente adeguato.
    Queste affermazioni si fondano sulla consapevolezza che l'umanità di ogni uomo è diventata, in Gesù, il luogo dove Dio si fa presente nella nostra storia. Per allontanare ogni dubbio sulla loro autenticità, basta rileggere il racconto del "giudizio finale", nel vangelo di Matteo: "I giusti diranno: Signore, ma quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti? E il re risponderà: In verità, vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò ad uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!" (Mt 25, 37-41).
    La costatazione è fondamentale: solo a questa condizione il dono dello Spirito è offerto veramente a tutti gli uomini. Ciascuno lo può accogliere o rifiutare in una decisione che investe pienamente la sua responsabilità. Se Dio ci chiedesse una risposta che faccia riferimento esplicito allo Spirito di Gesù, molti uomini ne sarebbero esclusi, senza eccessiva colpa personale. Non conoscono Gesù e non possono apprezzare il dono del suo Spirito.
    Quando ci riferiamo esplicitamente a Dio - riconoscendo che nelle piccole cose della nostra vita quotidiana lo scegliamo come il Signore o decidiamo di rifiutare la sua presenza - non aggiungiamo nulla ad un dato che è già, naturalmente, la sua scelta o il suo rifiuto. Soltanto chiamiamo per nome quello che siamo.
    Conoscere il senso della propria esistenza non è piccola cosa... Al contrario, rappresenta una condizione decisiva per crescere come adulti. Però non è la conoscenza la cosa determinante. E non è neppure l'impegno che mettiamo quello che decide la presenza di Dio nella nostra vita. Conoscenza e impegno sono il frutto di una presenza che ci investe e ci trasforma più radicalmente.
    Sono, in qualche modo, il frutto più maturo del dono dello Spirito, ciò che ci permette di portare a compimento quella novità di vita che ci è offerta come un piccolo seme che cresce in albero grande, sulla forza che si porta dentro, anche se lunghi inverni devono passare prima della sua espressione più rigogliosa.

    Un problema serio di "autenticità"

    Maturati in queste consapevolezze, possiamo fare un passo in avanti, nella meditazione del dono dello Spirito di Gesù.
    Le nostre decisioni avvengono secondo modalità che ormai conosciamo abbastanza bene. Di fronte alla nostra libertà e responsabilità si aprono sempre alternative differenti. Riconosciamo di essere costituiti nella libertà, proprio perché non siamo sollecitati in modo rigido verso un oggetto unico di scelta.
    Certamente, siamo chiamati a scegliere ciò che risulta bene e a rifiutare ciò che invece è male: a scegliere cioè la vita contro la morte. Ma non è proprio facile costatare da che parte sta il bene e la vita e da che parte sta la morte. Ci giochiamo sempre in uno spazio personalissimo di decisione, rischiando e inventando. Alla prova dei fatti, spesso ci viene da dire: se potessi tornare indietro... la prossima volta sceglierò diversamente.
    In questo gioco di libertà e di responsabilità è coinvolto il mistero di Dio. Lo scegliamo come il Signore e costruiamo un pezzo del suo regno.
    E se poi avessimo sbagliato scelta? Se fosse stato meglio scegliere il contrario?
    Non siamo in causa solo noi. In qualche modo, chiamiamo in causa il progetto di Dio sulla vita. Ci viene il timore di costringerlo... a fare scelte sbagliate.
    Chi orienta la decisione della nostra libertà verso quel progetto normativo che è il progetto di Dio? Cosa ci assicura di agire alla luce di Dio?

    "Dall'esperienza dello Spirito"

    Riporto come risposta una citazione interessante. È di un grande teologo, che ha meditato a lungo su questi problemi.
    "Il devoto ingenuo di tutti i giorni, per lo più, non avrà qui nessuna grave difficoltà e neppure deve essere turbato in questa sua spregiudicatezza. Egli ha l'impressione che in una tale scelta Dio gli 'dica' quale oggetto debba scegliere tra i tanti possibili, che lo 'illumini' e lo 'ispiri', in modo che sappia chiaramente quale sia concretamente la 'volontà di Dio'. Ma questo non può essere accettato, in via normale: ci si può immaginare che questa determinazione dell'oggetto di scelta, hic et nunc giusto, non avvenga mediante un intervento puntiforme di Dio. Questa sarebbe infatti una vera e propria rivelazione privata La teologia non ammette rivelazioni nuove, neppure nelle decisioni supreme che si devono prendere nella vita della Chiesa. La riflessione teologica dà oggi questa risposta: la determinazione della decisione esistenziale è resa possibile dalla sintesi, realizzata nel profondo di ogni persona aperta e disponibile alla verità e alla autenticità, tra l'esperienza trascendentale dello Spirito e l'incontro con l'oggetto categoriale, presentato qui-ora alla libertà" (K. Rahner).
    Il documento non è di facile lettura. Soprattutto le ultime righe sono scritte in gergo. Se lo leggiamo con calma, ci scopriamo però indicazioni preziose. Escludono un modo abbastanza diffuso di risolvere la questione e aprono verso una prospettiva veramente affascinante.
    La citazione ci ricorda il fatto già tante volte sottolineato: lo Spirito abita in noi. Non siamo noi in trepida ricerca di una realtà lontana. Al contrario, pensiamo, progettiamo, agiamo e viviamo "dall'esperienza" dello Spirito: la novità di vita che ci permette di superare la paura della morte e ci restituisce alla gioia di riconoscere Dio come Padre, sta nel fatto che viviamo già immersi nello Spirito.
    Questo l'abbiamo già contemplato, meditando qualche pagina della Lettera ai Romani.
    La citazione ci dice anche qualcosa di nuovo, per comprendere, come siamo capaci, in che cosa consista l'esperienza dello Spirito, proprio in ordine ai problemi su cui stiamo riflettendo.
    Possiamo scegliere davanti a Dio perché siamo "guidati" dallo Spirito di Gesù.
    L'esperienza dello Spirito non è un influsso di Dio dall'esterno dell'uomo, né comporta il confronto con una proposta, esperimentata in modo riflesso nella propria coscienza. Essa invece consiste nel fatto che Dio si è comunicato tanto intensamente e profondamente all'uomo da essere quella forza misteriosa che ci costituisce persone segnati dalla trascendenza, aperti verso la vita stessa di Dio. L'esperienza dello Spirito è la vita di Dio comunicata all'uomo, attraverso cui si realizza quasi una collaborazione operativa con Dio in ogni gesto della nostra vita.
    Quando siamo chiamati a scegliere, come capita di fatto in ogni frammento della nostra esistenza, noi scegliamo nella libertà e responsabilità personale: le nostre sono sempre scelte autonome. Dio sostiene la conoscenza e la libertà dell'uomo fino ad orientare le nostre decisioni verso scelte alla luce di Dio.
    La libertà personale non viene soffocata, ma potenziata: questo è il bello di una presenza intimissima e misteriosa come è quella di Dio nella nostra vita. Proprio perché restiamo fondati nella libertà e nella responsabilità, abbiamo ogni giorno incombente la possibilità triste del tradimento e del peccato.
    Questa presenza di Dio, intensa e misteriosa, è l'esperienza dello Spirito.

    È un po' come quando ci si vuol bene

    Ho cercato di descrivere l'esperienza dello Spirito con le parole, un po' complicate, della riflessione teologica. Le ho trovate a fatica, perché non bastano davvero le espressioni della scienza per esprimere correttamente un frammento importante del nostro vissuto.
    Provo a riesprimere il tutto con un'immagine che ci è più familiare: l'amore.
    Due persone che si vogliono bene sono presenti l'uno all'altra anche quando non lo sono fisicamente. Nelle scelte più impegnative, come in quelle che punteggiano il ritmo del quotidiano, le persona amata è presente: ispira, sostiene, incoraggia, conforta, critica. Non è necessario cercare un contatto fisico per sapere che fare. Lo si sente dentro; e basta.
    Qualche volta l'ispirazione viene soffocata, la voce spenta. Allora però ci si sente colpevoli di tradimento.
    Ciascuno ha una sua autonomia di giudizio e di azione. La serietà dell'amore lo esige e l'intensità lo invoca.
    Ogni persona decide però alla luce dell'altra, impegnata quasi a rendere conto della propria decisione, per poterla difendere a testa alta. Egli decide autonomamente, ma decide sempre di fronte alla persona che ama.
    Non la deve interpellare. È già presente, come ispirazione ultima e decisiva.
    Questa è un po' l'esperienza dello Spirito.
    La parabola dell'amore non può essere forzata. Nell'ispirazione dell'amore il processo resta sempre sul piano intenzionale e affettivo. La presenza è solo "come se" fosse presente.
    La presenza di Dio nella nostra vita è invece un fatto reale e concreto, anche se non lo possiamo sperimentare come facciamo di solito nei rapporti con amici.
    La differenza è notevole. Non abbiamo però altre parole per accedere al mistero di quelle povere delle nostre esperienze quotidiane. Le usiamo sempre con trepidazione. Un po' meno in questo caso. Non è lo Spirito di Gesù una profonda e intensa esperienza d'amore?

    IL CONCRETO: IL MISTERO CHE LA VITA SI PORTA DENTRO

    Nel profondo della nostra esistenza riconosciamo una presenza, misteriosa ma reale: lo Spirito di Gesù. Nel suo dono, l'amore di Dio si è comunicato a ciascuno di noi e ci ha trasformato in creature nuove.
    Non sempre però questa realtà brilla in tutto il suo splendore. Spesso, anzi, viene offuscata e tradita dal modo con cui è vissuto o realizzato ciò che si vede e si costata della vita quotidiana.
    D'altra parte, questa è la nostra situazione attuale. Viviamo nella salvezza di Dio, perché Gesù ci ha regalato il suo Spirito che ha fatto di noi creature nuove. La salvezza però è in faticosa crescita nella storia, con un ritmo che procede tra sussulti, incertezze, entusiasmi e ripiegamenti.
    Spesso, il mistero da decifrare dentro il visibile è solamente un grido verso la salvezza. Possediamo la nostra quotidiana avventura perché ci sentiamo provocati dal grande progetto di Dio per la vita di tutti a diventare protagonisti con Gesù di questo impegno.
    Altre volte, siamo più fortunati. Incontriamo cose e persone che sprizzano salvezza e novità da tutta la loro esistenza. Riconosciamo il dono di Dio all'opera. Lo celebriamo con gioia, contenti di vivere in anticipo un pezzo di futuro. E ci sentiamo trascinati sull'onda lunga della passione di Dio per la vita di tutti.
    Un dato importante non può essere dimenticato.
    La salvezza e la pienezza di vita sono "già" un dono, presente e operante nella vita quotidiana, anche se "non ancora" pienamente realizzato. "Già" e "non ancora" non sono però divisi tra avvenimenti e persone, come se alcuni fossero pieni di novità e altri ne fossero totalmente esclusi. Rappresentano invece come i due volti della stessa realtà, anche se espressi con intensità differente.
    Per questo, chi legge il visibile dalla parte del mistero è sollecitato ad amare con passione incondizionata tutto e tutti: un frammento di salvezza è già in tutto. E, nello stesso tempo, è impegnato, nella dolce compagnia del Crocifisso risorto, a far passare tutto e tutti da morte a vita, perché purtroppo la morte possiede ancora molti alleati nella storia personale e collettiva.

    4. Educare alla fede è generate alla vita

    Abbiamo contemplato il fatto e ci siamo lasciati provocare dall'esigenza: viviamo di fede quando decifriamo la trama della nostra vita quotidiana dall'esperienza dello Spirito e ci impegniamo a vivere, in modo riflesso e consapevole, l'avventura di questa affascinante scoperta.
    A questo stile di esistenza possiamo "educare".
    Non interveniamo educativamente per costruire noi qualcosa che altrimenti non esisterebbe. Interveniamo sul piano delle mediazioni per dare trasparenza al segno e per rendere le persone attente e disponibili nei suoi confronti.
    Di questa operazione, affascinante e impegnativa, metto in risalto il significato e l'ambito.
    Per le indicazioni strettamente metodologiche rimando invece alle tante cose scritte in altri contesti.

    DARE VITA E DARE RAGIONI PER VIVERE

    Vive di fede chi affida la propria esistenza a ragioni e significati che la superano e che non possediamo mai in modo assoluto.
    Questo complesso di ideali, in cui ci riconosciamo e a cui ispiriamo la nostra esistenza, sono assunti per identificazione.
    Qui si colloca il servizio di educazione alla fede e la sua qualità.

    Educare creando identificazione

    L'identificazione è un processo formativo molto originale, diverso da quello di cui abitualmente ci serviamo per apprendere nuove informazioni o per acquisire nuove competenze.
    Nell'insegnamento, chi sa comunica la sua scienza agli altri. Essi ascoltano, valutano e assimilano le proposte. Per abilitarci a competenze che non avevamo (la guida di un automobile, l'uso del computer, una disciplina sportiva...), la via normale è quella della ripetizione dei gesti adeguati: provando e riprovando, diventiamo competenti.
    In tutti i casi, al centro c'è uno specialista che fa la sua proposta e ne giustifica la correttezza sul filo della logica.
    Nei processi di identificazione le cose procedono in modo assai diverso. Riconosciamo qualcuno significativo e importante per noi per quello che è. All'esperto viene sostituito il testimone; alla logica subentra l'esperienza. Decidiamo così di aprire a lui il santuario intimissimo della nostra vita, per affidargli la gestione delle ragioni decisive dell'esistenza.
    Qualche volta si tratta di ragioni oggettivamente piccole e povere. La persona che le condivide, le valuta però così importanti da fondare in esse un pezzo della sua passione e del suo entusiasmo.
    Altre volte, si tratta di ragioni grandi e impegnative, per cui vale davvero la spesa giocare tutta la vita.
    L'identificazione scatta nei confronti di una persona, singola e concreta, nei confronti di un gruppo sociale di appartenenza, e, qualche volta, anche nei confronti di una istituzione.
    L'operazione è delicata e un po' pericolosa, soprattutto quando non ci sono di mezzo solo aspetti parziali dell'esistenza, ma tutta la vita ne viene afferrata. Non esistono però alternative. Gli "ideali", quelli che danno ragioni per vivere, sporgono sempre verso l'ignoto e il non posseduto. Non diventano significativi perché sono pienamente verificati; lo diventano solo perché sono resi significativi dalla testimonianza di alcune persone. Siamo disposti ad accettare il rischio di giocare la nostra esistenza su un fondamento che non riusciamo a possedere in modo pieno e verificabile, perché stimiamo "degni di fiducia" questi nostri interlocutori.

    Generare alla vita

    Questo fatto merita un'attenzione speciale: ci introduce nel mistero della generazione della vita.
    Esiste una persona, una comunità, un gruppo di credenti, che è portatore di un insieme di ragioni per credere alla vita e sperare in essa dentro la morte. Questo soggetto consegna ad altri l'ideale in cui si riconosce.
    Lo fa come gesto d'amore. Non ha nessun altro scopo recondito. Non vuole diffondere nuovi modelli culturali; non ha prodotti raffinati da immettere sul mercato. Non cerca dei proseliti per la sua causa. Non gli interessa produrre strumenti di pressione, magari a fin di bene.
    Ha una sola intensa passione: la vita. E si lascia inquietare profondamente dalla diffusa domanda di vita. Ha vissuto un'esperienza che ha rassicurato la sua incertezza e ha confortato la sua paura. E vuole offrire ad altri il dono di cui è stato fatto ricco.
    L'intenzione e i gesti che accompagnano e verificano la sua testimonianza, sono le uniche prove che la rendono "credibile", in una compagnia che sostiene e rende forte la sua povera voce e i suoi gesti incerti.
    Sulla provocazione della sua testimonianza, altri ritrovano ragioni per vivere e per sperare. Nasce la fede. Qualcuno può ora dire: adesso anch'io credo alla vita.
    Dare la vita sul piano fisico, nella generazione della carne, è un avvenimento misteriosamente grande e impegnativo. Continua l'impresa divina della creazione. Non è però sufficiente: dà la vita veramente solo chi dà ragioni per vivere. Senza ragioni per vivere, la vita è una disperazione: molto meglio la morte.
    Nella fede, che ci scambiamo da persona a persona, si realizza il livello più alto di generazione. Sostenendo la fede di una persona, noi le diamo la vita.
    Vivere di fede è possedere ragioni per vivere; donare la fede, suscitando ideali per cui vivere, è dare pienamente la vita.

    LA QUALITÀ DI UNA FEDE "ADULTA"

    Ho già avanzato una punta di sospetto sull'identificazione, perché questo processo ha sempre il rischio di diventare manipolatorio. Ci sentiamo tanto in crisi, alla ricerca affannosa di ragioni per vivere, che diventiamo disposti a svendere la nostra libertà e ci fidiamo ciecamente di colui che ci fa proposte.
    La zona di rischio è tanto più larga, quanto è intensa la ricerca di speranza o quanto la proposte sono offerte con toni solenni e seducenti.
    L'ho già detto: non ci sono alternative. Gli ideali che danno fondamento alla nostra speranza si accettano per scommessa, rinunciando alle fredde procedure razionali.
    Questa condizione fa problema a chi vuole giocare la sua umanità in piena responsabilità.
    Di qui l'interrogativo: quali condizioni personali indicano che è diventata fede "adulta" l'atteggiamento vitale di chi affida ad un fondamento le sue ragioni per vivere e per sperare?
    La domanda è inquietante per l'educatore che riconosce il carattere funzionale e provvisorio del suo servizio. Sa che deve sostenere, incoraggiare, sollecitare... e poi ritirarsi perché la persona "educata", diventata "adulta", si esprima in libertà e responsabilità.
    Il bambino affida la sua speranza alla mano sicura della mamma. Lo fa senza chiedersi il perché di questo suo atteggiamento e senza pretendere motivi che lo giustificano.
    Non è certo questo lo stile di una fede "adulta". Possiamo però considerare "fede" adulta l'atteggiamento di chi vuole rendersi conto di tutto e non decide nulla della sua vita se non quando tutti i conti gli tornano con sicurezza? Certamente, no. La fede ha sempre una dose alta di rischio personale. Non possiamo mai dire "è così, e solo così", come quando ci mettiamo a dimostrare un teorema di matematica.
    La fede adulta non assomiglia all'atteggiamento critico dello scienziato ma neppure a quello del bambino nelle braccia della madre. Quando, allora, divento adulto nella fede?
    Lo stretto rapporto esistente tra fede e vita giustifica una risposta che può suonare un po' strana: la qualità della fede, come la qualità della vita, si misura dalla sfida della morte.
    La fede è "adulta" quando sa possedere anche la morte. Educhiamo ad una fede adulta quando aiutiamo a vivere "dalla parte della morte". Non solo generiamo alla vita perché diamo ragioni per vivere "nonostante" la morte. Educhiamo a vivere da adulti perché sosteniamo uno stile di esistenza quotidiana capace di possedere veramente la morte.
    Per dire il senso di tutto questo, sottolineo due caratteristiche del difficile confronto con la morte.

    Ricostruire l'identità dall'interiorità

    Ci chiediamo spesso chi siamo, anche per riuscire a dire a noi stessi chi vogliamo essere. Ce lo chiediamo provocati nel confronto con gli altri e nel frastuono di mille seducenti proposte.
    Di risposte ne abbiamo tantissime, tutte pronte all'uso. Dalla parte della morte, in quel silenzio impietoso che essa provoca, le scopriamo spesso troppo fragili, per bastare a saziare un'inquietudine mai spenta.
    Una cosa è certa: l'identità è l'esito di una lunga faticosa marcia di conquista. Solo a fine percorso sappiamo chi siamo veramente. Non possiamo pretendere di dircelo una volta per sempre, attingendo poi a questa definizione con la stessa presunzione con cui trattiamo il nostro conto in banca.
    Il momento della morte è quello in cui in modo definitivo possiamo finalmente affermare la nostra identità. Ma, a quel punto, non ci serve più. Siamo come quegli studenti a cui balena la soluzione intelligente del problema qualche istante dopo aver concluso l'esame.
    L'identità non è utile a fine percorso; serve il lento procedere della nostra giornata, tappa dopo tappa.
    Possiamo sognare un tipo di identità conclusiva, nel momento solenne della morte, solo se l'abbiamo costruita così giorno dopo giorno.
    Quale identità?
    Possiamo costruire la nostra identità solo dal silenzio della nostra interiorità. Ci diciamo "chi siamo" e "chi ci sogniamo" in quello spazio intimissimo e personale dove siamo sempre inesorabilmente soli e poveri. Lì ci ritroviamo senza le cose, i titoli, le sicurezze e gli idoli che ci danno conforto e sembrano tanto preziosi per dire a tutti chi siamo.
    Anche se ci affannassimo ad accumulare tesori di questo tipo, la morte ce li strapperebbe tutti, inesorabile come un ladro.
    La morte ci lascia senza le cose: dunque senza identità, se l'abbiamo costruita sulle cose. Un'identità dall'interiorità resiste invece al vento della morte. Nasce nel distacco quotidiano e progressivo, che anticipa quello della morte. Ci diciamo "chi siamo", restando da soli, anche in mezzo ad una compagnia fragorosa di amici e di testimoni.
    Questa è la fede adulta: una fede che viene dal silenzio dell'interiorità, dove tutte le voci risuonano interessanti, ma dove nessuna può pretendere di darci quella ragione per vivere e per sperare di cui abbiamo ardente bisogno.
    La fede ci costringe al coraggio solitario che assomiglia tantissimo a quello dei martiri d'un tempo passato e del nostro tempo: la fede trova forza e sostegno in se stessa e non cerca l'appoggio del consenso e dell'applauso.
    Vivere di fede è quindi evento di libertà, un gesto che irrompe nel centro più intimo dell'esistenza. Spesso non siamo in grado di oggettivare in modo adeguato questa esperienza. Ma essa resta, come una decisione ultima di coscienza non più applaudita da alcuno, in una speranza illimitata che supera le delusioni della vita e l'impotenza di fronte alla morte.
    Da questa prospettiva possiamo ripensare la qualità della relazione che lega educatore e giovane, il suo modo di fare proposte, la radice da cui recupera l'autorevolezza necessaria al suo servizio.

    Fiducia nella vita

    Un altro tema merita attenta considerazione, per decidere quando possiamo veramente avere fiducia nella vita di fronte alla morte e per misurare da questa prospettiva il significato e il compito dell'educatore della fede.
    La morte produce un distacco obbligato e irrevocabile dalle cose e dalle persone. Recide, in ultima analisi, la trama quotidiana della vita.
    Ci sono ragioni da vendere per disperarsi. Che senso ha un'esistenza che si conclude in una costrizione senza appelli ad abbandonare tutto quello che è stato amato, costruito, realizzato?
    Possiamo amare una vita, protesa verso un esito tanto triste e ingiusto?
    Gesù, a parole e a fatti, ha insegnato che possiede la vita solo chi la sa offrire totalmente, la possiamo amare solo se impariamo a consegnarla (Mt 16, 21; Lc 17, 33; Gv 12, 25). Molti uomini l'hanno preso sul serio, persino senza riconoscerlo in modo diretto.
    La fede genera vita e ragioni per vivere perché sollecita continuamente a possedere "consegnando" tutto. Così ha fatto Gesù, secondo il racconto di Luca: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo, spirò" (Lc 23, 46).
    La fede è matura quando la fiducia piena nella vita diventa amore appassionato che sa condividere.

    Distacco dalle cose

    Il distacco dalle cose è irrimediabile. Non c'è scampo e non ci sono alternative: o impariamo a vivere, imparando a morire, oppure viviamo "contro" la logica della morte, arraffando e accumulando in attesa di perdere tutto.
    Il distacco non è l'atteggiamento manicheo di chi disprezza tutto per un principio superiore. Distacco vuol dire invece consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità. Le cose sono per la vita di tutti. E tutti hanno il diritto di goderne, soprattutto hanno questo diritto coloro a cui sono sottratte più violentemente e ingiustamente.
    Il povero, l'essere-di-bisogno, è la ragione del mio distacco. Mi privo delle cose, giorno dopo giorno, proprio mentre le possiedo gioiosamente, per permettere ad altri di goderne un po'.
    L'esito è strano e assurdo nella logica in cui siamo abituati a lavorare: condividendo, tutti abbiamo tutto a sazietà. La parabola della moltiplicazione dei pani lo insegna senza mezzi termini: solo condividendo i pochi pani che qualcuno previdente aveva portato con sé, tutti si sono tolti la fame e ne sono rimaste sette sporte traboccanti (Lc 9, 12-16).
    Qui passa la linea di demarcazione tra due modi di vivere la vita: fidarsi tanto della vita da saper "partire in solitudine", distaccandosi dalle cose perché possano servire ad altri; oppure imprecare contro l'esistenza che ci strappa da quello che abbiamo cercato di afferrare a tutti i costi.

    Distacco dalle persone

    La morte ci strappa violentemente anche dalle persone, con cui abbiamo condiviso un piccolo frammento di tempo, tanta passione ed esperienze originalissime di amore. Non le possiamo portare con noi, nonostante l'affetto intenso che ci lega. Le dobbiamo abbandonare alla loro solitudine e al loro dolore.
    L'abbiamo già sperimentato personalmente. Papà o mamma ci hanno lasciato e sono scomparsi molti di coloro che ci hanno generato alla vita, dandoci ragioni per vivere. E se per fortuna sono ancora con noi, sentiamo incombente la minaccia della loro scomparsa.
    Lo sappiamo e ne soffriamo. Basta davvero poco per toccare dal vivo lo strappo violento e insanabile della morte.
    Parliamo tanto di amore, di solidarietà, dell'ebbrezza dello stare in compagnia. E poi... all'improvviso la luce di spegne: per noi e per gli altri.
    Di fronte a questa minaccia, rispunta, più inquietante che mai, l'interrogativo: possiamo fidarci di questa vita che ci costringe a restare da soli e ci chiede di partire in solitudine?
    Fiducia nella vita significa, anche in questo caso, anticipare nel ritmo dell'esistenza quotidiana il distacco prodotto dalla morte, per non essere colti di sorpresa, quando verrà improvvisa e inesorabile.
    Verso le persone siamo chiamati a vivere un distacco simile e molto diverso da quello che realizziamo nei confronti delle cose.
    Non voglio giocare sulle parole. Non è certo questo il contesto per farlo.
    Per dire in modo concreto la qualità del distacco a cui dobbiamo allenarci, penso ai doni preziosi che ci hanno fatto amici che non sono più fisicamente in nostra compagnia.
    I cristiani proclamano, con forza e con fierezza, che Gesù di Nazareth è il Vivente. È vissuto duemila anni fa, in una regione lontana dalla nostra. Trascinato sulla croce dalla malvagità dei suoi nemici, ha vinto la morte e ha superato i confini del tempo. Vive oggi con noi.
    Lo stesso si dice di Maria, dei grandi credenti che hanno segnato la storia della loro presenza operosa.
    Io chiamo don Bosco "padre", perché mi ha dato, in modo specialissimo, ragioni per vivere e per sperare. Con tanti amici e con tanti giovani, diciamo che è ancora vivo in mezzo a noi, anche se la passione per i giovani l'ha consumato come una lampada che brucia l'ultima goccia di olio e poi si spegne.
    Certo, non è esattamente la stessa cosa riconoscere che Gesù è il Vivente e dire che Maria, don Bosco, i santi sono ancora vivi.
    È diversa la persistenza nella vita ed è differente il dono che la loro esistenza ci ha offerto.
    Gesù di Nazareth è veramente vivo in mezzo a noi, fondamento della nostra vita e della nostra speranza. Lo testimonia Pietro davanti al tribunale del sommo sacerdote e dei maestri della legge, irritati per la guarigione dello zoppo alla porta del Tempio: "Capi del popolo e anziani di questo tribunale, ascoltatemi. Voi oggi ci domandate conto del bene che abbiamo fatto ad un povero malato e per di più volete sapere come mai quest'uomo ha potuto essere guarito. Ebbene, una cosa dovete sapere voi e tutto il popolo d'Israele: quest'uomo sta davanti a voi, guarito, perché abbiamo invocato Gesù Cristo, il Nazareno, quel Gesù che voi avete messo in croce e che Dio ha fatto risorgere dai morti. [...] Gesù Cristo, e nessun altro, può darci la salvezza: infatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci" (At 4, 8-13).
    I santi e i nostri amici sono vivi in mezzo a noi perché ci siamo amati intensamente e perché la loro esistenza ha costruito la nostra. Quando la morte ce li strappa dal contatto fisico, resta il ricordo intenso della loro presenza. Li pensiamo con nostalgia, li avvertiamo ancora vicini perché la loro esistenza è stata un dono impagabile per la nostra vita.
    Ci hanno amato e hanno servito la nostra crescita nella libertà e nella responsabilità. Hanno generato in noi una qualità nuova di esistenza.
    Tutto ciò che ci parla di loro, è per noi gradito e prezioso.
    Ci sentiamo soli e, nonostante tutto, non ne soffriamo, perché grazie a loro siamo diventati "adulti", capaci di vivere in solitudine.
    Molto diverso è il rapporto con persone di cui abbiamo un ricordo triste. Si arriva persino a dire: per fortuna, non ci sono più; ci hanno succhiato il sangue e ci hanno amareggiato l'esistenza... ma anche per loro la festa è finita. La loro partenza è salutata come una grande liberazione.
    Ho suggerito due situazioni opposte.
    A confronto con quello che altri sono stati per noi, è più facile dirci cosa significa imparare a vivere nel distacco verso le persone.
    Il distacco non spegne il ricordo e non brucia la capacità di generare ancora ragioni per vivere, solo se, nell'avventura con gli altri, ho saputo costruire amore e libertà, servendo spassionatamente la loro gioia di vivere, la loro capacità di sperare, la responsabilità di crescere come protagonisti della storia personale e collettiva.
    Quando la mia presenza si fa ossessiva, quando cerco a tutti i costi di dominare la mano che mi chiedi un aiuto, quando faccio prevalere il mio interesse su quello degli amici... non vivo nel distacco. Cerco di afferrare qualcosa che poi la morte mi strapperà violentemente. Resterò così senza quello che ho cercato di possedere e la mia partenza sarà accolta come una liberazione.
    Quando invece mi perdo nell'amore che si fa servizio, fino alla disponibilità a "dare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza", anticipo nel quotidiano quel distacco a cui la morte mi costringerà, presto o tardi. Il mio ricordo "resta", forte come l'amore.
    La nostra fede è diventata adulta perché abbiamo vinto anche la morte, anticipando, attraverso gesti pieni di vita, le sue richieste dolorose.
    Abbiamo educato ad una fede adulta perché abbiamo saputo "morire" come educatori, per far spazio alla libertà e alla responsabilità dei giovani, dopo aver dato tutto quello che era necessario per consolidare e verificare la qualità della loro esistenza.

    L'IMPOSSIBILE DIVENTA POSSIBILE

    La fede che fa credere alla vita, resta un atto strettamente personale, giocato nella solitudine della propria interiorità. Lì, nel silenzio e nella sofferenza della solitudine, le ragioni di vita che altri hanno offerto, diventano le "mie" ragioni di vita. Diventa quindi fede adulta solo quando ciò che è stato ricevuto, nello scambio di una testimonianza di vita, viene riconquistato personalmente.
    Questa è la condizione irrinunciabile. Solo quando la fede raggiunge questo indice di autenticità, essa è capace di generare, nella libertà, vita d'attorno, dando ad altri quelle ragioni per vivere e sperare che sono state offerte a noi.
    Se questa condizione viene disattesa, siamo costretti a seminare di idoli i sentieri della nostra vita. Ci inquieta tanto la ricerca di ragioni per vivere, che corriamo a spegnere la nostra sete alle cisterne piene di fango, e diventiamo tanto affamati di speranza, da affidarla ciecamente al primo venuto.
    È un dato importante per chi si impegna nel difficile compito di educare alla fede.
    L'educatore della fede genera alla vita, generando alla fede, con la preoccupazione continua di generare "adulti nella fede": credenti capaci di vivere di fede, nella solitudine della loro libertà e impegnati a generare altri nella fede e nella vita.
    Egli si misura quotidianamente con una pagina del Vangelo provocante come questa: "Quando arrivarono in mezzo alla gente, un uomo si avvicinò a Gesù, si mise in ginocchio davanti a lui e disse: Signore, abbi pietà di mio figlio. È epilettico e quando ha una crisi spesso cade nel fuoco e nell'acqua. L'ho fatto vedere ai tuoi discepoli, ma non sono riusciti a guarirlo. Allora Gesù rispose: Gente malvagia e senza fede! Fino a quando dovrò restare con coi? Per quanto tempo dovrò sopportarvi? Portatemi qui il ragazzo. Gesù minaccio lo spirito maligno: quello uscì dal ragazzo, e da quel momento il ragazzo fu guarito.
    Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, lo presero in disparte e gli domandarono: Perché noi non siamo stati capaci di cacciare quello spirito maligno?
    Gesù rispose: Perché non avete fede. Se avrete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, e il monte si sposterà. Niente sarà impossibile per voi" (Mt 17, 14-20).
    Questa pagina dà da pensare a chiunque crede alla vita e si impegna, nel nome del suo Signore, alla sua promozione.
    Gesù si irrita con i suoi discepoli perché li vede impotenti e rassegnati di fronte alla morte. Non sopporta la vittoria della morte sulla vita.
    Riconosce che l'impresa non è certo facile. Per questo sollecita la fede: chiede di immergere il problema nel mistero grande di Dio. Qui l'impossibile diventa subito possibile.
    E la vita trionfa.
    Quello che ho raccontato non è un episodio isolato. Il Vangelo è pieno di racconti simili, dove la fede fa diventare possibile l'impossibile.
    La donna cananea crede che Gesù può restituire la salute alla figlia. E la figlia guarisce (Mt 15, 21-28).
    Il centurione romano crede che Gesù può vincere la morte che ormai ha ghermito il servo. E il servo torna alla vita (Mt 8, 5-13).
    La peccatrice che gli bagna i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli, crede di poter ritrovare la dignità perduta. E Gesù la restituisce alla pienezza dell'amore (Lc 7, 36-50).
    Il lebbroso, la donna che soffriva di perdite di sangue, Zaccheo e Pietro dopo il tradimento credono alla vita nel nome di Gesù. E tornano tutti, in modo diverso, alla pienezza di vita.
    Gesù non l'ha solo detto e fatto per gli altri. Ha creduto alla vittoria della vita e della libertà, nel nome del Padre, anche quando la morte si è affacciata violenta nella sua esistenza. Come tutti noi, ho sofferto e pianto. Poi ha gridato tutta la sua fede. E ha vinto la morte, definitivamente e per tutti noi.
    L'impossibile è diventato possibile per lui, per tanti amici suoi, per noi, perché ha creduto nella vita e ha costruito, nel piccolo, i segni della grande promessa.
    La storia dell'avventura dell'uomo non è solo piena di guerre, di intrighi, di soprusi e di violenze. Molti uomini coraggiosi hanno creduto nell'impossibile: e l'hanno fatto diventare possibile.
    Molti l'hanno fatto con forza, nel nome di Gesù.
    Altri l'hanno compiuto solo sulla grande passione per la vita che ha riempito le loro esistenze. La loro fede è stata grande anche se il riferimento al fondamento che tutto fonda, è rimasto ancora incerto, per mille differenti ragioni.
    L'educatore della fede è lucido davanti alle situazioni di morte, per un appassionato amore alla vita. Lotta per superarle, fino a perdere la propria vita. Pone gesti concreti, anche se piccoli e incerti. Crede intensamente. Per questo agisce, inventa, trasgredisce, spera contro ogni speranza. E non si arrende.
    Un po' alla volta, quello che sembrava impossibile nella logica corrente diventa davvero esperienza gioiosa e diffusa.


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