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    Evangelizzazione e comunicazione: per far progetti sulla provocazione dei problemi



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1994-01-27)


    La pastorale (quella generale e quella giovanile in particolare) si trova oggi in un tempo abbastanza strano.
    Viviamo in una situazione di diffusa emergenza sulla vita. E questo porta molti adulti e tantissimi giovani a cercare con ansia ragioni di vita e di speranza. Le comunità ecclesiali annunciano il Signore della vita, con un coraggio e una passione rinnovata. Eppure i "risultati" sembrano tutt'altro che significativi, soprattutto se non ci accontentiamo di coloro che ci seguono, ma accettiamo di misurarci disponibilmente con tutti. Come mai?
    È difficile individuare le ragioni e soprattutto indicare una risposta, come fosse l'unica o quella conclusiva. Molte variabili sono in questione. Tra l'altro, ci muoviamo in un ambito dove è in gioco il mistero dell'amore di Dio e della libertà dell'uomo.
    Qualcosa però sento il bisogno di suggerirlo, almeno come ipotesi di lavoro, da verificare e concretizzare.
    La mia riflessione si muove nella logica degli orientamenti teologico-pastorali che ispirano le ricerche e le proposte di "Note di pastorale giovanile". Per questo sarò costretto a ripetere, ogni tanto, cose già dette e che il lettore affezionato sente risuonare da un po' di tempo.
    Non voglio però analizzare i temi con lo sviluppo che richiederebbe "la prima volta". Tento invece di dare un quadro generale.
    Il risultato potrebbe essere una specie di schema commentato, da cui gli operatori pastorali e le comunità possono verificare l'esistente ed eventualmente progettare il nuovo.

    L'EVANGELIZZAZIONE COME EVENTO DI COMUNICAZIONE

    Incominciamo dai termini del problema. L'indicazione serve a giustificare gli orientamenti di fondo della proposta e, nello stesso tempo, permette un maggior senso critico nei suoi riguardi.
    Dicendo a qualcuno "Gesù è il Signore della tua vita", gli offriamo una notizia davvero bella, che si colloca in quello spazio profondo dell'esistenza personale dove cerchiamo con ansia ragioni di senso e di speranza. Come mai, tante volte, il processo si conclude nell'indifferenza? Perché una parola così impegnativa risuona come una delle tante voci che riempiono la nostra giornata e lasciano normalmente il tempo che hanno trovato?
    L'inquietudine tormentava anche la prima comunità apostolica. Pensando a quello che è capitato anche a Gesù, i suoi discepoli hanno rilanciato una storia raccontata dal maestro: "Il seminatore uscì a seminare la sua semente. Mentre seminava, parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la divorarono. Un'altra parte cadde sulla pietra e appena germogliata inaridì per mancanza di umidità. Un'altra cadde in mezzo alle spine e le spine, cresciute insieme con essa, la soffocarono. Un'altra cadde sulla terra buona, germogliò e fruttò cento volte tanto" (Lc 8, 4-15).
    Il ricordo delle disavventure del seminatore evangelico ridimensiona la nostra pretesa di proporzionare i risultati alla misura del nostro impegno e dello zelo con cui lo assolviamo. Non lo possiamo però citare per consolarci degli insuccessi, come se il grano fosse sempre della migliore specie e le resistenze fossero solo dalla parte del terreno che lo riceve.

    Il dato di fatto

    Ogni nostra ricerca sulla natura del processo di evangelizzazione va riportata a quanto è capitato alla radice della storia della nostra fede.
    Per questo, il punto di riferimento è determinato dall'affermazione solenne di Dei Verbum: "Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo" (DV 13). Come si nota, la prospettiva è quella dell'evento dell'Incarnazione.
    Come l'umanità di Gesù è il luogo in cui il Dio misterioso prende volto visibile, così la parola umana diventa la parola in cui il Dio ineffabile si fa parola per noi.
    Le conseguenze alla pastorale sono di notevole rilevanza, per comprendere la qualità del processo di evangelizzazione, gli eventuali problemi e le possibili soluzioni.
    Ne ricordo due, su cui la riflessione della Chiesa del dopoconcilio si è fatta particolarmente attenta.

    Tra "processo salvifico" e "mediazione salvifica"
    La comunità ecclesiale dice parole e pone gesti, tesi a svelare il mistero di Dio per l'uomo e a sostenere la decisione dell'uomo per Dio. Esse sono sempre "parole d'uomo".
    Il credente esprime la sua decisione di accogliere l'offerta di salvezza attraverso gesti e con parole della sua vita quotidiana. Dunque, ancora, attraverso "parole d'uomo".
    Le parole pronunciate dall'evangelizzatore e quelle espresse da colui che accoglie o rifiuta la proposta, non sono in assoluto l'evento di Dio che si piega verso l'uomo e l'accoglienza (o il rifiuto) di questa offerta da parte dell'uomo. Sono sempre invece una realtà che tenta di rendere presente qualcosa che resta "mistero" insondabile e inverificabile.
    Non possiamo di sicuro ridurre il processo ad un semplice gioco linguistico la cui forza è legata alle mille sottili astuzie del nostro quotidiano conversare. La potenza dello Spirito rende questa "parola" capace di suscitare ed esprimere la fede.
    Tutto avviene però sotto il segno della "sacramentalità": quello che si vede, si sente e si costata rivela (e, nello stesso tempo, nasconde: "ri"-vela) la realtà misteriosa di cui è segno. Lo fa nella trama delle logiche umane quotidiane a cui ha deciso di non sfuggire neppure la parola di Dio.
    Diventa, di conseguenza, importante distinguere tra "processo salvifico" e "mediazione salvifica": quello che si vede e si costata è "mediazione" rispetto a qualcosa che resta, di natura sua, sprofondato nel mistero, che è sempre sottratto ad ogni tentativo di oggettivizzazione sicura o di manipolazione troppo presuntuosa.
    La costatazione è di importanza radicale. Sollecita a rispettare, nello stesso tempo, la potenza di Dio, la libertà dell'uomo e la responsabilità insostituibile di ogni operatore pastorale.
    Il rifiuto di questa distinzione introduce invece nell'evangelizzazione la tentazione del "magismo" e, conseguentemente, del "clericalismo". C'è magismo infatti quando pensiamo che alcuni gesti e determinate parole ottengono in modo sicuro (dunque: magico) l'esito per cui li destiniamo. C'è clericalismo quando pretendiamo di definire, senza incertezza, quali sono queste parole e questi gesti.

    Il peso della cultura
    La mediazione è sempre di tipo culturale: coinvolge cioè modelli antropologici espressi e concretizzati in un linguaggio.
    Lo sappiamo bene, ormai: l'inculturazione (l'immersione cioè in determinate espressioni culturali) è un dato di fatto. La coscienza di dover "inculturare" l'evento di Dio per farlo diventare evento di salvezza per l'uomo è una costatazione da cui scaturisce un compito. Noi infatti incontriamo l'evento di Dio "già" inculturato: in parola umana come il Verbo di Dio è in mezzo a noi nell'umanità di Gesù di Nazareth.
    L'attenzione al peso della cultura nelle mediazioni pastorali ci aiuta anche ad assumere un doppio atteggiamento nei confronti del nostro compito di evangelizzatori.
    Da una parte, riconosciamo che tutte le mediazioni sono collocate in situazione di fragilità e, in qualche modo, di relatività. Sono sempre infatti espressioni culturali, anche le più sante e solenni. Dall'altra siamo spinti a dire il Vangelo di Gesù in una fedeltà che sa rinnovarsi, sotto le provocazioni dei cambi culturali. Non si tratta infatti di ripetere passivamente l'esperienza cristiana, ma di renderla vitalmente e comprensibilmente presente in altre culture.

    La mediazione salvifica nel segno della comunicazione

    Quando ci mettiamo ad analizzare problemi con la voglia di trovare soluzioni, in situazioni di larga complessità, possiamo fare lunghi elenchi di cose che non vanno. La ricerca non arriva mai alla fine. Non solo la complicazione è nell'aria, ma spesso c'è sempre qualcuno che aggiunge una postilla all'ultimo momento, convinto che le cose scoperte non bastino da sole per decifrare seriamente il problema.
    Purtroppo però questi lunghi elenchi servono davvero poco a comprendere le cose e molto meno a trovare soluzioni adeguate. Si corre il rischio di rimanere prigionieri della complessità.
    Per operare abbiamo bisogno di individuare priorità e concatenazioni, distinguendo i diversi livelli e operando a ciascuno di essi secondo le logiche proprie.
    Quello che ho espresso finora rappresenta ormai un dato di cui la comunità ecclesiale attuale è pienamente e largamente consapevole. Non basta da solo a spiegare il problema denunciato in apertura. Orienta però la ricerca in una direzione abbastanza precisa, perché indica tra le tante responsabilità implicate quella che riconosciamo, a ragion veduta, generatrice di altre.
    In questa logica si muove la mia proposta.
    Cerco di capire le ragioni di quella crisi (di cui parlavo all'inizio dell'articolo) che investe oggi l'evangelizzazione, considerandola come un atto di comunicazione.
    Certamente è possibile rileggere l'insieme da altri punti di vista. Lo schema interpretativo utilizzato rappresenta però una collocazione abbastanza consolidata e, a mio avviso, molto ben giustificata anche teologicamente.
    Come nella Rivelazione Dio si fa parola per l'uomo, facendosi parola d'uomo, così l'evangelizzatore propone qualcosa del mistero grande di Dio per la vita dell'uomo attraverso sistemi linguistici che riconosce sempre "umani" e che seleziona in base alla loro significatività.
    Anche la risposta che l'uomo dà all'appello contenuto nella evangelizzazione, ripete lo stesso schema comunicativo. La persona dice la sua decisione attraverso esperienze e parole del proprio vissuto quotidiano. Esse si portano dentro l'accoglienza di Dio come ragione decisiva della propria esistenza, o il suo rifiuto, nel gioco di una libertà che si piega o resiste.
    Appello e risposta possiedono perciò una struttura visibile che veicola un evento più profondo e radicale. Perché comunicazione "ad" un uomo e "di" un uomo, sono nell'ordine simbolico: una struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale, designa un altro senso indiretto, secondario, figurato, che può essere appreso soltanto attraverso il primo.

    ALLA RICERCA DI POSSIBILI DISTURBI

    Ho fatto una lunga premessa di teologia pastorale per giustificare il modo in cui intendo procedere nella mia riflessione.
    Invece di cercare nei partners dell'evangelizzazione i motivi della crisi diffusa, mi metto a cercarli su quell'evento comunicativo che è l'evangelizzazione. Lo so che è un processo salvifico: sfugge quindi alle nostre logiche interpretative, perché coinvolge due libertà (quella di Dio e quella dell'uomo) in un vortice d'amore. So però che questo processo si realizza concretamente attraverso "mediazioni". Le studio nell'ottica speciale della comunicazione.
    Il titolo del paragrafo anticipa la mia ipotesi interpretativa delle difficoltà. Nell'evangelizzazione capita più o meno quello che sperimentiamo quando tentiamo di ascoltare alcune stazioni radiofoniche con uno strumento da quattro soldi, in una zona dove sono molte le emittenti. Spesso siamo costretti a sentire contemporaneamente tre o quattro stazioni... con uno distonia che fa impazzire. Qualche volta la sintonia, appena conquistata, scivola via e tutto deve ricominciare da capo. In questi casi, l'unica soluzione è quella più semplice: si spegne la radio e basta.
    Lo stesso, fuori metafora, avviene per l'evangelizzazione. Allo zelo e alla passione di chi dice parole o pone gesti per realizzare l'annuncio si sommano interferenze di altra natura, esito dei modelli culturali in circolazione. E così anche la più bella proposta finisce per diventare incomprensbile, tanto è disturbata. Se l'interesse non è proprio alle stelle, viene spontaneo... cambiare canale.
    Analizzo dunque questi possibili disturbi.
    Indico prima i dati con cui misurarsi per comprendere seriamente il processo comunicativo.
    Dico poi le difficoltà che mi sembra di poter riscontrare, considerando l'attuale situazione culturale ed ecclesiale.

    Sul piano del rapporto intersoggettivo

    Quando due persone si mettono in comunicazione si realizza tra essi uno scambio di dati, molto complesso. Non solo qualcuno dice qualcosa ad un altro e attende da lui la risposta di ritorno. Ma, prima dello scambio di informazioni, si realizza uno scambio di intenzioni e di interazioni. Il rapporto affettivo che si instaura tra i due interlocutori rende facile o difficile la comprensione del significato degli oggetti scambiati.
    Purtroppo, questo fatto non sempre viene considerato con l'attenzione dovuta, perché l'influsso di una formazione prevalentemente razionalista ci porta spesso a pensare che oggetto della comunicazione sono solo le cose che vengono scambiate.

    Le esigenze
    Ogni comunicazione intersoggettiva è costituita da due elementi, strettamente interdipendenti: il "contenuto" e la "relazione". L'oggetto scambiato è il "contenuto" della comunicazione; il rapporto che lega i due interlocutori si definisce di solito come la "relazione comunicativa". Quando comunichiamo qualcosa ad altri, il secondo elemento (la relazione) classifica il primo, offrendo una serie di "istruzioni per l'uso". Esse definiscono il modo corretto con cui vanno assunti i contenuti e manifestano il modo con cui chi parla considera la sua relazione con l'interlocutore.
    Un esempio può chiarire meglio l'affermazione.
    Quando una persona dice ad un'altra "Che furbo sei!", gli lancia un contenuto e gli dice come lo deve interpretare. Per questo, chi riceve il messaggio capisce al volo se lo deve interpretare in senso letterale, come ammirazione o in senso ironico, come commiserazione per la poca furbizia dimostrata. La stessa espressione può comunicare così significati opposti. Essi vengono decifrati a partire dal tono con cui sono pronunciati e dal tipo di rapporto che viene instaurato.
    In gergo, la relazione che interpreta il contenuto viene definita spesso come "metacomunicazione": comunicazione sulla comunicazione. La metacomunicazione rappresenta una componente fondamentale del processo comunicativo, capace di condizionarlo pesantemente o di sollecitarne una evoluzione positiva, nonostante i limiti di cui esso soffre.
    Essa percorre i sentieri misteriosi del rapporto interpersonale affettivo e emotivo: è costituita dall'interazione che lega persona a persona. L'interazione positiva genera tra le persone una condivisione di opinioni, di idee, di valori, di significati, perché scatena uno scambio emotivo di intensa reciprocità. E tutto questo attiva la possibilità di comunicare veramente, avvicinando il proprio mondo interiore a quello dell'altro e piegando l'uso soggettivo dei significati verso quello del proprio interlocutore.

    I problemi
    Non è di certo sufficiente accontentarsi di una comunicazione legata solo a rapporti interpersonali positivi. Non lo può essere la comunicazione educativa, per le responsabilità che premono sull'educatore. L'evangelizzazione non può di sicuro ridursi a questo tipo di comunicazione solo affettiva, per il dovere di annunciare l'evento salvifico di Gesù.
    Oggi però siamo minacciati dalla tentazione opposta: l'attenzione è concentrata solo sui "contenuti". Quando le cose non vanno per il verso giusto, viene incolpata la cattiva organizzazione dei contenuti: la poca coerenza con le esigenze della verità o la scarsa sistematicità con cui sono offerti, soprattutto in una stagione di larga soggettivizzazione. Anche la ricerca di rimedi corre spontanea verso una nuova sistemazione contenutistica: nella riaffermazione perentoria del già sperimentato o nella capacità di formulazioni rinnovate.
    Se la ragione dei "disturbi" non sta né unicamente né principalmente a questo livello, si comprende perché gli sforzi per risolvere i problemi dell'evangelizzazione danno frutti sproporzionati alla fatica.
    Nell'ambito pastorale, è in crisi soprattutto la qualità della relazione che lega adulti, comunità ecclesiale e giovani. Hanno poca incidenza i contenuti, perché risulta poco significativa la relazione.
    L'affermazione ha anche il suo risvolto. Là dove invece sembra che i contenuti siano incidenti e producano i risultati sperati (almeno da chi li pone in circolazione), la ragione non è principalmente il coraggio di riaffermare qualcosa che altri invece tacciono. Sta - mi sembra - nel tipo di relazione tra giovani e adulti che caratterizza queste istituzioni ecclesiali.

    Sul piano del messaggio

    Una seconda ragione di possibili disturbi è collocata sul piano del "messaggio".
    Devo spiegarmi subito, per evitare che il titolo utilizzato per questo paragrafo (crisi di messaggio) induca a visioni che contrastano con i rilievi appena fatti a proposito del primo disturbo.
    L'attenzione al messaggio non riguarda, prima di tutto, la formulazione dei contenuti dell'esperienza cristiana. Riguarda invece l'attenzione alle categorie culturali in cui essi sono espressi.
    È importante costatarlo, per reagire a quei modelli oggettivistici che riducono il messaggio ad una congruenza tra evento e formula.
    Anche a questo proposito va ricordato quello che ho sottolineato poco sopra. Sono anch'io preoccupato, come tanti altri, di qualche esperienza in atto che sembra distruggere la forza salvifica dell'evento evangelizzato, perché lo riduce a vuote espressioni linguistiche, affascinanti e persuasive, ma prive di correttezza teologica. In questo caso, il messaggio c'è (secondo il modo con cui l'intendo, come indicherò tra un attimo); ma non produce nulla di salvifico, perché non riguarda il progetto di Dio sulla nostra vita che Gesù ci ha rivelato. Penso invece, in questo momento, a quella evangelizzazione in cui le migliori formule teologiche non sostengono il processo salvifico, perché risultano soggettivamente scarse o prive di "messaggio".

    Le esigenze
    Cosa è dunque "messaggio"? Le scienze della comunicazione ci danno preziosi contributi per formulare una risposta.
    Per l'emittente, messaggio è quanto egli pensa, sente, immagina, ricorda, trasmesso attraverso determinati codici simbolici, che desume abitualmente dalla cultura in cui è inserito.
    Per il ricevente, invece, messaggio è solo quello che egli riesce a decifrare del messaggio che gli è trasmesso, perché solo quello che viene soggettivamente decifrato può essere veramente ricevuto e fatto proprio.
    La comunicazione si realizza solo quando tra i due interlocutori esiste una sovrapposizione semantica: la condivisione dei codici permette al ricevente di decifrare quello che gli è offerto e di sovrapporre così, almeno in parte, il suo mondo con quello dell'emittente.
    Il messaggio non è quindi il contenuto astratto della comunicazione, ma solo quanto è contemporaneamente inteso dall'emittente e decifrato dal ricevente. Se lo scarto semantico tra emittente e ricevente (nella doppia direzione di andata e ritorno della comunicazione) è molto elevato, non c'è messaggio: non c'è messaggio perché la sovrapposizione è ridotta o nulla.

    I problemi
    Nella comunicazione pastorale il "messaggio" è scarso perché sono fortemente problematiche le categorie culturali in cui esso è espresso.
    Il discorso si farebbe lungo. Non ho intenzione di allargare le mie analisi. Come ho dichiarato in apertura, desidero solo offrire una specie di prontuario su cui fare le concrete verifiche.
    Continuo quindi in modo schematico.
    La verifica sul messaggio e sulla sua qualità si opera confrontando le categorie culturali in cui gli eventi comunicati sono espressi con quelle in cui vivono, parlano e progettano gli interlocutori. Non si tratta di vedere chi ha ragione. In gioco non c'è il torto o la ragione; c'è la possibilità di una cosa molto più radicale: di intendersi e di confrontarsi.
    Quando tra il mondo interiore di chi comunica e quello di chi ascolta la distanza è troppo ampia, la comunicazione pastorale risulta scarsa di messaggio.
    Il richiamo alla evangelizzazione è facile e immediato. Purtroppo tante volte utilizziamo categorie culturali superate o (a torto o a ragione) contestate. E questo svuota il messaggio, nonostante la buona volontà e lo zelo di chi si lancia nell'evangelizzazione.
    Basta confrontare i modelli antropologici utilizzati con quelli oggi presenti e dominanti la nostra cultura. Per esempio:
    - nel rapporto passato-presente-futuro (si pensi all'attuale enfasi sul presente rispetto ai modelli in cui diciamo la fede, tutti concentrati sul passato; o alla diversa attenzione con cui guardiamo al futuro);
    - nel rapporto tra oggettività e soggettività;
    - nella percezione della funzione della corporeità, della festa, del dolore e dell'amore...
    - nel richiamo ad eventi e ad esperienze che risultano pochissimo significative per persone che sono di altre culture (si pensi ai "mescolamenti" interculturali e interetnici attuali) o che hanno maturato diverse visioni degli stessi fatti (si pensi al significato del "pane" per noi adulti che veniamo da tempi in cui il pane era il "grande sogno dei poveri" e per molti giovani di oggi a cui il pane non dice ormai quasi nulla...);
    - nel modo di comprendere il mistero ineffabile di Dio: il volto di Dio presentato nell'evangelizzazione risuona lontano dalle categorie che utilizziamo correntemente per descrivere le persone significative e importanti nella nostra vita (penso, per esempio, a dimensioni come "onnipotenza", impassibilità, "volontà di Dio"...).

    Sul piano dell'intenzionalità

    Analizzo un altro possibile disturbo. Lo faccio a partire da un'altra delle caratteristiche del processo comunicativo: il confronto delle intenzioni che spingono due interlocutori a scambiarsi informazioni.
    Quale intenzione profonda spinge i cristiani ad annunciare il vangelo del Signore Gesù con una sollecitudine che fa superare resistenze e barriere?
    È facile nascondere ragioni molto diverse dietro frasi solenni; ma le smascherature sono egualmente facili, appena siamo costretti a scegliere tra alternative differenti. Lo scontro tra opposte mentalità, se non viene vissuto all'insegna del confronto disponibile, diventa disturbo notevole al processo di evangelizzazione.

    Le esigenze
    Attraverso l'evangelizzazione noi serviamo la vita e la sua pienezza. Facciamo nostro il progetto di Gesù, impegnato con una passione che l'ha trascinato fino alla croce, a dare "vita piena e abbondante" a tutti (Gv 10, 10).
    Gesù lega profondamente il suo impegno per la vita di tutti al progetto di Dio. Sembra dirci: quello che io faccio perché tutti abbiano la vita, chiama in causa Dio.
    Dio vuole la vita piena e abbondante di tutti. Vuole la "salvezza" del mondo. L'aveva costruito felice, aperto a realizzazioni affascinanti. Gliel'abbiamo rovinato, nel nostro gusto sadico di voler essere noi i padroni a tutti i costi. Non si arrabbia; non manda tutti fuori casa con un "peggio per voi". Manda invece il suo Figlio, con l'incarico di rimettere tutto a posto, per la vita e la gioia di tutti.
    Il cristiano trova nel servizio alla vita il criterio per misurare fino a che punto vive autenticamente come discepolo di Gesù e il dato qualificante per decidere con quale intenzione impegnarsi nella evangelizzazione.
    Oggi però sono molte le persone schierate seriamente per la causa della vita. Tante di esse non hanno nessun interesse speciale nei confronti di Gesù. Lo considerano un uomo grande, che ha lasciato un segno nella storia confusa dei suoi tempi. Arrivano al massimo a riconoscere che i suoi insegnamenti sono anche abbastanza attuali. Ma tutto finisce lì. Non hanno nessuna intenzione di riconoscerlo Dio che ha messo le sue tende tra di noi.
    Il loro impegno per la vita non ha quindi nessuna risonanza cristiana. E non sarebbe di sicuro corretto e onesto andargliela a cercare a tutti i costi.
    Evangelizzando cerchiamo il confronto o lo scontro? Dobbiamo affermare tanto la specificità dell'annuncio del Vangelo da evitare ogni contaminazione con altri modelli culturali? Ma anche se cerchiamo compagnia e collaborazione attorno alla vita e alla sua promozione, possiamo rinunciare tranquillamente ad ogni esigenza di specificità?

    I problemi
    Se confrontiamo questa radicale esigenza con la prassi di evangelizzazione, riusciamo a percepire i termini del problema.
    Il modello tradizionale era fortemente deduttivo e oggettivistico: il progetto di Dio è il luogo fondamentale della produzione di senso; solo chi lo accoglie nella fede possiede il senso vero delle cose e della sua vita.
    Questo modello è entrato in crisi, quando nella nostra cultura sono spuntati i primi germi di secolarizzazione.
    Nella evangelizzazione si è sentito il bisogno di sostituire un modello più dialogico e più rispettoso dell'autonoma responsabilità umana nella produzione di senso.
    Certamente questo confronto non è stato semplice. E non sono mancati i rischi di una riduzione della fede a semplice orizzonte ultimo di senso, nel cui fuoco collocare il senso prodotto dalla autonoma ricerca umana. La fede, deprivata di una profezia propria da produrre, ha smarrito la sua forza interpellante e si è ridotta a semplice acritica risignificazione globale di un progetto che l'uomo ha elaborato, con saccente presunzione, nel chiuso della sua autonomia.
    La speranza evangelica, smontata di radicalità, ci ha lasciato con le nostre angosce. E molti giovani hanno abbandonato l'esperienza cristiana, affascinati dai profeti delle cose penultime.
    Nelle comunità ecclesiali si avverte oggi la responsabilità di produrre una evangelizzazione in cui la fede sappia offrirsi come rilettura, interpretazione e riespressione, anche istituzionale, nel segno costitutivo della croce, dell'autonoma ricerca di senso.
    Questa scelta è tutt'altro che pacifica e praticabile.
    L'autonoma produzione di senso, la personale e collettiva ricerca di vita e di felicità, sono oggi espresse in termini frammentati, provvisori, secolarizzati e pochissimo segnati dal segno costitutivo della croce.
    C'è posto per un progetto organico, sicuro e strutturato, come si pretende la fede delle comunità ecclesiali? Il confronto dovrà risultare perdente in partenza, aperto eventualmente solo a quei giovani che rinunciano ad essere uomini di una società e di una cultura complessa e pluralista?
    Come si vede, le difficoltà sono tutt'altro che piccole.
    A qualcuno bastano per giustificare il tentativo di ritornare verso i vecchi modelli indottrinanti, che dimenticavano la vita quotidiana o la comprendevano solo dalla prospettiva sicura di quanto risultava già tutto ben organizzato e determinato.
    Anche l'esplicito riferimento alla vita non è privo di serie difficoltà. Siamo tentati di fare spazio solo alla soggettivizzazione incombente o di vanificare ogni strutturazione veritativa dell'esperienza cristiana.
    Le cose sono poi complicate dal fatto che gli strumenti verso l'oggettività sono abbondanti, sperimentati, autorevoli. Quelli che potrebbero spalancare l'evangelizzazione verso nuove prospettive, sono, al contrario, scarsi, poco elaborati e tutt'altro che perfetti.

    Sul piano dello strumento espressivo

    E così mi sono introdotto ad un nuovo possibile disturbo: quello relativo al tipo migliore di strumenti comunicativi di cui poter disporre in vista dell'evangelizzazione.
    Ogni comunicazione avviene sempre attraverso dei "segni": essi sono il qualcosa che viene detto. Sono "segni" perché rendono presente una realtà più profonda, e nascosta, manipolabile solo attraverso le sue rappresentazioni simboliche.
    L'evangelizzazione non solo partecipa a questa logica, perché è una comunicazione identica a tutte le altre comunicazioni con cui ci scambiamo ragioni per vivere e per sperare. Vi partecipa in un modo tutto speciale perché l'oggetto che la parola vuole esprimere è costitutivamente mistero grande: l'amore di Dio che si rende vicino all'uomo e la decisione della persona di piegare la propria libertà per accogliere questo amore.
    Siamo nel cuore del processo di comunicazione e, di conseguenza, al centro di quei possibili disturbi che lo rendono poco incidente nella nostra situazione culturale.

    Esigenze
    Quali segni possono produrre le comunità ecclesiali per evangelizzare i giovani di oggi? Esse possiedono qualcosa da offrire e da far analizzare, in cui si condensi la proposta di senso che è la fede per l'esistenza quotidiana?
    Se vogliamo conoscere un autore, studiamo le sue opere. Esse sono il "documento" da analizzare. Esiste un documento in cui i giovani possano trovare il progetto di esistenza cristiana, come proposta di senso per la loro vita? Ho l'impressione che, tolte alcune eccezioni che accentuano maggiormente la funzione logico-argomentativa dell'annuncio cristiano, ci sia oggi un consenso diffuso attorno alla consapevolezza che il segno da produrre per evangelizzare non è un messaggio, ma l'esperienza viva di una persona nella comunità dei credenti che si fa messaggio. Questa esperienza, come ricorda anche Evangelii nuntiandi (21 e 22), è fondamentalmente una esperienza profana, una esperienza di produzione di vita nuova.
    La dimensione religiosa è l'interpretazione di verità, quella che dà le ragioni dei gesti di speranza compiuti, quando si allarga lo spazio della vita e si restringono i confini della morte.
    Non escludo che anche le esperienze tematicamente religiose possano assolvere questa funzione evocativa. Ma non riesco a pensarle come le uniche e nemmeno come quelle determinanti, soprattutto in rapporto allo stato attuale della condizione giovanile.
    Si tratta però di una "ragione" che ha una sua precisa articolazione culturale e possiede una sua codificazione ormai sedimentata nei documenti della fede della comunità ecclesiale. Questa accumulazione dottrinale permette di dire la stessa fede, nella sua costitutiva ortodossia, nei differenti luoghi e nello sviluppo del tempo.

    I problemi
    Siamo a un punto concreto e fortemente problematico.
    I grandi temi della salvezza e della fede non sono prima di tutto proponibili perché vengono formulati correttamente, ma perché sono sperimentati in una comunità che fa di questi "concetti" le ragioni della sua esistenza e della sua presenza nella storia.
    Come è possibile aiutare i giovani, privi di memoria culturale, a ricostruire dal frammento di una esperienza di vita il quadro complessivo che la giustifica? Come si può assicurare l'oggettività e la storicità dell'evento cristiano, praticando un approccio così disorganico?
    Per molti giovani inoltre l'esperienza di produzione di vita nuova possiede già le sue buone ragioni. Perché interrogarci su ragioni più profonde, se bastano già quelle elaborate autonomamente? Come si può notare dall'accavallarsi di questi interrogativi, il problema che stiamo analizzando nasce come immediata conseguenza della decisione di privilegiare l'esperienza sul messaggio nella evangelizzazione dei giovani. D'altra parte i fatti dimostrano l'impraticabilità dell'ipotesi contraria: nell'attuale contesto culturale molto difficilmente un messaggio può produrre da solo quella decisione vitale di lasciarsi incontrare dall'Evento evangelizzato nell'obbedienza al messaggio in esso contenuto, che riconosciamo unico esito corretto al processo di evangelizzazione.

    Sul piano della contestualità

    Quest'ultimo problema ha un movimento diverso dai precedenti. Funziona come loro cassa di risonanza, in positivo o in negativo. Quando viene risolto positivamente, le difficoltà indicate nelle pagine precedenti risultano meno drammatiche. In caso contrario, si accentua la loro forza problematica.

    Esigenze
    Incominciamo con la comprensione più ampia del dato e delle esigenze relative.
    Se, durante una conferenza, all'improvviso il relatore chiede di dare la definizione di "volume", mette in crisi i suoi ascoltatori.
    Nella lingua italiana, "volume" suona come una voce che ha molti significati. In gergo si dice: è un termine "polisemico".
    Dicendo "volume", posso pensare alla misura di un solido nello spazio, ad un libro, alla quantificazione in decibel di un rumore. Chi domanda la definizione di volume, senza orientare nella polisemia, pone un compito che scatena un grave disturbo di comunicazione.
    Se invece un professore di matematica introduce la sua lezione ricordando di voler spiegare le regole per ottenere i volumi, tutti capiscono di che cosa ha intenzione di parlare. In questo caso, infatti, il contesto ha elaborato la polisemia.
    Quando le parole hanno molteplici significati, è possibile una comunicazione non equivoca, solo se esiste un contesto che permetta di selezionare tra i possibili significati quello che l'emittente desidera proporre al ricevente.
    Questa funzione non è di semplice filtro esterno. Permette di elaborare la polisemia soprattutto perché rappresenta un luogo di identificazione. Entra, in qualche modo, nel merito dei processi di comunicazione: aiuta le persone a far propri significati, valori, modelli, orientamenti di vita, diffusi in quella struttura.
    In questo senso il contesto opera come struttura di riferimento.
    Nella comunicazione pastorale esistono difficoltà di messaggio, di contenuti, di significatività: la comunicazione risulta così disturbata. Quando la comunicazione avviene in strutture capaci di sostenere l'identificazione del soggetto, i disturbi oggettivi sono meno preoccupanti e più facilmente controllabili. Il soggetto raffina la sua capacità di comprensione perché è interessato al processo.

    I problemi
    Quando la comunità cristiana rappresenta per i giovani una reale struttura di riferimento il processo di iniziazione alla esperienza cristiana potrà svilupparsi in modo corretto, anche se per il momento non è ancora tutto perfetto. I giovani si sentono dentro la comunità, accolti e protetti nel suo grembo materno. Forse non conoscono ancora tutti i contenuti dell'esistenza cristiana che la comunità propone. Forse sono attraversati da dubbi e incertezze. Anche la traduzione dell'esperienza di fede in esperienza etica soffre di troppi tradimenti. Resta però il dato fondamentale dell'identificazione con la comunità. All'interno della comunità, i giovani potranno crescere progressivamente, in conoscenza e in coerenza.
    Le cose vanno veramente così? Ho grossi dubbi.
    Troppe comunità ecclesiali si sono ridotte ad un crocevia disarticolato e disimpegnato, in cui scorrono le proposte le più disparate. Così esse non riescono a diventare luogo di identificazione. E, di conseguenza, non possono risultare quella indispensabile struttura di riferimento che riempie di vita i segni linguistici di sempre e produce nuovi segni per esprimere nuove parole di vita.
    In una situazione di diffusa complessità le agenzie di riferimento sono tante e le risorse disponibili troppe per diventare significative. Ogni persona si ritrova da sola, costretta a decisioni impegnative in un magma confuso, dove le proposte si accavallano disordinate e dove domina la logica del fascino, spesso costruito ad arte.
    Le appartenenze diventano deboli e selettive. Si indebolisce persino quel filtro interiore che ciascuno di noi si va progressivamente ricostruendo nel profondo della propria interiorità. L'identità va in crisi, per poter sopravvivere meglio in una stagione di crisi.
    Qualcuno cerca di reagire, attivando un controllo selettivo sulle risorse o spendendo costi molti alti per ricostruire personalità sicure e rigidamente coerenti. Esse sopravvivono finché si riesce a resistere al chiuso. Troppe volte, basta un colpo di aria nuova per ributtare tutto violentemente alla situazione di partenza. E quelli che ce la fanno... sono pochi: troppo pochi per pensare che l'ipotesi educativa che sta a monte rappresenti una via praticabile per un progetto di pastorale aperto verso i più poveri, per esserlo veramente verso tutti.

    CONCLUSIONE

    Le lunghe riflessioni su cui mi sono soffermato hanno messo in evidenza quanto il problema possa apparire serio, quando ci si rende conto con esattezza del suo significato. È in gioco la vita, il suo senso, le ragioni che ci spingono a fidarci di essa, oltre la disperazione della morte. Su questa esigenza si radica l'annuncio del Signore.
    In una situazione di diffusa crisi di speranza, come è quella che stiamo vivendo, i giovani sfidano le comunità ecclesiali sul terreno in cui esse affondano le ragioni più intime della loro presenza evangelizzatrice. Spesso la sfida è intessuta di silenzio o, peggio, di indifferenza. Non può però lasciare tranquilli chi, come noi, sa di possedere un evangelo che è sorgente di vita.
    Come comunicare quest'evangelo, perché sia ancora "evangelo di vita"?
    La mia riflessione si è concentrata soprattutto sui problemi. Sono convinto che molte risorse vadano spese proprio su questa frontiera. Compresi i termini della questione, diventa più agevole cercare le linee di intervento.
    Non pretendo di aver districato tutte le difficoltà. Come ho ricordato in apertura, mi sono preoccupato solo da dare una specie di quadro di riferimento per il confronto e la verifica personale e comunitaria.
    Compresi i problemi e individuate le cause, la fatica incomincia, appassionata e urgente come quella che ha per oggetto il consolidamento della vita e della speranza. Molte esperienze felici rassicurano che non sarà di certo né vana né vuota.


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