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    Segni della presenza dello Spirito nella vita dei giovani



    Mario Pollo – Riccardo Tonelli

    (NPG 1997-05-13)


    RICONOSCERE IL MISTERO DALLE SUE TRACCE

    Lo sappiamo e lo confessiamo con gioia e trepidazione: l’esperienza dello Spirito partecipa del mistero grande e incomprensibile che è Dio. Ce lo dobbiamo ricordare continuamente per vivere il desiderio di conoscere e incontrare la ragione e il fondamento del nostro vivere e sperare nella tensione tra la ricerca di chi si è già pienamente reso disponibile, intimo a noi stessi più di quello che lo possiamo essere noi per noi stessi, e il riconoscimento della sua radicale inconoscibilità e di quell’assoluto nascondimento che ci libera da ogni pretesa di penetrare a fondo l’oggetto della nostra ricerca.[1]
    Nel nostro linguaggio abituale, consideriamo nascondimento e manifestazione due dimensioni contraddittorie, perché ci piace possedere e dominare l’oggetto delle nostre conoscenze. Non è così però nella nostra esperienza di credenti: Dio si rivela a noi e resta mistero grande e indisponibile; nessuna parola lo può esprimere totalmente, anche se si è fatto parola per essere vicino e solidale alla nostra quotidiana avventura.
    La storia dei discepoli di Gesù, come è testimoniata nei testi del Nuovo Testamento, è tutta piena di questa convinzione. Parlano di Dio, facendo continuamente riferimento a Gesù di Nazareth. Riconoscono persino, in polemica accesa con i modelli religiosi in cui erano cresciuti, che solo nel suo volto e nella sua parola il mistero si è fatto vicino e conoscibile.[2]
    In questo stesso stile ci rivelano lo Spirito. Parlano del dono che Gesù ha regalato loro per consolidare l’impegno di annunciare il Vangelo, raccontando quello che quotidianamente constatano come frutto di una presenza misteriosa e sovrabbondante. Non si preoccupano eccessivamente di dare ragioni elaborate di questa presenza, perché sta soprattutto loro a cuore mostrare ciò che lo Spirito ha operato in essi e continua a operare in noi per farci essere e vivere come Gesù: figli del Padre che è nei cieli, capaci di gridargli «Abbà», vivendo nel «corpo di Gesù» che è la Chiesa.
    Il tentativo di verificare se e fino a che punto l’esperienza dello Spirito è presente nel vissuto dei giovani, è condizionato da questo limite ed è orientato da questa convinzione. Non possiamo, infatti, cercare un evento che è mistero grande né possiamo concludere sulla sua presenza o sulla sua assenza, sulla scorta degli indicatori con cui dichiariamo presente o assente una persona nell’esistenza di un’altra. Dobbiamo percorrere la via dei segni, pur riconoscendo che essi manifestano e nascondono nello stesso tempo.
    Nella prima parte verifichiamo i segni espliciti e diretti della presenza dello Spirito nel complesso mondo giovanile attuale, così come appare dalle ricerche (soprattutto da quella realizzata da noi stessi sulla «esperienza religiosa dei giovani italiani») e come può essere constatato attraverso lo sguardo, appassionato e caldo, della condivisione.
    Nella seconda parte studiamo invece i segni impliciti e indiretti, con uno sguardo che è guidato da alcune constatazioni di tipo teologico, su cui ci fermeremo prima di affrontare il vissuto giovanile. Esse raccolgono una importante convinzione: «Lo Spirito c’è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario, sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva anche là dove mai avremmo immaginato».[3]
    Misurati con l’evento che vogliono significare, non è detto che i primi siano più probatori dei secondi.


    1. I segni diretti della presenza dello Spirito

    Incominciamo la prima verifica, cercando i segni diretti ed espliciti della presenza dello Spirito nella vita e nell’esperienza dei giovani. Ci muoviamo in due momenti:
    * nel primo momento consideriamo l’universo giovanile, nella sua globalità, secondo le generalizzazioni che il campione statistico utilizzato permette di costruire;
    * nel secondo momento restringiamo lo sguardo su alcune frange, particolarmente significative, del mondo giovanile alla ricerca di eventuali manifestazioni dell’esperienza dello Spirito, oggi.

    I GIOVANI PARLANO DELLO SPIRITO

    La parola «Spirito Santo» compare nelle 120 storie di vita che sono state raccolte per la ricerca sull’esperienza religiosa dei giovani italiani solo 17 volte in altrettante schede.[4] Occorre tenere conto che il numero totale delle schede che formano l’ipertesto utilizzato per l’analisi della trascrizione delle storie di vita è composto da ben 21.883 schede.
    Delle 17 schede in cui compare la parola «Spirito Santo», 12 fanno parte di storie di vita di giovani appartenenti a gruppi o ad associazioni ecclesiali e 5 di giovani lontani.
    Passando dal conteggio delle schede a quello del numero degli intervistati che hanno usato l’espressione «Spirito Santo», il numero scende a 11 di cui 7 sono giovani appartenenti a gruppi e associazioni ecclesiali e 4 sono giovani lontani.
    Questo significa che poco meno di un decimo degli intervistati ha parlato dello Spirito Santo. Anche considerando solo i giovani che frequentano associazioni e gruppi ecclesiali, la percentuale di coloro che ne hanno parlato cresce di pochissimo perché arriva solo all’11,7%.
    Le cose non cambiano molto se si prende in considerazione la parola «spirito». Infatti essa compare solo in 82 schede sempre su un totale di 21.883 schede complessive.
    Occorre però tenere conto che nella stragrande maggioranza di queste 82 schede la parola «spirito» è usata nel senso di spirito di iniziativa, di corpo, o per indicare vitalità, energia, tonicità, ecc.
    Se si tiene conto che la parola «Dio» è usata 1.456 volte e che i nomi «Gesù» e «Cristo» compaiono separatamente 347 volte e 50 volte insieme, si ha una ulteriore conferma della rarità dell’uso delle parole «Spirito» e «Spirito Santo» da parte degli adolescenti e dei giovani che hanno raccontato la loro storia di vita.
    Da questi dati sembra proprio che la parola Spirito Santo tra i giovani, anche tra quelli più vicini alla Chiesa, non goda di molta popolarità.
    Se a questo si aggiunge la considerazione che nelle storie di vita in cui è avvenuto il conteggio dell’uso della parola Spirito Santo i giovani parlano diffusamente della loro esperienza religiosa, allora si deve dedurre che lo scarso utilizzo di questa parola deve essere considerato un indicatore significativo.
    Una ipotesi per spiegare questa assenza può essere quella che la secolarizzazione non si è limitata a espungere, giustamente, il cosiddetto sacro magico dalla vita quotidiana, ma ha intaccato la capacità delle persone di concepire e di sentire la presenza di ciò che appartiene alla dimensione del non sensibile e dello spirituale.
    Questa ipotesi, tuttavia, si scontra, almeno apparentemente, con la constatazione che nella nostra società vi è una forte diffusione delle pratiche magiche, esoteriche e spiritistiche, insieme alla ricerca di forme disincarnate di spiritualità.
    La risposta a questa contraddizione può essere data con l’osservazione che le forme magico-esoteriche sono praticate da quella minoranza di persone che nutre una irrefrenabile nostalgia per il sacro magico e che non si collocano all’interno della tradizione cristiana ma al massimo nella sua deriva, costituita dalla religiosità popolare o dalle contaminazioni new age.
    Un’altra ipotesi, non sostitutiva ma complementare della prima, indica nel rumore, nella fretta, nei ritmi di vita sincopati, nella caoticità di cui spesso si ammanta la complessità, nella ricerca ossessiva della risposta ai bisogni e alla soddisfazione del desiderio gli elementi che impediscono l’ascolto dello Spirito.
    Una terza ipotesi può essere quella dell’offuscamento della concezione trinitaria cristiana a favore di una concezione monoteistica tradizionale oppure di tipo filosofico che rende Dio un principio astratto e impersonale, che è lo stesso che sta a monte di ogni manifestazione religiosa umana.
    Non è un caso, infatti, che le parole più usate dai giovani per parlare della loro esperienza religiosa sia «Dio» seguita a molta distanza da «Gesù» e ancor più grande distanza da «Spirito Santo».
    La debolezza del fondamento dottrinale della fede cristiana non lascia stupiti più di tanto se si considerano certi modi di affrontare l’educazione religiosa e la catechesi che sono presenti negli ambiti ecclesiali.
    Un esempio di questo modo di porsi lo si ritrova nella testimonianza di un giovane educatore e catechista dell’ACR che molto serenamente, perché privo di dubbi, afferma:
    «Non ho mai parlato di comandamenti, non ho mai parlato di Credo, oppure dei sette doni dello Spirito Santo, ma ho sempre parlato di Madre Teresa, di Don Bosco, e di altre cose che potevano interessare i ragazzi. Ho eliminato i quaderni, ho eliminato i libri, ho eliminato tutto, proprio perché a quella età è bello dare delle nozioni, cercare di attirare i ragazzi con degli argomenti interessanti e non sottoporli a dei discorsi troppo profondi e impegnativi».
    Nelle poche schede in cui se ne parla emergono sei diverse esperienze dello Spirito Santo. L’utilizzo della parola esperienza non è casuale, perché sta a indicare che nelle storie di vita quasi sempre i giovani non si sono limitati a esprimere la loro concezione astratta dello Spirito ma l’hanno sempre incarnata nel vissuto di una esperienza diretta o indiretta della sua presenza.

    * Lo Spirito Santo è colui che dà gli orientamenti alla Chiesa e che parla attraverso la gerarchia.
    Un giovane ventiquattrenne appartenente a un gruppo ecclesiale esprime, ampliandola alquanto, una concezione classica del rapporto tra Spirito Santo e Chiesa. Questo è l’unico riferimento allo Spirito che è presente nella sua storia di vita.
    «Anche se qualcosa non mi va bene, cerco sempre di valutarla e di ragionarci un po’. Ritengo infatti che è sempre lo Spirito Santo che parla attraverso il Papa, i Vescovi, i sacerdoti. Quindi se una cosa è dettata dallo Spirito Santo non può essere sbagliata. Anche se qualcosa non mi va bene cerco comunque di seguirla, cercando di ragionare e di capire che cosa mi vuole dire in quel momento la Chiesa».

    * Lo Spirito Santo è colui che rende possibile la convivenza di persone diverse senza conflitti e che dà alle persone la capacità di perdonare.
    È interessante osservare come questo giovane appartenente, dall’esperienza relazionale del suo gruppo ecclesiale abbia percepito la presenza dell’azione dello Spirito.
    «Noto molte volte che ci sono delle persone che volentieri si scontrerebbero tra loro. È inevitabile che in un gruppo di 20 persone ci siano anche dei litigi, che qualcuno passi il limite. Ma Dio in quel momento mi sta donando anche un rapporto di amicizia con queste persone. Quindi dietro c’è l’opera dello Spirito Santo, anche se in quell’istante siamo capaci di parlarci in faccia. Forse in questo ci può essere un po’ di ipocrisia».
    Per realizzare una convivenza segnata dall’amore di cristiano, e non solo nel proprio gruppo ecclesiale, è fondamentale la capacità di perdonare e di chiedere perdono.
    Questa capacità secondo il vissuto di questo sedicenne appartenente è un dono dello Spirito. L’uomo senza questo aiuto dello Spirito non riuscirebbe a perdonare.
    «Io credo che chiedere perdono e farsi ultimo davanti a una persona che tu pensi abbia sbagliato nei tuoi confronti, è una cosa bellissima. Il perdono però per me non deriva da una persona normale, cioè io come uomo non sono capace di perdonare una persona che mi ha fatto torto, ma solo grazie all’aiuto dello Spirito».

    * Nessuna differenza tra Dio, Spirito Santo e Gesù Cristo.
    Nelle storie di vita ci sono tre giovani che esprimono la loro concezione del mistero trinitario.
    La prima è quella di un giovane non appartenente a gruppi e associazioni ecclesiali, che introduce confusamente il tema dell’identità unica tra Padre, Figlio e Spirito Santo riconoscendo però subito l’esistenza del mistero trinitario.
    In fondo vedo che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo costituiscono un’unica identità sebbene sia un mistero che io non riesco ancora a spiegare.
    Subito dopo questa affermazione c’è quella del giovane, questa volta appartenente, che afferma molto tranquillamente, senza essere minimamente sfiorato dal dubbio, che lui non vede alcuna differenza tra Padre, Figlio e Spirito Santo perché, come dice testualmente: «per me è uno».
    La formulazione linguistica usata da questo giovane lascia qualche dubbio sul fatto che l’uno a cui fa riferimento si riferisca all’unità delle tre persone e non all’esistenza di un unica Persona.
    Questo sospetto è rinfocolato dal fatto che questa concezione della Trinità è espressa all’interno della concezione di un Dio amico che non riesce a percepire come padre. Questo anche a causa di suo padre che non deve aver testimoniato una immagine di sé in grado di attivare la transazione verso la Paternità Divina.
    «Dio non lo sento lontano, anzi molto vicino: ho come l’impressione che Dio voglia farmi capire che sto sbagliando, che magari gli sto attribuendo colpe che non ha; lo sento di più come amico, meno come padre, forse perché la figura del padre è per me una figura severa. Mentre Dio, nonostante tutto, anche se ho paura del giudizio finale, lo vedo sempre come un amico, a cui posso rivolgermi e parlare. Cosa che io non faccio con mio padre. Io non vedo alcuna differenza tra Dio, Gesù e lo Spirito Santo: per me è uno, non faccio distinzioni. Dio forse, a differenza di un amico, è sempre disposto a capire, a perdonare, non è vendicativo come lo potrebbe essere un amico quando perde la pazienza».
    La terza formulazione è quella di una giovane anch’essa appartenente ai gruppi ecclesiali che è ancora più confusa. Infatti da questo brano, che è l’unico in cui la giovane parla dello Spirito Santo, sembra instaurarsi una sorta di sillogismo per cui lo Spirito Santo viene prima identificato con l’angelo custode, poi questi con lo Spirito di Gesù, per cui alla fine sembra esservi una identità dell’ultimo termine con il primo e di entrambi con l’angelo custode. L’unica speranza è che si tratti semplicemente di una formulazione confusa a livello linguistico che inganna il lettore.
    «Per quanto riguarda la presenza reale e concreta, io sento molto vicino lo Spirito. Lo sento proprio come dono. Ecco, oggi pensavo all’angelo custode. Quando ero piccola ci credevo sul serio all’angelo custode, che ce l’avevamo sempre dietro, che ci indicava la via. Poi non so per quale motivo è passato di moda. Invece ultimamente sto pensando che in fondo ognuno di noi... non so spiegarti se è l’angelo custode, però c’è una presenza che io poi identifico con lo Spirito di Gesù, che è vicina. Fisicamente vicina no, non ho questa sensazione. Qualche volta quando prego e invoco la presenza fisica di Gesù».

    * Il silenzio come luogo di ascolto della voce dello Spirito Santo.
    C’è un giovane appartenente ai gruppi ecclesiali che afferma di riuscire alcune volte ad avere un dialogo con Dio. Dialogo nel senso che sente delle risposte a ciò che egli dice a Dio. Questo giovane ama pensare che queste risposte non siano il frutto di una sua allucinazione acustica ma che esse siano la voce dello Spirito Santo. Viene espressa qui, indirettamente, la convinzione che lo Spirito Santo sia anche la comunicazione di Dio all’uomo. L’altro aspetto caratteristico che compare in questa storia di vita è quello che viene espresso con la citazione di don Mazzolari che mette in evidenza il fatto che Dio parla nel silenzio e che, quindi, la voce dello Spirito può essere udita quando si fa silenzio ovvero quando si passa dall’agire tumultuoso e rumoroso alla contemplazione di Chi si vuole realmente ascoltare.
    «Spesso mi trovo a parlare con Dio. Alcune volte è un monologo, spesso è soltanto uno sfogo. Altre volte è un dialogo, mi sembra che vengano delle risposte. Non voglio pensare che sia solo la mia immaginazione, la mia sensibilità, ma che sia Lui, la voce dello Spirito Santo a parlarmi. Certe volte magari dovrei ascoltarlo e non lo faccio».
    «Mi ricordo una frase di don Primo Mazzolari che diceva che Dio ci parla nel silenzio. Spesso il peccato che facciamo è proprio quello di non fare silenzio e ascoltare Dio. Il chiasso che facciamo, la nostra distrazione, il chiasso dei nostri divertimenti, il chiasso nella nostra parrocchia durante i lavori parrocchiali spesso ci fanno dimenticare di ascoltare Dio. Comunque io sono convinto che io gli parlo e lui mi risponde: il dialogo c’è».

    * Lo Spirito Santo è come una luce che scende nel profondo.
    Dovendo cercare un’immagine per descrivere lo Spirito Santo questa giovane ricorre a quella della luce che scende nella profondità della persona. Più forse dell’immagine della luce è stimolante il concetto che la presenza dello Spirito è visibile attraverso segni come quello della libertà e della realizzazione della persona. Questo perché queste due conquiste umane possono essere raggiunte solo attraverso la rinuncia alla fiducia prometeica in sé e al contemporaneo abbandono all’azione dello Spirito.
    «Come si fa a spiegare lo Spirito Santo? Sicuramente è una luce che ti scende nel profondo. Una cosa che uno può distinguere quando c’è o quando non c’è. Perché quando io dico che mi sento libera e realizzata, credo anche che queste cose non siano mie, cioè non dipendano dalla mia buona volontà, dalla mia fatica, ma dallo Spirito Santo».

    * La sperimentazione nel giorno della Cresima della discesa dello Spirito Santo.
    Ci sono due ragazze, una di sedici e un’altra di ventiquattro anni, che nel giorno della Cresima hanno sentito, e non solo a livello cognitivo ma esistenziale profondo, la discesa dello Spirito. E questo è avvenuto, come dice la giovane ventiquattrenne, senza che vi fosse stata una catechesi particolare.
    Nell’adolescente l’esperienza è stata talmente intensa che l’ha indotta a chiedere di non lasciare la Chiesa e la fede. È curioso che nella richiesta di non lasciare la Chiesa fosse compresa anche quella di non lasciare quella particolare chiesa parrocchiale.
    L’esperienza della discesa dello Spirito in lei ha sacralizzato in modo particolare il luogo in cui essa è avvenuta. Una notazione ancora. Non è casuale che le uniche persone che hanno vissuto l’esperienza della discesa dello Spirito nella cresima siano femmine.
    «Quando ho fatto la Cresima, proprio al culmine della cerimonia, stranissimo, non lo so, ho sentito come se lo Spirito Santo scendesse in me. Siccome io l’ho sentito, per me è stato un giorno bellissimo, credo. Così proprio in quel giorno della Cresima, l’ho fatta il 21 novembre del ‘92, dopo quella sensazione dello Spirito Santo che sentivo scendere, io ho detto a Dio di aiutarmi a non lasciare la chiesa, quella in particolare, e in generale di non lasciare la fede».
    E quindi anche lì, nonostante questa diversità, si è venuto a creare un bel gruppo. Probabilmente della cresima la cosa più importante che mi è rimasta è proprio la presenza dello Spirito Santo, non perché ci fosse stata una particolare catechesi, anche se sicuramente ne avevamo capito l’importanza proprio grazie alla catechesi, ma perché credo fosse l’atmosfera, l’importanza data al momento in cui ricevevo la cresima.

    Conclusione

    Dai brani delle storie di vita esaminati emerge una sorta di frammentazione dell’esperienza dello Spirito Santo. Infatti ognuno l’ha vissuta all’interno di uno dei frammenti esistenziali nei quali si declina la sua esistenza, senza però attuare quel processo di transazione necessario a collegare il frammento a un quadro teologico più generale.
    Leggendo questi vissuti dei giovani intorno allo Spirito Santo si ha, infatti, l’impressione di vederli alle prese con un poliedro complesso di cui ognuno di essi riesce a vedere solo una o due facce, per cui pensa che il poliedro sia tutto in quelle poche o unica faccia che ha visto.
    È questo certamente un segno caratteristico della cultura sociale della complessità in cui i giovani sono immersi. Tuttavia non è solo un segno della complessità in quanto è anche il segno di una educazione religiosa che non riesce a fornire transattori in grado di aiutare i giovani a passare dal frammento al tutto, dal particolare al sistema.

    I PERCORSI ATTUALI DELL’ESPERIENZA DELLO SPIRITO

    Con la formula «percorsi», messa a titolo, indichiamo i luoghi, i cammini e le esperienze in cui possiamo riconoscere la presenza dello Spirito, in modo quasi diretto, nel mondo giovanile. Vogliamo riconoscere senza giudicare, anche se un’opera di valutazione è indispensabile. Qualche cenno sarà offerto nella seconda parte, destinata quasi a suggerire dei criteri valutativi.
    Inoltre, come è stato già ricordato, in queste note il riferimento è a frange di giovani: non ci preoccupa la loro consistenza ma la significatività dell’esperienza.

    Un atteggiamento di fondo: una ricerca di spiritualità

    Lo constatiamo e lo ripetiamo, con gioia crescente, tutti i giorni. A dispetto di coloro che avevano preconizzato la fine immatura di ogni esperienza religiosa, è facile constatare una presenza diffusa e pervasiva di «bisogno» e di «esperienza» di spiritualità.
    Spiritualità dice «vita nello Spirito». La ricerca di spiritualità è quindi una forte esperienza dello Spirito.
    I segnali saltano agli occhi quotidianamente. Sono più forti di ogni giudizio con cui cerchiamo di verificarli e valutarli. Solo per fare qualche esempio:
    • la forte ed esigente domanda di senso di molti giovani;
    • il bisogno di silenzio, di tempi prolungati di preghiera, la ricerca di esperienze di festa, di silenzio... e un originale rapporto con la natura, anche attraverso esperienze estetiche;
    • la disponibilità a servire i poveri nel nome del Vangelo;
    • la fame di Parola di Dio e la scoperta del significato per la propria vita di tante pagine del Vangelo;
    • la forte presenza di Dio (a livelli diversi) nella vita personale: spesso come amico, padre misericordioso, fonte di speranza, qualcuno con cui «parlare» e, magari, «litigare»;
    • gli incontri e le convocazioni giovanili, affollati oltre il prevedibile e vissuti con una intensità che non può essere assolutamente ridotta alla sola avventura insolita;
    • il richiamo all’esperienza del dolore e, persino, alla morte come inquietudine, confronto, paura... speranza;
    • la fiducia nelle persone al di là di frequenti elementi di discriminazione, fino a riconoscere nella relazione con l’altro un principio di trasformazione della propria esistenza.

    Riscoperta dei luoghi «istituzionali»

    Sembrava che il conflitto tra istituzione e carisma fosse insanabile. Qualcuno aveva ormai concluso con la riappropriazione dell’esperienza dello Spirito solo all’esterno dei luoghi istituzionali. Invece assistiamo oggi alla riscoperta nei luoghi istituzionali della presenza dello Spirito. Non è possibile generalizzare la constatazione e di sicuro la riscoperta funziona ed è intensa quando sono presenti condizioni precise, che restituiscono all’istituzione il suo respiro creativo e liberante. Il fatto, però, indiscusso, mostra, in concreto, che lo Spirito agisce senza bisogno di produrre clamore, proprio perché accoglie il ritmo della quotidianità ecclesiale.
    Facendo riferimento ai risultati della nostra ricerca sulla esperienza religiosa, possiamo citare qualche esempio:
    • la centralità personale della vita sacramentale e liturgica in cui è superata la dicotomia tra sacro e profano: basta pensare all’impegno con cui vengono vissuti alcuni sacramenti (matrimonio) e sono realizzate le celebrazioni eucaristiche;
    • la riscoperta di alcuni testi della Bibbia (alcuni Salmi, pagine del Vangelo...), come documenti importanti di riferimento personale;
    • anche se il riferimento a Gesù Cristo e alla sua presenza tra noi (dunque: al suo Spirito) non riporta sempre verso le autentiche esigenze teologiche, il richiamo alla sua persona è frequente, intenso, carico di influsso nella vita personale;
    • l’appartenenza fedele alla comunità ecclesiale: persino qualche giudizio negativo nei confronti dell’istituzione nasce da attese ampie nei suoi confronti;
    • una diffusa fiducia verso la vita che si traduce in speranza e in impegno: anche l’impegno sociale e politico corre su questa attenzione al personale e alla vita (con attenzione speciale alla relazione con chi è conosciuto o con chi vive nello stesso spazio territoriale);
    • il riferimento ad alcune persone, valutate come significative per la propria esistenza, da cui si attende una parola accogliente e autorevole;
    • l’impegno costante e coraggioso dell’esercizio della carità evangelica in espressioni concrete anche se faticose (volontariato...).

    I movimenti ecclesiali

    La fioritura di movimenti ecclesiali non rappresenta solo il segnale di un rinnovamento globale di vita ecclesiale. Molti di essi sono luoghi espliciti di esperienza dello Spirito. Lo sono quando ne fanno continuo e prolungato ricordo, come è tipico di alcuni di essi; lo sono anche quando lo stile della loro vita concreta rifugge dalle forme un po’ strane e appariscenti, tipiche dei primi.[5] Il discorso si farebbe lungo. Basta solo il richiamo. Non possiamo, di certo, riferire tutto questo in termini esclusivi al mondo giovanile, anche perché molti di essi non hanno uno sguardo speciale verso i giovani. Rappresentano comunque un punto di confronto e di sostegno speciale per tanti giovani.
    Nella nostra ricerca, per esempio, risulta interessante constatare quanto l’appartenenza ad essi sia qualificante sul piano dei rapporti interpersonali (è sostegno al disagio)
    • in ordine alla conoscenza e esperienza di Chiesa (anche se si tratta di un dato di fatto, quasi naturale e spontaneo, che non rimanda verso altri rapporti istituzionali…);
    • accoglienza ed elaborazione della domanda religiosa;
    • favorisce l’incontro e il confronto con figure significative di adulti.


    2. Riconoscere la presenza dello Spirito dai segni non espliciti

    Vogliamo verificare come i giovani vivono l’esperienza dello Spirito. Lo possiamo fare attraverso un approccio diretto, cercando di constatare il livello di riferimento esplicito. L’abbiamo tentato nell’articolo precedente e ci siamo accorti che la ricerca non è stata facile: non solo si tratta di scavare un frammento di vissuto che sfugge agli strumenti ricognitivi e interpretativi che possediamo, ma soprattutto cerchiamo le tracce di qualcuno che è mistero grande e imprevedibile. Possiamo però percorrere un’altra direzione di ricerca: verificare fino a che punto sono presenti, in modo consapevole, i «doni dello Spirito», i segni della sua azione trasformatrice. La nostra convinzione è quindi molto precisa: conta di più questo secondo livello di ricognizione del primo.
    Ci può rattristare la constatazione di quanto poco sia consapevole la presenza nella nostra esistenza di colui che è la ragione del nostro vivere e del nostre sperare.
    Di fatto, però, se viviamo e speriamo con forza e con fantasia, possiamo riconoscere l’esito del dono… ed è aperto un prezioso cammino educativo, che può portare a far riconoscere progressivamente anche il nome di colui che ci pervade, anche se non lo sappiamo e non lo riconosciamo esplicitamente. Sarebbe di certo più triste e inquietante constatare che al richiamo frequente al nome non corrisponde affatto la qualità dell’esperienza.

    I SEGNI DELLA PRESENZA DELLO SPIRITO

    Per procedere dobbiamo metterci d’accordo su quali possono essere considerati i segni della presenza dello Spirito.[6]
    Per elencarli, in modo abbastanza sicuro, abbiamo riletto il Nuovo Testamento alla ricerca dell’esperienza dei discepoli di Gesù. Essi erano consapevoli del dono dello Spirito. Come ne parlano? Cosa rilanciano verso questa esperienza? Essi, che certamente si sono «lasciati guidare dallo Spirito» (Gal 5, 25), come vivono dall’esperienza dello Spirito?
    Proponiamo alcuni riferimenti. Li abbiamo scelti tra i tanti, perché ci sono apparsi fortemente evocativi. Essi sono i «doni dello Spirito» che testimoniano la sua presenza. Su essi rileggeremo poi il vissuto dei giovani per verificare il riconoscimento (in modo più o meno consapevole) della presenza dello Spirito nella loro esistenza quotidiana.

    La vita dove c’è morte

    Le poche volte in cui si parla nell’Antico Testamento dello Spirito, come presenza esplicita di Dio, lo si fa con un tono che poi ritorna abituale nel Nuovo Testamento: lo Spirito è la presenza, potente e operosa, di Dio che fa nascere vita dove c’è morte. Questa nota potrebbe essere considerata come il leitmotiv della presenza e dell’azione dello Spirito in tutta la storia della salvezza.
    I riferimenti sono abbondanti. Ne ricordiamo solo alcuni, con l’unica preoccupazione di mettere in evidenza la prospettiva.
    Secondo il racconto del Genesi sul «mondo vuoto e deserto» aleggia lo Spirito di Dio (come un vento impetuoso) e la vita compare. Chi contempla la creazione, esplode nella gioia della riconoscenza: «Cantate al Signore un canto nuovo, acclamatelo con la musica più bella» (Gen 1, 2 e Sal 33).
    Purtroppo ritorna la morte nelle pieghe della storia, per il peccato dell’uomo. Dio non si rassegna e progetta una presenza di condivisione totale: il Verbo si fa carne. Per introdurre la vita nella storia, Dio cerca la collaborazione di Maria. Superate le incertezze e i timori, lo Spirito interviene potente: «Lo Spirito Santo verrà su di te, e l’onnipotente Dio, come una nube, ti avvolgerà» (Lc 1, 26-38).
    La missione di Gesù è un grande impegno per la vita di tutti. Lo dichiara continuamente, con i fatti e le parole. All’inizio sta ancora lo Spirito: «Il Signore ha mandato il suo Spirito su di me. Egli mi ha scelto per portare ai poveri la notizia della loro salvezza» (Lc 4,16-30).
    Nell’ora della resurrezione, lo Spirito è colui che dà vita all’Abbandonato del venerdì santo: lo Spirito lo restituisce alla vita, per poter riconciliare gli uomini con il Padre, assicurando così la vita piena per tutti (Rom 1, 4).
    Gesù consegna lo stesso Spirito ai suoi discepoli, per lanciarli, in modo competente e coraggioso, nella realizzazione della missione che ha affidato ad essi: «Io manderò su di voi lo Spirito Santo, che Dio, mio Padre, ha promesso. Voi però restate nella città di Gerusalemme fino a quando Dio vi riempirà con la sua forza» (Lc 24, 49). Gesù… sembra quasi preoccupato: senza la presenza dello Spirito si possono combinare disastri… per questo suggerisce di partire solo dopo essere stati trasformati dal suo Spirito.
    E finalmente, pieni dello Spirito, gli apostoli continuano l’opera di vita che Gesù ha iniziato. «Ebbene, una cosa dovete sapere voi e tutto il popolo d’Israele: quest’uomo sta davanti a voi, guarito, perché abbiamo invocato Gesù Cristo, il Nazareno, quel Gesù che voi avete messo in croce e che Dio ha fatto risorgere dai morti», dichiara con forza Pietro per giustificare davanti al tribunale la guarigione dello zoppo alla Porta Bella del Tempio (At 4, 10).
    La vittoria della vita sulla morte è il grande segno della presenza dello Spirito di Gesù, nell’esistenza personale e collettiva. Chi ne vive la passione, si rende disponibile per servirla e si impegna nella dura lotta richiesta per assicurarla… dà volto e parola, con la forza dei fatti, al mistero che si porta dentro. L’implicito si fa esplicito quando viene riconosciuta e proclamata la ragione che sollecita a servire la vita nel nome di Dio.
    Questo grande segno si esprime e si concretizza poi in modalità diverse. Le ricordiamo per procedere dal tutto al frammento e per costruire, nella relazione del tutto (la vita) ai frammenti (le note che seguono), un criterio per verificare l’esperienza dello Spirito nella vita quotidiana.

    La libertà nell’esperienza religiosa

    La Lettera ai Galati è un grande, riconoscente inno alla libertà. Sgorga dal cuore di Paolo, come frutto della sua conversione. Lui, da buon fariseo osservante, riteneva che la sua pienezza di vita e la sua salvezza fosse l’esito di una osservanza puntigliosa della Legge. Scopre l’imprevedibile dono di libertà che il Crocifisso risorto gli ha regalato. Riconosce, di conseguenza, che la libertà non è frutto di conquista ma dono. Gesù ha regalato il suo Spirito: per questo siamo nella libertà.
    Meditando questo documento, possiamo scoprire anche noi quanto l’esperienza religiosa sia una grande avventura di libertà. Lasciarsi guidare dallo Spirito significa vivere nella libertà.
    Il dono della libertà è grande e imprevedibile come lo Spirito che l’assicura e la scatena. Per questo non ha confini, di nessun ordine e grado, e non è qualcosa di pattuibile o di rinunciabile, perché non è frutto né di conquista né di contrattazione.
    La libertà ha però un limite insuperabile: l’amore che sa farsi servizio, pronto, generoso, preveniente. «Siamo liberi. La croce di Cristo ci ha liberati da ogni legge. Abbiamo il dovere e il diritto di vivere nella libertà. Chi non lo sa o chi ne ha paura, tradisce la potenza della croce di Gesù». Aggiunge, però, in una lettera agli abitanti di Corinto: «Lo so di poter mangiare tutto quello che voglio. La mia libertà ha un confine preciso e invalicabile: finisce dove incominciano le esigenze dell’amore… Per questo, assicuro i miei fratelli che ci soffrirebbero se mi vedessero mangiare qualche cibo proibito: non ne mangerò in eterno. Non posso dire che Dio ci ama e ci accoglie, ferendo la sensibilità di qualche mio fratello» (1 Cor 8, 9-13).

    La comunione nella diversità

    Uno dei ricordi più facili e frequenti della presenza dello Spirito tra i discepoli di Gesù, è costituito dal richiamo alla Pentecoste. Due indicazioni nascono spontanee dalla meditazione della pagina degli Atti, che riferisce l’accaduto (At 2, 1-15): la molteplicità dei linguaggi come situazione di partenza e la possibilità di comprensione e di intesa, nonostante questa difficoltà pesante, come novità prodotta dallo Spirito. Siamo davvero al segno opposto di quello che è capitato a Babele, nell’impresa faraonica di costruire una città senza Dio. «Disse Dio: Ecco, tutti quanti formano un solo popolo e parlano la stessa lingua. […] Andiamo a confondere la loro lingua: così non potranno più capirsi tra loro. E il Signore li disperse in tutto il mondo» (Gen 11, 1-9).
    Il dono dello Spirito ricostruisce la comunione e la condivisione nella diversità: gente che parla lingue diverse, riesce a comunicare con Pietro e i discepoli. Non cambiano né lingua né cultura. Restano quello che sono: diversi l’uno dall’altro. Lo Spirito ricostruisce la comunione nella diversità. Imbandisce una tavola comune (quella della vita e della speranza) dove possono accomodarsi tutti, oltre le differenze.

    La solidarietà

    Un’altra pagina del Libro degli Atti dà da pensare a chi cerca di verificare i segni della presenza dello Spirito: la storia di Anania e Saffira (At 5, 1-11).
    Il contesto è molto chiaro e preciso: «Tra i credenti nessuno mancava del necessario, perché quelli che possedevano campi o case li vendevano e i soldi ricavati li mettevano a disposizione di tutti».
    Fanno così anche Anania e Saffira… ma non fino in fondo. Vendono i loro campi e consegnano a Pietro il ricavato per i poveri. Prima di consegnare, fanno però un po’ di cresta: si trattengono qualche piccola somma. Trattengono sul proprio, senza defraudare altri. Eppure Pietro è durissimo: facendo così hanno sfidato lo Spirito di Gesù.
    Lo Spirito è solidarietà piena e totale, perché è la vita stessa di colui che ha sacrificato tutta la propria esistenza per la vita e la speranza di tutti. Mercanteggiare significa, in fondo, tradire la ragione costitutiva della novità di esistenza che ci è stata offerta per amore.
    La solidarietà ha le sue pretese: non può che risultare ampia e totale come la libertà.

    La vittoria sulla morte

    Nella Lettera ai Romani Paolo parla della sua paura di fronte alla morte. Lo fa in modo serio, andando alla radice dell’esperienza. E parla del dono dello Spirito, che gli permette una speranza sconfinata (Rom 7 e 8).
    Fariseo, zelante e impegnato, si fidava ciecamente della legge. Ma si è trovato presto deluso. Confrontato con esigenze impegnative, Paolo costata la sua fragilità. Ne ha paura, perché s’accorge quanto questa incoerenza sia radicata in lui. Fa ormai parte del suo vivere: ci vede chiaro di fronte agli obblighi della legge, ce la mette tutta per osservarli fedelmente; e si trova a fare i conti continuamente con i suoi tradimenti. «Io sono un essere debole, schiavo del peccato. Non riesco nemmeno a capire quello che faccio: quello che voglio non lo faccio, faccio invece quello che odio». Il baratro della morte gli si spalanca davanti, come esito del suo peccato. Ha paura. E grida disperato: «Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà?».
    Dal profondo della sua angoscia, riscopre Gesù, il suo Signore e Salvatore: «Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro».
    Il cap. 8 è un inno, entusiasta e sorpreso, alla potenza di Dio che ci fa «creature nuove» in Gesù. Paolo dice forte la sua esperienza: abbiamo vinto la morte. Non possiamo più avere paura. Essa resta, inesorabile come un nemico in agguato. Ma ormai ha le armi spuntate: è un nemico vinto e legato. La vita può essere vissuta in piena fiducia.
    La ragione è il dono dello Spirito di Gesù: «la legge dello Spirito che dà la vita, per mezzo di Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte». Viviamo nello Spirito di Dio. Egli è la sorgente della vita; è la forza che ci fa riconoscere Dio come Padre; è quel frammento della vita stessa di Dio che ci fa diventare pienamente figli suoi, come lo è Gesù di Nazareth.

    La capacità di perdonare e di accogliere il perdono

    In tutte le esperienze religiose è presente la constatazione del bisogno di riconciliazione, come risposta alla coscienza di riconoscersi peccatori. Anche i cristiani… non fanno eccezione. Qualche volta si è persino insistito in modo eccessivo, producendo ingiustificati sensi di colpa. Gesù ci propone un modo tutto speciale per vivere questa esperienza. Va compreso bene, per poter riconoscere i segni della presenza dello Spirito nella nostra quotidiana esistenza.
    Gesù infatti chiede ai suoi discepoli di continuare la sua presenza nella vita di ogni uomo, riproducendo lo stile del suo intervento di salvezza: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi».
    Gesù ci rivela la «reazione» di Dio al grido che sale dal profondo della nostra esperienza di peccatori: appena facciamo il primo passo verso di lui, Dio «esce di casa» per correre verso di noi e sprofondarci nel suo abbraccio accogliente. Il Dio che Gesù rivela non fa pagare ad alto prezzo il perdono.
    Lo offre gratuitamente per restituire vita e speranza. Secondo il Vangelo di Luca, è interessante constatare che Gesù racconta le parabole della misericordia, per rispondere a coloro che lo accusavano: «Quest’uomo tratta bene la gente di cattiva reputazione e va a mangiare con loro» (Lc 15).
    I discepoli di Gesù sono abilitati ad affrontare la questione spinosa del perdono dei peccati nel suo stile in forza del dono che Gesù fa del suo Spirito: «Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi non li perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20, 21-23).
    La presenza dello Spirito nella quotidiana avventura di riconoscersi peccatori di fronte a Dio e di invocare da lui il suo abbraccio accogliente, cambia profondamente il nostro atteggiamento verso la riconciliazione. Non viene richiesto prima di tutto a noi la fatica di porci sulla via della riconciliazione.
    Lo Spirito di Gesù che riempie ormai la nostra esistenza di figli di Dio, ci spinge verso l’abbraccio di Dio. Di qui il significato nuovo dell’esperienza cristiana della riconciliazione: una vera «bella notizia», come tutto il Vangelo: «Vi supplichiamo, da parte di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5, 20).
    Riconoscere e pregare Dio come Padre
    A Dio si arriva da molte strade. Non è difficile riconoscere la sua presenza nella nostra vita. In fondo, un vago atteggiamento religioso è oggi un dato abbastanza diffuso e insistito, tanto da produrre in molti la constatazione del riemergere di esperienze religiose, dopo l’ondata della secolarizzazione autosufficiente.
    L’esperienza dei primi discepoli di Gesù spinge però molto oltre. È interessante constatarlo se pensiamo al loro contesto di vita e alla diffusione di riferimenti religiosi, molto più frequente di quello che sta capitando oggi. Il dono dello Spirito produce novità: permette di chiamare Dio con il nome, insperato, di Padre e di invocarlo, nella preghiera, con una fiducia sconfinata.
    «Quelli che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto in dono uno spirito che vi rende schiavi o che vi fa di nuovo vivere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di Dio che vi fa diventare figli di Dio e vi permette di gridare: Abbà, che vuol dire Padre, quando vi rivolgete a Dio. Perché lo stesso Spirito ci assicura che siamo figli di Dio» (Rom 8, 14-16).

    È PRESENTE LO SPIRITO NELLA VITA DEI GIOVANI DI OGGI?

    Abbiamo tracciato una specie di mappa concettuale. Secondo la testimonianza dei discepoli di Gesù, non solo possiamo riconoscere la presenza dello Spirito solamente attraverso le sue tracce ma possiamo persino delimitare l’autenticità o la falsità del suo riconoscimento.
    La questione rimbalza immediatamente sul tema che stiamo studiando.
    Forse, come dicevamo, tra i giovani di oggi non emergono molti richiami espliciti allo Spirito, o almeno non possiamo riconoscerli come davvero generalizzati. Possiamo però verificare, attraverso una lettura interpretante capace di scendere nel profondo, se e fino a che punto la loro cultura è segnata dalle tracce di questa presenza.
    Possiamo anche tentare di verificare se coloro che moltiplicano i riferimenti espliciti allo Spirito realizzano esperienze autentiche o, al contrario, propongono dei modelli in cui la dimensione formale contraddice quella di sostanza.
    Le due questioni sono molto impegnative. Non si tratta solo di riconoscere una presenza o constatare una assenza. Il nostro impegno educativo e pastorale ci spinge a portare a esplicito ciò che eventualmente è solo implicito, rivelando quello che viene vissuto senza possedere il nome proprio per confessarlo, e ci sollecita ad attivare processi di autentificazione pastorale.
    Le storie di vita permettono di rilevare che i segni non espliciti che sono stati indicati per rilevare la presenza dello Spirito nella vita dei giovani, e che sono di fatto i suoi doni, sono tutti presenti. Alcuni lo sono più raramente, altri più abbondantemente.
    Tuttavia la loro presenza è qualche volta debole, incerta e confusa, in quanto i giovani non li percepiscono o non li riconoscono come i segni del dono della presenza dello Spirito.
    Manca a questi giovani un quadro culturale, e quindi quel riferimento sia cognitivo che esistenziale che consenta loro di rileggere e di interpretare le loro quotidiane esperienze, i loro vissuti e le loro riflessioni, e di raggiungere una maggior consapevolezza della presenza dei doni misteriosi dello Spirito che pervadono e rendono più piena e ricca di senso la loro vita.

    La vita dove c’è la morte

    In circa un quarto delle storie di vita, sia di appartenenti che di non appartenenti, vi è raccontato il vissuto di adolescenti e di giovani che nella loro vita hanno incontrato il volto della morte. In alcuni casi si è trattato della morte di un amico e in altri di un familiare, oppure si è trattato dell’incontro con la malattia propria o di una persona cara. Si è trattato sempre di esperienze emozionalmente forti.
    Nella quasi totalità di questi casi non è emersa la disperazione nullificante ma, al contrario, la speranza. Alla cui base vi è sempre una fede in Dio, in qualcosa che è oltre la propria vita.
    A volte questa apertura alla speranza, come nel caso di questa testimonianza, è vissuta come faticosa.
    «È chiaro che nessuno vive in maniera tranquilla la morte di qualcun altro o la malattia irreversibile, anche perché confesso che questo per me è sempre stato molto difficile. Però credo che per andare avanti devo o cercare di non pensarci o pensare che comunque una speranza c’è sempre. Sono convinto che uno, per riuscire a reagire di fronte a queste situazioni, deve poter credere a qualcosa, aggrapparsi a qualcosa, pensare che comunque c’è qualcosa al di là che ti dà una speranza. Perché se non credi gli eventi ti schiacciano. Credere in ciò però per me è molto faticoso».
    In questi due brani vi è invece il confronto con la morte di un’amica e di un amico da parte dei protagonisti delle storia di vita. Confronto che grazie al sostegno della fede, che ha aperto all’invocazione, e della esperienza di elaborazione religiosa, anche attraverso il rito, ha prodotto sia il superamento del trauma che della paura della morte.
    «Ho cercato di accettare queste morti che mi hanno fatto riflettere molto. Anche quando è morta Mira ho riflettuto. Infatti mentre noi amici preparavamo il funerale, Mira non era ancora morta, e pregavamo che guarisse. È atroce preparare il funerale per una persona che sta per morire. Pensavamo e speravamo in una sua guarigione e di ridere con lei il giorno dopo di questa preparazione. In quell’occasione ho pensato che pregare era la cosa più importante e la veglia che abbiamo fatto di fronte alla sua bara mi ha fatto pensare che la morte è un grande mistero, che la morte ci porta sicuramente a conoscere Gesù. Da allora la morte non mi ha più spaventato».
    «Sì, questa estate è morto un amico. È morto dopo un’ora che c’eravamo lasciati. Ho pensato che anch’io posso morire da un momento all’altro, che la morte fa parte della mia esistenza e che da quando sono nata so che devo morire. La mia esperienza religiosa, in questa esperienza, mi ha aiutato a darmi una risposta, e attraverso il confronto con la mia fede mi ha aiutato ad accettare la morte senza provare la realtà della paura. In questa esperienza mi sono ritrovata a invocare Qualcuno di grande, che mi aprisse alla speranza e avesse cura della mia paura. Dopo averlo invocato ho preso maggiore consapevolezza che anche la mia vita è limitata ma grande allo stesso tempo».
    In qualche caso l’esperienza della speranza prodotta dalla fede è espressa in modo più semplice e magari più grezzo, ma tuttavia contiene sempre in modo forte il riconoscimento dell’esistenza di un qualcosa che dà un senso alla vita nonostante i confini della morte.
    «A volte, quando c’è un dolore forte, come la morte improvvisa di qualcuno, la religione ci aiuta a superare quel momento. Ci dà la speranza di trovare qualcosa dopo, pensare che la persona cara persa stia meglio di noi.
    Anche in situazioni diverse dalla morte, quando tua madre sta male, o sei disperato, o non sai più cosa fare, la religione in quel momento ti aiuta 175.
    In altri casi la percezione di una presenza che dà senso alla vita, che la rende bella e che la ricolma, è indipendente dal confronto con l’evento della morte, in quanto nasce dalla gioiosa constatazione che la vita senza questa misteriosa presenza sarebbe più vuota e meno bella.
    Nel terzo brano qui raccolto questa presenza assume il nome e il volto di Gesù Cristo e acquisisce il centro della vita del giovane.
    «Uno si confida con gli amici sulla fede: ce l’hai o non ce l’hai ? Avere la fede per me è avere una speranza più che la fede, altrimenti è una grossa fregatura. Un dono misterioso senza nome ricolma la sua vita».
    «Ma se lui non sente che è così... non lo capisce... potrà fare tante cose esternamente ma quella cultura interiore non ce l’ha, non ha quella intuizione che la vita è qualcosa di bello. Invece se uno ce l’ha, ha anche speranza per il futuro».
    «È un’esperienza forte con una ragazza che mi ha fatto capire che non dovevo mettere niente al centro della mia vita oltre Cristo. Io invece avevo messo al centro della mia vita questa ragazza, vivevo per lei, e praticamente nel momento in cui l’ho persa mi sono ritrovato una vita senza un senso. Questa esperienza comunque mi ha fatto capire che dovevo tenere al centro della mia vita Cristo. L’ho capito durante degli esercizi spirituali e che potevo ancora vivere in un certo modo.

    La libertà nell’esperienza religiosa

    Il tema della libertà nelle storie di vita è affrontato nella stragrande maggioranza dei casi solo dal versante della libertà soggettiva personale e sociale... di quella che danno i genitori e gli educatori. Vi sono solo pochi casi, anche tra gli appartenenti, in cui il tema della libertà è intrecciato o visto in relazione con quello dell’esperienza religiosa.
    Di solito si tratta di esperienze molto significative. Ve ne sono due molto belle. La prima è quella di una ragazza che scopre nell’appartenenza ecclesiale una forma di libertà profonda, libera da quei condizionamenti che una volta venivano definiti come rispetto umano.
    La seconda è l’espressione della convinzione di un giovane che la sua libertà gli è data da Dio.
    «Io non mi vergogno di dire che ho una riunione in parrocchia o una assemblea in parrocchia, perché sono convinta di quello che faccio. Sono convinta che sia un bene, comunque che sia una cosa che a me dà soddisfazione e sono contenta di farla. Eppoi c’è tantissima libertà anche se bisogna imparare a condividere le idee degli altri e a dare libertà agli altri».
    «Sento che Lui mi dà la libertà di agire, di fare. Anche quando io vivo quelle giornate nere, in cui sto male, mi sento a pezzi, forse Lui vuole che io sia più forte. Lui non è un Dio che punisce».
    Vi è, invece, un giovane che intreccia sì il tema della libertà con l’esperienza religiosa, ma senza arrivare a una qualche conclusione.
    «Il rapporto fra la mia libertà e l’azione di Dio è una delle cosa più dibattute...».
    Vi sono poi due casi in cui vi è l’espressione del valore della libertà nell’educazione religiosa. In un caso è la libertà offerta dai genitori al figlio e nell’altro il valore della libertà come responsabilità offerta dal metodo scout.
    «Devo dire che ho un ottimo rapporto con la fede religiosa, proprio perché ho avuto la fortuna di avere dei genitori che mi hanno lasciato scegliere liberamente. In alcuni casi infatti imporre la fede religiosa può essere negativo perché l’individuo finisce per odiarla».
    «Secondo me responsabilità e libertà di scegliere coincidono perché una volta che sei responsabile, quando hai la libertà di scegliere, scegli sempre la cosa meno dannosa per te».

    La comunione nella diversità

    La scoperta della possibilità della comunione nella diversità è molto diffusa nella forma che ne costituisce l’indispensabile premessa: l’accettazione della coesistenza con il diverso.
    L’accettazione del diverso, il non vivere la diversità come minaccia, e quindi come fonte dell’angoscia lugubre che segna la solitudine del simile, è già comunque un grande segno anche se l’opacità dello sguardo non consente di leggerlo come segno dello spirito.
    Vi sono comunque alcune testimonianze in cui oltre alla pura accettazione della diversità, vi è il riconoscimento che è possibile creare una comunione profonda con il diverso senza per questo che coloro che vi partecipano debbano rinunciare alla loro diversità.
    Una forma di diversità che viene scoperta come fonte di quella complementarietà che assicura una comunione profonda tra le persone è quella di genere.
    «Adesso ho bei rapporti di amicizia con le ragazze. Vivo serenamente il rapporto con loro. Noto fra di noi una complementarità. Riconosco una complementarità nella diversità. Mi rendo conto che ho alcune cose che le ragazze non hanno. Noto alcune robe che le ragazze hanno più sviluppato: piccole attenzioni, sensibilità maggiore».
    Vi è poi il passaggio alla diversità in genere che va da quella con le persone con cui si forma un gruppo, non importa se formale o informale, a quella interculturale offerta da meeting e incontri tra giovani di nazioni diverse.
    Anche se le esperienze qui di seguito raccontate sono accadute nell’ambito religioso, non vi è un riferimento né puntuale né vago all’azione dello Spirito.
    L’unica esperienza in cui era riconosciuto il ruolo dello Spirito Santo è quella che è stata riportata all’inizio dove sono stati esplorati i modi espliciti di concepire la terza persona della Trinità.
    «A me piacciono le persone tutte quante e ognuna è bella nella sua diversità».
    «E quindi anche lì nonostante questa diversità si era fatto un bel gruppo».
    «Anche adesso all’università sono amico con tutti nonostante abbiamo delle diversità di idee, di ideologie. Io mi sento proprio a casa perché ho tanti amici che ti aiutano».
    «Penso di portare in classe quello che scopro in fraternità. Scopro che ognuno ha la sua ricchezza personale anche se diverso da me e cerco di valorizzare tale ricchezza».
    «Io credo che queste cose ti diano una visione più aperta. Incontrare tante persone diverse, venire a contatto con persone di altre nazionalità e viverci insieme. Io ho fatto anche un paio di capodanni fuori con loro. Quindi ho cercato il senso di quella diversità, ho cercato di capire le cose in cui si crede anche se sono diverse da quello che pensi. Il bello è ritrovarsi con persone che pregano al tuo stesso modo ma in lingue diverse».
    L’ultimo caso è quello della scoperta e dell’accettazione della propria diversità come valore e non come inferiorità rispetto agli altri che ha ottenuto nel percorso terapeutico affrontato nella comunità di recupero per tossicodipendenti.
    L’aspetto della necessità di fare comunione con se stessi per poter fare comunione con gli altri è sovente trascurato. Questa storia di vita drammatica ma per fortuna a lieto fine ce lo ricorda.
    «L’essere una persona molto sensibile, molto dolce, mi ha dato l’opportunità di conoscere i miei sentimenti, i miei meccanismi. Di fronte alle situazioni vivevo sentimenti d’inferiorità rispetto agli altri, di diversità, di solitudine, incapacità di fare le cose, sentirmi incapace, mentre in realtà non lo sono. Mi ha dato modo di scoprire le mie capacità e di metterle in pratica nel concreto, nella vita di tutti giorni. Mi ha dato la possibilità di scoprirmi come persona, cioè chi sono io realmente, la mia parte vera, non quell’immagine che mi ero creato al di fuori, prima di cominciare a frequentare la comunità».

    La solidarietà e la condivisione

    Le parole solidarietà e condivisione compaiono insieme in solo due storie di vita. Questo fatto è dovuto al fatto che il termine solidarietà è utilizzato nella maggioranza dei casi per indicare un’azione di aiuto verso persone e situazioni di marginalità, povertà e disagio, mentre il termine condivisione è maggiormente utilizzato per indicare la condivisione all’interno del proprio gruppo o della propria comunità di vita.
    Questa dissociazione tra solidarietà e condivisione è comunque il segno di un limite nel senso che indica quella forma di carità che, purtroppo, non abolisce la distanza tra chi aiuta e chi è aiutato, ma anzi la aumenta.
    La parola solidarietà ha la stessa frequenza, tra l’altro, della parola Spirito Santo, e quindi è stata usata nelle storie di vita con molta parsimonia.
    Le espressioni inerenti la solidarietà che gli intervistati hanno raccontato vanno da quella che non riconosce nella solidarietà alcuna dimensione spirituale, perché è ritenuta un carattere quasi biologico dell’uomo, a quelle in cui compare l’insegnamento e la testimonianza di Gesù.
    In mezzo a questi estremi vi sono le testimonianze di giovani che stanno vivendo un cammino di educazione alla solidarietà con tutte le difficoltà e le contraddizioni.
    «Io credo che le persone siano comunque spinte alla solidarietà, proprio perché l’uomo è un animale sociale. Nel momento del bisogno io credo che una soluzione ci sia sempre».
    «Proprio perché sto affrontando il tema della solidarietà all’interno dell’oratorio mi sto rendendo conto che finora ho speso più del dovuto, forse è stato uno spreco molte volte. Sto cercando di fare qualche sacrificio, di rinunciare al bel maglione ad esempio, sì proprio per questo motivo».
    «Non è facile raccogliere i messaggi che lanciano le parabole, o la vita di Gesù. Il potere di questa persona di attirare su di sé le attenzioni, al di là dei miracoli, ma per quello che ha fatto, la sua vita, come l’ha vissuta, con sacrificio, con la sofferenza, cioè senza mai prendersi niente da noi. Queste sono le cose che la chiesa vuole trasmetterci: la fratellanza, l’amicizia, l’unione, la solidarietà. Tutte cose in cui sto cominciando a credere».
    «Una persona che dava insegnamentii eccezionali a me e anche a molti preti come la condivisione della solidarietà, l’amicizia, il farsi carico dei problemi altrui. È stata un’esperienza disarmante, perché mi ha insegnato che l’uomo vivente è gloria di Dio, l’uomo è grande in quanto tale, anche se a volte è mascherato, sfigurato, abbrutito».
    Nel cammino della solidarietà e in questo caso della condivisione vi è la difficoltà incontrata da un giovane durante il suo servizio civile in una Caritas diocesana, dove il responsabile della formazione degli obiettori esigeva come presupposto all’azione caritativa una chiara scelta di fede, dimenticando che la fede a volte può nascere da un gesto di solidarietà in cui chi lo riceve incontra il Cristo e che comunque anche nel gesto solidale e condividente di chi non crede si manifesta lo Spirito.
    «Con lui non mi trovavo d’accordo su molte cose, per esempio sul fatto che per lui gli obiettori che dovevano svolgere servizio nella Caritas dovevano essere persone che comunque avevano già maturato una scelta di fede ben precisa. Io su questo non ero assolutamente d’accordo perché ritenevo che innanzitutto il servizio in sé è un’esperienza altamente formativa».
    «Come lo era stato per me lo sarebbe potuto essere anche per altre persone. Io penso che comunque i valori della condivisione, della solidarietà li possano avere anche persone che magari non hanno una precisa scelta di fede alla base».
    Il caso che segue è diverso perché propone una chiara testimonianza del fatto che alcune situazioni di aiuto e di solidarietà sono possibili solo se sostenute dalla fede e dal sostegno dello Spirito.
    Questo dato è molto importante perché ricorda che l’uomo nonostante la sua radicale debolezza se ha fede può smuovere le montagne.
    «Sì, sicuramente la mia fede mi ha aiutato, perché la solidarietà, il rispetto per gli altri, la fratellanza, il volersi bene, tutte queste cose, mi hanno aiutato a superare tanti problemi, tante difficoltà e tante reticenze».
    Le testimonianze inerenti la condivisione cominciano con l’espressione della domanda di condivisione da parte di un adolescente, che sente nella risposta ad essa il soddisfacimento del suo profondo bisogno di accoglienza e di amore.
    «Io, generalmente, vorrei che si dimostri attenzione nei miei confronti sotto tutti i punti di vista. Sia quando mi si deve fare una critica, sia come condivisione di angosce e di gioie, senza però un bisogno di esprimere particolare dolcezza e amorevolezza. Cioè: nel corso di una vita normale dimostrare all’altro che la cosa più importante è proprio lui, non tanto le proprie voglie. E c’è il momento in cui tutto questo traspare, che è l’attimo profondo quando stiamo insieme intimamente».
    Vi sono poi brani di storie di vita che raccontano la scoperta della condivisione attraverso l’educazione familiare e, soprattutto, le esperienze educative all’interno di gruppi e associazioni ecclesiali.
    Questa educazione porta alla scoperta degli altri, del valore della comunione nella diversità e dell’autenticità dei rapporti, oltre a essere sentita come un cammino che porta a Dio.
    «Mia madre sicuramente mi ha trasmesso un forte senso dell’organizzazione, un forte senso di praticità. Eppoi la condivisione, il saper condividere le cose non soltanto quelle materiali, il tempo con le altre persone».
    «Più che altro è il piacere della condivisione, secondo me, cioè il condividere le esperienze come andare a un ritiro, la preghiera o costruire qualcosa, fare la raccolta carta. La gioia, cioè, di poter creare qualcosa con gli altri mettendo in comune le proprie capacità, le proprie esperienze, non è tanto la paura di essere soli».
    «Per me un’altra tappa importante è stata là, nel mio primo vero gruppo, perché significava molto per me quel gruppo come luogo di scelte e condivisione di alcuni valori importanti, di alcuni ideali. È stato anche il momento in cui ho iniziato a costruire veramente rapporti importanti e adulti».

    La vittoria sulla morte

    Il tema della morte è molto presente nelle storie di vita. Esso compare in media in tre schede per ogni storia di vita, mentre il tema della paura della morte è affrontato in circa metà delle stesse storie di vita.
    Rispetto alla morte si hanno quattro tipi di atteggiamenti.
    Il primo è quello dei giovani credenti che dichiarano di non avere paura della morte perché hanno fede nell’esistenza di un aldilà, nel paradiso e che vedono la morte come passaggio che li conduce all’incontro con Dio. A volte questo atteggiamento viene espresso con tale decisione da lasciare stupiti.
    L’unica paura che emerge tra questi giovani è quella del dolore che la loro morte potrebbe arrecare a chi vuole loro bene, oppure la paura del dolore che la morte di una persona cara potrebbe arrecare loro.
    Il fatto che questo atteggiamento sia predominante fa dire che questo segno implicito della presenza dello Spirito abita il mondo giovanile.
    «Forse la morte, e anche quello che c’è dopo, sono cose che uno evita di pensare. Non si sa come valutare il tempo che c’è dopo, perché c’è la speranza che ci sia un tempo anche dopo la morte, perché siamo abituati a vivere e sentiamo la necessità che anche dopo la morte ci sia una seconda vita e che non finisca tutto lì. Non è che abbia un’idea chiara sulla morte: c’è la speranza che comportandomi in un certo modo io riesca ad avere un premio, ma come sarà questo premio, come sarà la vita dopo non ne ho la più pallida idea».
    «Quindi vivere serenamente sapendo che se è la nostra ora moriamo, senza cercarla e senza vivere con la paura di morire. Quindi cerco di non perdere tempo. Credo che sia normale pensare alla morte anche se non è un pensiero così sereno. Razionalmente penso che non sia una cosa drammatica. Penso di avere più paura della sofferenza, del dolore, quando uno per tanto tempo sta male».
    «In questo periodo mio padre è ammalato e per questo penso spesso alla morte. Non ho paura della morte. Credo che ci sia una vita dopo la morte, anche se questo non incide minimamente nei miei comportamenti ma solo nella mia serenità. Nel senso che se non ci fosse una vita dopo la morte, io mi comporterei nello stesso modo in cui mi sto comportando adesso».
    «Però la morte da una parte non mi fa paura, perché una volta morti ho la speranza di andare in paradiso; cioè se uno vive nella felicità immensa deve essere una cosa bella. Quindi anche una volta morti, continuerai a vivere nella felicità; non è che una volta morti, basta!».
    «La mia morte mi è indifferente, anche perché non ho paura di affrontarla. Quel che più mi dispiace è di far soffrire gli altri, perché è logico che quando muore qualcuno quelli che gli sono vicini soffrono. Per cui quando morirò io, spero che ci sia qualcuno che soffrirà per me. Io non ho paura, anche perché credo che ci sia una vita oltre la morte».
    «Non vivo la morte in modo traumatico, non sono angosciata da questo pensiero, perché una persona che crede sa anche che la vita non finisce qui. Dopo la morte l’anima vede Dio e c’è la vita eterna».
    «Mi fa più paura la morte di una persona cara perché c’è il distacco, mi viene il nodo alla gola quando penso alla mancanza dei miei genitori anche se l’angoscia è dovuta più al distacco che al pensiero di che cosa ci sarà dopo la morte. Sono sicura di quello che c’è dopo la morte».
    Il secondo atteggiamento è quello dei giovani che da un lato dicono di non avere paura della morte in sé ma solo del dolore che può causare, per cui vorrebbero una morte istantanea o nell’incoscienza. Dietro questo atteggiamento c’è, comunque, una paura profonda della morte.
    «Stavo parlando l’altro giorno con un’altra persona e lui mi diceva: «No, io non ho paura della paura; anzi sono sicuro che più soffrirò... Anzi io voglio soffrire». Ed io gli ho detto: «Non prendermi in giro». «No, io voglio soffrire perché sono sicuro che io, in quel momento di sofferenza, io la donerò al Signore in modo tale da espiare i miei peccati». Gli ho detto: «Senti, invece, io voglio proprio una morte istantanea, non un’agonia perché io odio il dolore».
    «Io ho assistito realmente al trapasso di una persona. Ero lì nei suoi ultimi istanti di vita, ero lì mentre la vita corporale l’abbandonava. Quindi mi auguro di non vedere la morte in faccia, come è stato per questa persona, ma di passare in uno stato di incoscienza alla morte vera e propria».
    «Ho paura solamente di morire con sofferenza. Secondo me morire soffrendo è la cosa peggiore».
    «Sarebbe bello invece morire la notte durante il sonno, andare a letto la sera bene e la mattina non svegliarsi più. Ora con tutti i malanni che ci sono nel mondo ho paura di soffrire perché ho visto gente soffrire».
    Il terzo atteggiamento è quello della paura della morte che nasce dalla paura del giudizio di Dio, dell’inferno e dell’infelicità eterna.
    Nelle prime due testimonianze c’è stato ed è in atto un superamento di questa paura, che anzi ha il volto dell’angoscia, mentre nelle altre è ben presente e viva.
    «Avevo paura della morte perché avevo paura di non riuscire a fare il necessario per arrivare in paradiso, cioè alla realizzazione del paradiso. Pensavo che fossero una grande quantità le cose che si dovevano fare e pensavo che io non posso morire adesso. Se io dovessi morire domani dopo aver fatto tutto quello che ho fatto fino ad oggi, non mi spaventa».
    «Penso che se stanotte o domani dovessi morire avrei paura del giudizio di Dio perché non sono in pace con me stessa e quindi non so proprio dove mi manderebbe!».
    «Prima di andare a letto ho l’abitudine di leggere un brano del vangelo a caso. Un giorno mi è capitata la pagina in cui Gesù sulla croce dice al ladrone: «Oggi stesso sarai con me in paradiso». In quel momento mi sono molto spaventato. Insomma della morte ho abbastanza paura e non riesco a vederla come il momento dell’incontro con Dio. Dio certo è misericordioso finché siamo su questa terra, ma quando arriviamo lì non si può sapere».
    «Sì, ho paura dell’eternità; e, ovviamente, prima ancora dell’eternità penso che si abbia paura anche dell’inferno, anche se ci sono frasi di autori. Un altro mi ha detto: «Ma no, scusa, perché hai paura dell’inferno? Dicono che sia vuoto». «Va bene, non vorrei magari essere io la prima cliente». Sì, ho paura dell’eternità. E, ovviamente, la morte è associata sempre al premio, alla dannazione, al dolore».
    Il quarto e ultimo atteggiamento è quello dei giovani che confessano la loro paura della morte. Si tratta comunque di un gruppo minoritario dove normalmente la paura della morte nasce dal dubbio circa l’effettiva esistenza dell’aldilà o, più facilmente, dalla mancanza di fede.
    «Anche se so che io con la resurrezione ho una vita e posso credere all’al di là, ci credo, però ho paura della morte, perché ho paura di soffrire, anche se attraverso Lui, so che ci potrebbe essere».
    «Invece io ho una grande paura della morte, proprio perché non ho fede, non so quello che succederà domani e quindi sono estremamente attaccato a quello che è la vita terrena».

    La capacità di perdonare

    Il tema del perdono è affrontato dai giovani protagonisti delle storie di vita in vari modi. C’è una minoranza che riconosce esplicitamente che la capacità di perdonare è un dono dello Spirito e, quindi, l’uomo senza questo dono difficilmente riuscirebbe a perdonare.
    Le testimonianze che seguono indicano più o meno chiaramente la presenza di questa convinzione nei giovani che le rendono. Giovani che vedono nei gesti autentici di perdono la presenza di Dio.
    «Secondo me il perdono non deriva da una persona normale. Cioè io come persona non sono capace di perdonare una persona che mi ha fatto un torto. Non dipende da me perdonare, ma solo grazie all’aiuto dello Spirito».
    «Infatti chiedere perdono a una persona che ti ha fatto un torto anche se tu credi di essere nella ragione non è semplice. Anche accettare una persona così com’è non è facile».
    «Cioè, ho capito che lì c’era qualcosa, una Persona, uno Spirito, che mi aiutava a chiedere perdono, a mettermi ultimo, ho messo per primo lui. Penso che per una persona chiedere perdono spontaneamente sia molto difficile. Solo con l’aiuto di una Persona, dello Spirito».
    «Secondo me, non è soltanto credente colui che va in chiesa o frequenta un gruppo o fa una buona azione o fa l’elemosina. Essere credente significa essere una persona umile, che sa perdonare, sa perdonare e sa soffrire per una cosa».
    Per un altro gruppo di giovani il perdonare è una caratteristica di Dio. Vi è in questi intervistati la profonda convinzione che Dio, o nella Persona di Dio Padre o in quella di Gesù o in quella dello Spirito Santo, alla fine perdonerà tutti e, di conseguenza, non ci sarà condanna per alcuno.
    «Nel momento in cui Lui ritornerà e si rivelerà un’altra volta nel giudizio universale, i buoni saranno salvati e i cattivi moriranno realmente. Dice un passo biblico «bruceranno nelle fiamme eterne». Vuol dire morte reale e definitiva, anche se poi siamo convinti che il Signore è talmente buono che arriverà a perdonare anche loro. Come ha perdonato il ladrone sulla croce, così perdonerà anche i più cattivi. Questa idea che una persona muore e va al cospetto del Signore per me è rallegrante».
    «Penso che Gesù ha sempre perdonato, non nel senso che ha perdonato con atteggiamento sufficiente e superficiale, ma ti capisce. Come con la pecorella smarrita: tra noi c’è sempre una pecora nera che però può essere salvata. Cioè si deve capire perché abbiamo sbagliato».
    «Io non vedo alcuna differenza tra Dio, Gesù e lo Spirito Santo: per me è uno, non faccio distinzioni. Dio forse, a differenza di un amico, è sempre disposto a capire, a perdonare, non è vendicativo, mentre un amico alla fin fine perde la pazienza».
    «Dio giudice! No, di solito non lo vedo come colui che giudica; lo vedo come colui che riesce sempre a perdonare e a essere comprensivo. Non lo vedo come colui che divide i buoni dai cattivi. Cerca sempre di indirizzare i cattivi verso la strada dei buoni, oppure comunque di perdonarli e di dargli un’altra possibilità».
    Per la maggioranza degli intervistati l’esperienza centrale del perdono è quella che fanno all’interno della confessione. Questo anche perché esprimono la convinzione che per perdonare gli altri bisogna perdonare se stessi e questo perdono può essere dato solo da Dio attraverso il sacramento della riconciliazione.
    «Penso di trovare una speranza solo attraverso il perdono, la riconciliazione, il sentirsi amati. Molte volte io ti posso perdonare, ma il più delle volte sono io che devo perdonare me stesso e qui deve intervenire Dio. Tante volte non ti senti a posto con te stesso, con la tua coscienza. Io faccio tanta fatica a confessarmi. Sono andato la settimana scorsa, ma erano anni che non andavo».
    «Sinceramente mi sono sentita sempre perdonata, anche se peccati grossi non li ho mai fatti. Io credo tanto alla confessione. Io mi sento perdonata solo quando vado a confessarmi. Quando chiedo personalmente perdono a Dio, non sento la stessa sicurezza come quando qualcuno mi dice «va’ in pace, il Signore ti ha perdonato».
    «Mi confesso quando veramente mi sento di aver peccato, quando veramente voglio chiedere perdono. Dunque diventa un momento importante della mia vita».
    «Io di solito, quando vado in chiesa, chiedo a Dio perdono poi alla fine chiedo di aiutarmi».
    C’è anche chi pur condividendo la necessità di chiedere perdono a Gesù pensa che non sia necessario passare attraverso il sacramento della riconciliazione, in quanto basta chiedere direttamente perdono a Gesù che è sempre presente ovunque.
    «Perché, non so, mi ricordo che dicevano che Dio sta sempre dappertutto. Gesù sta dappertutto, quindi basta che tu, se riconosci che hai fatto i tuoi peccati, chiedi perdono. Quello che devi chiedere, glielo puoi chiedere direttamente. Per me non serve chiedere tramite i preti, che loro poi lo vanno a riferire a qualcun altro».
    La difficoltà o l’incapacità di chiedere perdono sono vissuti da alcuni giovani come l’ostacolo principale a una scelta autentica di fede.
    «Di non essere per niente libero davanti a questo, e davanti alla Parola che non si può servire Dio e il denaro, io vado sempre in crisi perché mi accorgo che in me c’è ancora questa schiavitù molto forte che certe volte non mi permette proprio di gustare il perdono e l’amore di Dio perché ancora ho il cuore da un’altra parte».
    «In questo periodo poi stiamo ritornando alla situazione in cui mi trovavo prima di incontrare questo insegnante perché mi sto allontanando, mi sto allontanando molto. Non riesco a mettere in pratica i valori del vangelo come dovrei, soprattutto il perdono. Molte cose non riesco a perdonarle, non mi va di lasciarle passare; lasciando perdere le offese mi dà l’impressione che gli altri ne approfittino; proprio per questo i rapporti con molte persone si sono deteriorati».
    «So che è brutto non perdonare, ma io non ci riesco. Forse riuscirò, ma per ora voglio fargliela pagare, perché sono molto cattiva. Dipende da cosa mi fanno le persone».
    Infine vi è un episodio nato da uno scontro tra un parroco e un tossicodipendente, in cui chi ha alzato le mani è stato il parroco e che comunque ha provocato una denuncia penale al giovane protagonista della storia, dove la difficoltà a perdonare da parte del parroco è vissuta come una vera e propria contro-testimonianza dell’amore di Dio manifestato attraverso Gesù agli uomini e reso vivo dalla presenza dello Spirito.
    «Mia nonna e mia madre sono andati dal prete, da Padre Biagio, a inginocchiarsi, e a chiedere il suo perdono, così mi lasciavano libero i carabinieri. Dopo che è successa la lite fra me e il prete io lo cercavo con un coltellino e i carabinieri che mi hanno trovato il coltellino, mi hanno messo pure minacce a pubblico ufficiale, porto abusivo d’armi, tante cose che non erano vere. Con il coltellino io ci giocavo, ci pulivo le unghie, no. E il prete è venuto poi in chiesa e mi ha dato il perdono che non voleva darmelo. Mia madre e mia nonna hanno pregato di darmi il perdono. Da allora a me i preti non piacciono tanto. Non tutti i preti: ci stanno preti e preti».

    Riconoscere e pregare Dio come Padre

    Le storie di vita sono molto ricche di testimonianze circa la paternità di Dio. In molte di esse vi è il riconoscimento di Dio come Padre e, quindi, sono raccontate le esperienze di preghiera in cui i giovani si rivolgono al Signore come Padre.
    Le testimonianze di questo riconoscimento sono variegate, molto ricche e intense anche dal punto di vista emozionale. Anche se nessuno legge la preghiera a Dio, sentito come Padre, come un dono dello Spirito Santo, questo dono è comunque presente e attivo nella vita di molti giovani.
    «Sì ci credo e credo nel Dio fatto Uomo in Gesù il Cristo. Credo nello stesso tempo in Dio Padre che mi ama».
    «Per me Dio è un Padre, sin da quando ero piccola l’ho sempre visto come quello che mi vuole bene, che mi dà i doni maggiori. Succede sempre che mi affido a lui quando sono in difficoltà e lui mi accoglie, mi sostiene sempre».
    «Io vedo Dio nella mia vita come un padre che mi ha guidato, che mi conosceva, come dice la Scrittura, già prima della mia nascita; anche tutti i fatti apparentemente negativi erano orientati a questo, affinché io vedessi la sua mano. Io ho affrontato molti problemi e ho visto come Dio è intervenuto: quando è morta quella persona cara di cui parlavo, pensavo di non risollevarmi, eppure mi sono reso conto di come sono potuto andare avanti. Certo stando male dentro, eppure ho visto Dio che mi precedeva e che mi aiutava anche ad affrontare questa situazione, che mi aiutava a uscirne e a stare un po’ tranquillo».
    «Non lo so neanche io, non so perché, sì io vedo Dio come il Padre, un padre diverso, non padre carnale, diciamo. Come padre, perché mi ha sempre attratto la figura di Dio, di Dio pretore, del Dio che apre il buio e fu luce, insomma mi ha sempre attratto questa idea di padre pretore, del padre che ama il figlio. Secondo me l’amore tra padre e figlio è l’amore più forte. Quello fra padre e figlio, anche se non ce ne accorgiamo perché siamo sommersi da altre cose, secondo me è l’amore. Quindi mi piace avere questa immagine di Dio padre».
    «Se Dio mi ha creato mi ama. C’è sempre un discorso di riconoscenza. Una creatura come un figlio dovrebbe essere sempre riconoscente al Padre, anche seguire un po’ quello che magari lui intende la vita. Dio intende la vita fondata sull’amore. Le creature di Dio e amate da Dio dovrebbero fondare la loro vita sull’amore, io non sempre ci riesco però sono dell’idea che sia così».
    «Dio dev’essere visibile. Una parte viva della nostra vita. Dev’essere un amico che cammina con noi, con cui confidare le nostre ansie, le nostre preoccupazioni e soprattutto dev’essere visto come un padre sempre buono e pronto ad accogliere. Quando decide che la nostra vita è finita e ci chiama a sé è soltanto perché lo fa secondo un iter che ha predestinato per tutti...».
    In qualche caso questo riconoscimento della paternità di Dio è frutto di un cammino di crescita nella fede.
    Un’altra tappa importante della mia vita è stata quando io ho riconosciuto Dio come Padre. Mi ha così aiutato a vedere il Signore come Padre. Da allora io ogni volta che recitavo il Padre Nostro mi sentivo vibrare dentro. È una cosa molto particolare conoscere Dio come Padre.
    Accanto al riconoscimento di Dio come Padre vi è nelle storie di vita il racconto di esperienze di preghiera, spesso intesa come dialogo, tra i protagonisti delle stesse e Dio. In questi dialoghi vi è spesso il segno di quella confidenza e di quella libertà che caratterizzano i rapporti autentici tra padre e figlio/a.
    «Quando parlo con il Signore lo chiamo Gesù, non dico Dio, dico Padre. Quando sono disperata dico: «Papà» proprio in questo modo. È la persona più importante per me».
    «Per quanto mi riguarda io con Dio ci parlo. In un momento in cui posso stare da solo ci parlo proprio come parla un figlio con un padre. Ci litigo pure e questo è, secondo me, la prova che mi sento un figlio. Quindi io cerco il più possibile di dialogare con Lui».
    «Io dico le preghiere la sera: due per mia nonna e due per tutti gli altri defunti. Però non dico preghiere tipo Padre nostro o quelle che si dicono in chiesa... In genere parlo con Dio. Gli dico che cosa mi è successo durante la giornata. Oppure gli dico di aiutarmi. Però non è che prego Padre nostro, Ave Maria perché non mi sento di dirle».
    «Mi trovo a pregare per me e per mio marito. È una vita così bella, non ce la può togliere. La morte non riesco a vederla come un ricongiungimento al Padre, ma la vedo soltanto come la fine di un qualcosa di bello e basta, di quello che io adesso sto vivendo. Certe volte è come se facessi patti con il Padreterno».
    «Gli dico: fammi avere un figlio. Poi dopo averlo avuto gli chiederò di farmelo vedere fidanzato... e così via. Con Dio ci parlo come a un amico. Parlo di queste cose e non riesco a dire, Dio mio quando vuoi fammi congiungere a te, dico soltanto fammi vivere un altro poco».
    Vi sono però anche dei giovani che non riescono a sentire Dio come Padre, ma al massimo come un amico che in un caso assume il volto di un dio personale, simile a quelli della tradizione mesopotamica ai tempi di Abramo.
    «In un primo momento Dio lo immaginavo come padre di tutta la terra, di tutti gli uomini, come un grande capo famiglia. Invece è un Dio personale, un Dio che parla personalmente a me. Ho un rapporto diretto con Lui».
    È interessante il punto di vista di questa giovane che sostiene che coloro che non riescono a vivere Dio come Padre è perché non hanno vissuto l’esperienza di un amore autentico dei genitori e, quindi, del proprio padre.
    «Io ho veramente fatto esperienza di amore dei genitori, anche da parte di diversi amici che mi hanno veramente voluto bene. L’amore stesso del mio ragazzo... Secondo me è molto difficile dare a un bambino, a un uomo il senso di Dio, il senso della presenza di un padre, della presenza di Dio, se non si ha la testimonianza dell’amore umano, dell’amore sulla terra».
    A conferma della riflessione appena letta vi è la testimonianza di questo giovane che non riesce a pensare a Dio come padre, perché per lui la figura paterna è una figura severa da cui in qualche modo si sente respinto per cui preferisce pensare a Dio come a un amico.
    «Sento Dio più come amico, meno come padre, forse perché la figura del padre è per me una figura severa. Mentre, nonostante tutto, anche se ho paura del giudizio finale, Dio lo vedo sempre come un amico, a cui posso rivolgermi e parlare, cosa che non faccio con mio padre».
    Sempre a conferma del valore dell’amore dei genitori nella formazione nei giovani della maggiore o minore disponibilità a sentire Dio come Padre vi è, questa volta in positivo, questa toccante testimonianza di un giovane toscano.
    «Sicuramente era la mia mamma, perché stando più a contatto con lei mi ha insegnato lei a fare il Nome del Padre, il Padre Nostro così. Cosa bella che quando ero piccolo, prima di uscire, mi faceva il segno della Croce e mi dava un bacio. Ora ho 23 anni e tutte le mattine continua a farmi quel gesto. E quando sono a Siena o in quei luoghi dove la mia mamma non la trovo, mi segno con la Croce da solo e penso al bacio della mia mamma. Sono piccoli gesti che ti accompagnano la fede».

    Conclusione

    Come si è visto, i segni della presenza dello Spirito sono visibili nella vita di molti giovani appartenenti e non appartenenti a gruppi e associazioni ecclesiali. Questa parte sui segni impliciti della presenza dello Spirito sembra in contraddizione con la prima parte dell’analisi in cui si rilevava la carenza nelle storie di vita dei riferimenti espliciti allo Spirito Santo. La contraddizione non esiste perché questo differenziale di presenza tra i due tipi di segni indica solo che i giovani non sono stati educati attraverso una catechesi adeguata a riconoscere la presenza dello Spirito Santo e a una concezione trinitaria di Dio realmente interiorizzata. Per fortuna le esperienze di educazione religiosa li hanno posti in un cammino che ha fatto incontrare loro lo Spirito, che hanno attribuito semplicemente alla presenza di Dio Padre e di Gesù Cristo senza un riferimento alla Terza Persona della Trinità.
    Compete agli educatori il compito urgente di aiutare i giovani a dare un nome e a conoscere più profondamente la presenza misteriosa dello Spirito nella loro vita, magari attraverso l’educazione all’ascolto e al silenzio.

    PER CONCLUDERE GUARDANDO IN AVANTI

    Lo studio che abbiamo presentato ha una funzione descrittiva. Si preoccupa, in altre parole, di suggerire una fotografia della situazione attuale, attraverso quel campione di riferimento che è dato dai giovani intervistati nella nostra ricerca.
    Queste informazioni possono risultare preziose per ogni educatore, impegnato nell’affascinante avventura di guidare i giovani all’incontro con il Dio di Gesù, nella forza dello Spirito. Viene però spontaneo chiedersi: che fare? Se le cose stanno, grosso modo, così come sono state descritte, cosa possiamo programmare per far evolvere la situazione verso posizioni migliori?
    Il tema è impegnativo e non possiamo, di certo, affrontarlo in questo contesto. Non lo possiamo però eludere totalmente, attraverso qualche comodo rimando.
    Vogliamo sottolineare tre preoccupazioni: possono rappresentare una specie di indice logico di temi su cui pensare e su cui tornare.

    La coscienza esplicita dell’evento

    La lettura dell’esperienza giovanile dalla prospettiva dei «segni dello Spirito»… è un poco più consolante della verifica dei riferimenti espliciti alla sua presenza nella loro vita. Due interventi si rendono però urgenti.
    Da una parte, si tratta di far crescere la consapevolezza esplicita di quello che si sta vivendo senza rendersene conto. L’esempio più immediato è l’esperienza dell’innamoramento. Si tratta di una esperienza che precede la sua consapevolezza riflessa e critica, che corre su direzioni che afferrano l’esistenza nella sua trama più profonda. È importante, però, portare tutto questo a coscienza riflessa, chiamando per nome le esperienze e decidendo, in modo consapevole, il senso e l’orientamento che vogliamo imprimere a tutta la nostra esistenza, proprio a partire da questa avventura.
    Lo stesso vale per la presenza dello Spirito nella nostra vita. Egli è intimo a noi stessi più di quello che lo possiamo essere per noi stessi. Egli è la ragione e il fondamento delle nostre scelte. Va conosciuto e, in qualche modo, posseduto, per lasciarsi possedere da lui in totale affidamento.
    Dall’altra, anche i pochi e rapidi rilievi annotati nelle pagine precedenti fanno toccare con mano l’esigenza di portare a maturazione progressiva ciò che è presente solo in termini germinali e ad autenticità quei tratti di esistenza che stanno crescendo secondo modalità non proprio adeguate. La conoscenza riflessa dell’esperienza dello Spirito diventa una ragione di verifica, di critica e di rassicurazione dell’avventura della nostra vita: un dono di grazia che sostiene, incoraggia, sollecita. Per questo è davvero preoccupante constatare quanti pochi giovani «riconoscono» la presenza dello Spirito nella propria vita.

    Esperienze rivelatrici

    Viene superato il silenzio e ci si immerge in una consapevolezza riflessa, rispettosa del mistero e, nello stesso tempo, coinvolgente tutta la propria esistenza, solo a precise condizioni. Lo conferma la ricerca stessa e la nostra quotidiana esperienza. Non si tratta di conoscere intellettualmente qualcosa che si ignora. In questo caso, basterebbero informazioni adeguate. La via verso la conoscenza del mistero e l’affidamento a esso come fondamento, sperimentato e sperato, della propria esistenza, sono di natura esperienziale. Conosciamo, facendo esperienza. Facciamo conoscere, facendo fare esperienze.
    Per far incontrare i giovani con lo Spirito di Gesù, fino a riconoscerlo presente e operante nella propria esistenza, ragione di una qualità di vita cristiana, è indispensabile aiutarli a fare esperienze in questa logica. Tocca alla comunità ecclesiale e agli operatori di pastorale prevedere e programmare esperienze adeguate.
    Quali possano essere queste esperienze è facile dirlo: incontri ecclesiali significativi, partecipazione a gruppi e movimenti di forte carica spirituale, celebrazioni di alto profilo, contatto con persone e avvenimenti che siano capaci di inquietare e sollecitare…
    Certo, tutto questo non è sufficiente. Non si fa esperienza solo perché si prende parte a qualcosa di significativo. L’esperienza richiede l’interiorizzazione del vissuto e la ricollocazione del suo messaggio nel quadro motivazionale di una persona. L’esperienza deve essere, in altre parole, compresa e meditata, per diventare vera esperienza arricchente.[7] Questa, però, è l’unica strada percorribile per assicurare l’esperienza dello Spirito.

    La responsabilità dell’educatore

    Anche in questo contesto, come sempre quando ci sono di mezzo problemi seri, l’appello corre spontaneo verso l’adulto educatore.
    Lo Spirito si fa presente e sollecita a vivere l’esistenza quotidiana dalla sua esperienza, attraverso segni. Questa è la logica della vicinanza di Dio alla nostra vita.
    Uno dei segni più eloquenti è l’adulto, impegnato nel servizio educativo, piegato verso i suoi giovani per restituire gioia di vivere, libertà di sperare e consapevolezza di una dignità grande che chiede capacità di protagonismo.
    Il servizio dell’educatore verso il riconoscimento della presenza dello Spirito si dispiega secondo modalità diverse. Il far fare esperienza, come è stato appena ricordato, è una di queste espressioni. Un’altra, collegata alla precedente, urgente e difficile, è costituita dalla capacità di «parlare bene» dello Spirito di Gesù. Purtroppo, la teologia tradizionale non ci dà buoni strumenti linguistici. Vanno riconquistati, nella fatica dello studio e della ricerca.
    In questo servizio, urgente e funzionale, l’educatore vive la sua presenza nella consapevolezza esplicita e riaffermata di essere «soltanto servo» della presenza potente di Dio. Fa, si impegna, progetta e inventa, sapendo di dover mettere a disposizione una competenza grande e motivata; riconosce però di produrre risultati più grandi delle premesse che ha saputo porre.
    Come Maria, fa nascere vita nuova e consapevolezza riflessa di questa novità, non «nella carne e nel sangue», ma per la potenza dello Spirito, di cui si propone «segno», povero ed eloquente.


    NOTE

    [1] Rahner K., Teologia dall’esperienza dello Spirito. A proposito del nascondimento di Dio, Edizioni Paoline, Roma 1978, 349-374.
    [2] «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (DV 13).
    [3] C. M. Martini, Tre racconti dello Spirito, Centro Ambrosiano, Milano 1997, 11.
    [4] Il riferimento principale è alle ipotesi e ai contributi della ricerca L’esperienza religiosa dei giovani italiani, LDC, Leumann 1996-1997.
    [5] Si veda, per esempio: Favale A. (ed.), Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico-spirituali ed apostoliche, LAS, Roma 1980; I movimenti nella Chiesa negli anni ’80, Jaca Book, Milano 1982; Brunetta G. – Longo A. (edd.), Italia cattolica. Fede e pratica religiosa negli anni novanta, Vallecchi editore, Firenze 1991. Il riferimento principale è alle ipotesi e ai contributi della ricerca L’esperienza religiosa dei giovani italiani, LDC, Leumann 1996-1997.
    [6] La teologia ha tentato, con fortune alterne, degli elenchi. Una proposta interessante è offerta da C. M. MARTINI, Tre racconti dello Spirito, Centro Ambrosiano, Milano 1997, 39-56.
    [7] Per un approfondimento di questo tema, importante nell’ambito educativo, si rimanda a Tonelli R., Per la vita e la speranza. Un progetto di pastorale giovanile, LAS, Roma 1996, 143-146.


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