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    Comunità ecclesiale e pastorale universitaria



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1999-03-11)


    Il rapporto tra comunità ecclesiale e università può essere risolto in diversi modi. Lo documenta il vissuto ecclesiale attuale e lo mostra abbondantemente quello che è capitato lungo i secoli. In questo dossier, la rivista fa una sua scelta precisa, coerente con il modello teologico-pastorale che da anni persegue. Il mio contributo commenta e giustifica questo modello, fornendo solamente il quadro teorico da cui rileggere l’insieme delle proposte.
    Con l’espressione «università» indico le persone che, a titolo diverso, ne fanno parte e, nello stesso tempo, l’istituzione nel suo insieme.
    Chiamo «comunità ecclesiale» l’insieme dei discepoli di Gesù, organizzati nell’istituzione ecclesiale e impegnati a realizzare l’annuncio del Vangelo e l’attuazione nel tempo della salvezza di Dio.[1]
    Studio il rapporto tra comunità ecclesiale e università dal punto di vista della qualità dell’azione pastorale. Per questo metto l’accento sulla comunità ecclesiale, come soggetto dell’impegno verso l’università e mi chiedo cosa può fare per assolvere le sue responsabilità. Ben diverso sarebbe la ricerca se essa ponesse come soggetto l’università stessa o le diverse realtà civili che si confrontano con essa.

    PER SUPERARE UNA PASTORALE DEL GENITIVO

    Il titolo del paragrafo ha il tono delle affermazioni per gli addetti ai lavori e può essere interpretato in termini non univoci. Lo preciso, prima di entrare nel merito.

    I termini della questione

    Chiamo «pastorale del genitivo» (pastorale «di»...) l’insieme delle azioni pastorali rivolte verso soggetti specifici e particolari. Nella pastorale del genitivo, le pastorali sono tante quante sono i destinatari dell’azione della comunità ecclesiale.
    Di volta in volta, la pastorale diventa «pastorale dei giovani» (che ha cioè i giovani come destinatari), «pastorale degli anziani o degli ammalati», quando destinatari sono gli anziani e gli ammalati. Queste diverse pastorali sono assai differenti tra loro e condividono solo i sommi principi.
    La maturazione teologica attuale, ricostruita attorno alla meditazione dell’evento dell’Incarnazione, suggerisce un’alternativa alla pastorale del genitivo: l’assunzione piena della logica ermeneutica. Questo è l’orientamento verso cui da anni la rivista è sensibile.
    Con l’espressione «logica ermeneutica» intendo la ricomprensione e la realizzazione di un’azione pastorale pensata e attuata «in situazione», accogliendo le diverse realtà come luogo culturale capace di dare e ricevere i contributi originali dei due soggetti che interagiscono (la comunità ecclesiale e, di volta in volta, i giovani, gli anziani, gli ammalati, il mondo complesso dell’università).
    In questo modo, la pastorale è costitutivamente unica, anche quando si rende concreta secondo modalità differenti. Non ci sono un soggetto e dei destinatari, ma tutti gli interlocutori sono soggetto, anche se a titolo e con responsabilità diverse. Le diverse modalità di realizzazione diventano guadagno reciproco per l’unica azione pastorale della comunità ecclesiale.

    La proposta

    Con questa precisazione, che non è solo di forma, posso ritornare al mio problema.
    L’università, nell’articolazione e complessità con cui ho dichiarato di comprendere il termine, è una realtà «laica». Si riferisce, infatti, ad un compito di sviluppo della cultura per la maturazione dell’uomo e delle istituzioni civili. Non ha nessuna finalità ecclesiale e non è quindi referente, in senso stretto, dell’azione pastorale. Al massimo, lo possono essere le persone che vivono in essa, ma in quanto soggetti globali e non certo in quanto soggetti dell’università.
    Questo punto di vista vuole superare chiaramente l’ipotesi di una pastorale del genitivo: l’azione ecclesiale referenziata sull’oggetto «università». Non conduce però assolutamente all’ipotesi contraria, quella del disinteresse e della separatezza, come se non ci fosse nessun terreno di confronto e di scambio, visto che i due interlocutori hanno problemi e prospettive distanti e diverse.
    L’alternativa ermeneutica orienta in modo concreto una proposta differente.
    Mi piace pensare all’azione pastorale della comunità ecclesiale verso le realtà della vita quotidiana, nello spirito della Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi […] sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (GS 1). Di conseguenza, l’esperienza universitaria, come ogni evento della vita delle persone, è momento dell’esistenza della comunità ecclesiale, luogo del suo essere nella storia e della sua missione. Non lo è come dimensione specifica, né tanto meno come qualcosa da integrare, dopo aver fatto transitare dal mondo «profano» a quello «sacro». La comunità ecclesiale considera le realtà della vita quotidiana, nella specificità, originalità e autonomia, come quella «umana carne» concreta in cui esiste e attraverso cui, nella grazia dell’umanità storica, dà volto alla passione di Dio per la vita dell’uomo.
    Di conseguenza, due atteggiamenti orientano il progetto della comunità ecclesiale nei confronti dell’università.
    Da una parte si chiede cosa può fare, in quanto comunità ecclesiale e nello sviluppo del suo ministero pastorale, al servizio di questa realtà e nel rispetto della sua specificità.
    Dall’altra si chiede, con atteggiamento di grande disponibilità, quale guadagno può ricavare nel confronto e nel servizio, in vista di una comprensione più piena del suo essere ecclesiale.

    LA QUALITÀ DEL SERVIZIO PASTORALE

    Perché la comunità ecclesiale si preoccupa di una pastorale per l’università? In che modo la comunità ecclesiale può realizzare il suo servizio pastorale in e per l’università?
    La risposta ai due interrogativi rappresenta una specie di condizione generale di possibilità. Offre cioè delle indicazioni su cui verificare e progettare la qualità del servizio pastorale in modo che sia coerente con il modello globale suggerito nel paragrafo precedente. Ricordo rapidamente qualcosa sui due temi.

    Perché una pastorale in università

    La prima questione è davvero pregiudiziale: con quale intenzione e con quale preoccupazione la comunità ecclesiale si pone di fronte al mondo dell’università? Che cosa spera di ottenere attraverso il suo servizio pastorale?
    La comunità ecclesiale è impegnata a realizzare nel tempo la salvezza e, per questo, annuncia, con forza e coraggio, il Vangelo di Gesù. Su questo l’accordo è ampio. La questione spinosa è un’altra: cosa significa tutto questo? Quale salvezza annuncia e quale proposta di vita persegue?
    Qui davvero ci si divide oggi.
    La prospettiva teologico-pastorale in cui la rivista si riconosce propone una figura precisa di salvezza e, di conseguenza, ricostruisce un’intenzione molto concreta.

    Quale salvezza?

    La salvezza di Gesù Cristo è un evento globale e unitario, che riguarda tutto l’uomo e tutta la storia (personale e collettiva) in cui si svolge la sua esistenza. Quest’evento si realizza nel tempo, attraverso momenti parziali e progressivi, che si implicano reciprocamente, senza ridursi l’uno all’altro.
    La dimensione più alta e piena della salvezza riguarda la comunione definitiva con Dio. La sua realizzazione comporta, di fatto, la liberazione dal peccato e l’entrata in comunione con Dio: la ricostruzione del progetto di Dio verso l’uomo e per l’uomo attraverso l’offerta di comunione, l’offerta di diventare il suo popolo «che lo riconosca nella verità e fedelmente lo serva» (LG 9), l’offerta di essere introdotti nella famiglia di Dio, a titolo di figli per grazia.
    Tutto questo è dono dell’amore di Dio. Chiede, come ogni dono suo, una risposta, libera e responsabile. La nostra risposta consiste nell’obbedienza a Dio, nel riconoscimento di Dio come il Signore. Questo livello di salvezza si attua in modo iniziale nella storia quotidiana. La sua pienezza e il suo consolidamento sono nel futuro del Regno.
    La realizzazione nel tempo della salvezza, come offerta del dono di Dio e come accoglienza nella risposta personale, assume la dimensione concreta dei molti interventi che assicurano una più alta e autentica qualità di vita (sul piano personale e strutturale, nelle relazioni intersoggettive e nei rapporti con l’ambiente e la natura, nei modelli culturali e negli orientamenti valoriali…). La salvezza cristiana riguarda, infatti, anche la liberazione, politica e sociale, da tutte le forme di alienazione e di oppressione, proprio mentre investe anche la sfera strettamente personale, in modo che ogni uomo possa diventare costruttore cosciente e responsabile del proprio destino.
    La tensione esistente tra le diverse dimensioni della salvezza non può essere risolta scegliendo l’una o l’altra, perché tale scelta significherebbe lo svuotamento stesso della salvezza. Non si tratta di sapere cosa preferire, ma di accettare la correlazione stabilita da Dio e di giocare la propria risposta in questa globalità.

    Una salvezza per la vita

    Consapevoli di questo dato teologico, in questi anni abbiamo continuamente ricostruito l’intenzione e la preoccupazione di ogni azione pastorale attorno alla «vita» e alla «speranza»: alla pienezza di vita e al suo senso oltre le provocazioni di cui la vita stessa è carica (dolore e morte ne sono l’emergenza più tragica).
    L’intenzione e la preoccupazione che sollecitano la comunità ecclesiale verso un forte impegno pastorale, sono costituite perciò dall’urgenza di realizzare per ogni uomo, nelle situazioni e istituzioni concrete in cui vive, quella pienezza di vita e quel consolidamento sicuro della speranza che è la grande e definitiva ragione della stessa esistenza di Gesù.
    La ragione della presenza e il significato del servizio (la «preoccupazione», in una parola) della comunità ecclesiale sono quindi le stesse che inquietano e affascinano ogni persona. Si trova quindi in compagnia vera e sincera con tutti. Rifiuta e contesta solo chi invece fa del sopruso, della violenza, dell’ingiustizia… della morte la ragione e il senso della loro presenza.
    La comunità ecclesiale, cercando la vita e la speranza, la vuole piena e totale. Per questo «evangelizza»: dice forte, a fatti e a parole, che possiamo essere nella vita e restare radicati nella speranza solo se accettiamo di consegnare la nostra esistenza al mistero di Dio nel progetto di Gesù e ci impegniamo a vivere la nostra stessa esistenza e a costruire strutture di servizio nella logica di questo stesso progetto. Certo, la potenza di Dio in Gesù è all’opera molto più radicalmente ed efficacemente del livello di consapevolezza riflessa che possediamo e non è prigioniera nei confini ecclesiali. L’amore alla vita spinge la comunità ecclesiale ad allargare progressivamente questa consapevolezza, perché chi riconosce il mistero in cui è avvolto e vive, può operare per la vita sua e degli altri in modo più autentico e più efficace. Evangelizza non per fare dei proseliti, ma per offrire la ragione e l’esperienza più forte del dono di vita di cui è segno e inizio.
    La comunità ecclesiale riconosce la responsabilità specialissima dell’università sulla frontiera della vita. Il servizio alla vita esige la costruzione di una trama di modelli e di realizzazioni culturali che davvero mettano al centro di ogni preoccupazione la vita di ogni persona e dei più poveri soprattutto. Sa, nello stesso tempo, che il servizio alla vita richiede il riferimento progressivo alla morte e alla resurrezione di Gesù. Non può quindi isolarsi dal mondo universitario, crogiuolo privilegiato di questa produzione.
    In conclusione, la comunità ecclesiale fa pastorale in università per consolidare il raggiungimento pieno di un obiettivo che riguarda l’uomo, la qualità della sua vita e la costruzione di istituzioni che siano al suo servizio. Questo obiettivo è davvero comune alla comunità ecclesiale e a tutti gli uomini, anche se poi diventa principio di divisioni profonde proprio nel momento della sua comprensione e della sua realizzazione. La comunità ecclesiale avverte il servizio come drammaticamente urgente, sulla forza di mille segnali inquietanti; lo riconosce speciale e delicato perché si riferisce ad uno spazio dove proprio la vita e la sua qualità formano l’oggetto di attenzioni, di ricerca, di sperimentazione.

    Quale pastorale in università

    L’intenzione determina l’obiettivo dell’azione pastorale della comunità ecclesiale in università. Sull’obiettivo si misura e si qualifica il modello operativo.
    Di qui la seconda questione: quale azione pastorale in e per l’università?
    Non mi compete entrare nei particolari. Resto sul piano generale, rilanciando alcune linee di orientamento. Le raccolgo attorno a tre preoccupazioni.

    Un atteggiamento di fondo

    L’atteggiamento di fondo è una conseguenza logica delle esigenze appena elencate: l’accoglienza rispettosa, riconoscente e critica.
    Il sostantivo indica l’urgenza; i tre aggettivi ne qualificano l’esercizio.
    Accoglienza significa riconoscere quello che sta avvenendo nella realtà universitaria come parte di sé, della propria esistenza, della propria vita. Non è un atteggiamento né facile né frequente. Abbiamo tutti la tentazione di guardare a chi è diverso da noi con la pretesa di giudicarlo o di ridurlo alle nostre misure. Arriviamo persino ad interpretare modi di fare non abituali come un attentato, persino premeditato, rispetto al nostro mondo. Una comunità ecclesiale, impegnata a far nascere vita e a consolidare la speranza nella realtà, nel nome e per la potenza del Dio di Gesù, programma uno stile ben diverso di rapporto.
    L’accoglienza non è però rassegnata né rinunziataria. Ho utilizzato tre modelli di qualificazione: un’accoglienza rispettosa, riconoscente e critica. La comunità ecclesiale riconosce la specificità dell’università e rifiuta ogni tentazione di strumentalizzazione. Accoglie la diversità e le provocazioni che da essa nascono, anche quando sono persino eccessivamente inquietanti, come un contributo prezioso di cui prendere atto e dal cui guadagno può ricomprendere più a fondo il significato stesso della sua missione pastorale. Riconosce, per esempio, nel crogiuolo di produzione della cultura, un evento di libertà da rispettare, su cui misurarsi, da cui imparare… Resta sempre testimone di un progetto sulla vita che le è stato consegnato e la cui verità ricade come dono per tutti gli uomini che amano e cercano la pienezza di vita. Per questo sa alzare la voce nella denuncia, con la stessa autorevolezza con cui riconosce e accoglie, quando costata che i modelli culturali perseguiti offendono la dignità della persona, riducono l’attenzione alle categorie privilegiate a scapito dei più poveri, quando la cultura prodotta cessa di essere espressione di solidarietà e diventa motivo di sopraffazione, quando la comprensione del mistero della vita viene ristretto nella prigione di ciò che può essere decifrato dalla scienza… quando, in una parola, qualità di vita e speranza non rappresentano l’orizzonte di ogni impegno di liberazione e di progresso.

    Un processo concreto

    Sul piano operativo l’accoglienza si realizza nella convergenza di due linee di azione. Le indico a battute veloci.

    * La vita in università.
    La presenza della comunità ecclesiale nell’università è realizzata prima di tutto attraverso la presenza di credenti, a tutti i livelli istituzionali. L’affermazione riconosce un dato di fatto e rilancia un’esigenza pastorale.
    Il dato di fatto è d’immediata constatazione: i credenti condividono nell’università la trama esistenziale di tutti. Non possiedono ricette segrete e salvagente speciali. Spesso non hanno nessuna pretesa di differenziarsi.
    L’esigenza pastorale nasce dal modello teologico accennato.
    I credenti nell’università sono il lievito messo in una misura di farina, per rendere pane di vita il frutto dell’incontro e della condivisione. A loro compete «dare volto» alla presenza, diffusa e pervasiva, della comunità ecclesiale, impegnata a realizzare la salvezza di Dio. Il loro compito viene qualificato nella logica del tipo di salvezza che la comunità ecclesiale vuole portare a compimento.
    Questi credenti si impegnano, al livello della loro responsabilità professionale, a creare cultura «dalla parte della vita»: una cultura che orienti il processo di crescita della vita e della speranza, e una cultura che spalanchi l’esistenza dell’uomo verso il mistero che ci avvolge, in cui esistiamo e per cui speriamo. Non hanno un compito diverso da quello che loro compete in quanto studenti, docenti, tecnici, personale ausiliario. Nella realizzazione, professionalmente competente, di questo compito trasformano la realtà di cui sono parte in uno spazio di vita e di speranza per tutti.
    * La vita ecclesiale verso l’università.
    La comunità ecclesiale esiste istituzionalmente sulla parola, sulla comunione e sui sacramenti. Sono le sue manifestazioni tipiche.
    Rappresentano il riferimento necessario per chi ha cercato, nella sofferta quotidianità, di esserela Chiesadi Dio per la vita del mondo.
    Una pastorale, impegnata a riesprimersi nell’accoglienza della vita quotidiana dei soggetti che vuole servire, si interroga sul significato di questi momenti espliciti di ecclesialità. Lo fa dalla prospettiva nuova che ha scelto. Non si chiede, in altre parole, qual è il senso della vita e dell’università, vista la centralità ecclesiale di parola, comunità e sacramenti.
    Si chiede, invece, qual è la loro funzione, visto che è la vita piena e abbondante di tutti la cosa che conta e che inquieta. Dalla pastorale di riconquista, si transita verso una pastorale di animazione.
    Qual potrebbe essere, dunque, il significato e la funzione della vita ecclesiale e delle sue espressioni simboliche?
    La risposta corre su due affermazioni complementari. Da una parte, va certamente riaffermata la centralità di questi eventi nell’ordine della salvezza, come sostegno e anticipazione della grande esperienza di vita verso cui siamo in tensione.
    Dall’altra, è urgente ripensarli e riattualizzarli, in modo che possano risultare significativi e salvifici per chi non può fuggire dal loro quotidiano professionale.
    Non è immaginabile che il passaggio dalla vita quotidiana alla sua celebrazione ecclesiale richieda lo sforzo di abbandonare e dimenticare i toni e le preoccupazioni della vita stessa.

    Alcuni momenti speciali

    L’esperienza di molte persone impegnate seriamente nella pastorale universitaria conferma l’opportunità di prevedere anche alcuni momenti speciali, all’interno dell’università stessa e nel servizio che la comunità ecclesiale realizza verso l’università nelle sue strutture.
    Consistono in quell’insieme di attività che tutti conosciamo e di cui si fa qualche cenno anche nel dossier: incontri speciali, attività «per» gli universitari, servizi all’interno dell’ambiente universitario, gruppi e movimenti specializzati, giornate e convegni, dentro e fuori l’ambiente universitario…
    Questi interventi speciali non sono alternativi al ritmo normale, quello appena ricordato.
    Sono invece funzionali e complementari. Non possono rappresentare cioè l’obiettivo perseguito con tutte le risorse, e l’atteggiamento con cui la comunità ecclesiale si pone all’interno dell’università.
    Lo so che le cose non sempre vanno così… a causa del modello teologico che sta a monte.

    I CREDENTI PRESENTI NELL’UNIVERSITÀ

    Come ho appena ricordato, la comunità ecclesiale, nel tessuto quotidiano della vita dell’università, ha un volto concreto, verificabile e sperimentabile: quello rappresentato dai credenti che operano, lavorano, studiano, vivono nel tessuto della realtà universitaria.
    Essi possono realizzare la responsabilità di cui si riconoscono portatori, solo se crescono in una spiritualità adeguata. Quella di… resistenza e di conquista difficilmente può fare da sostegno vitale al modello globale che sto suggerendo.
    Essa ha come terreno di maturazione e di verifica la vita e i compiti dell’università. Si esprime quindi in quel progetto di produzione e animazione culturale secondo lo spirito del Vangelo, su cui spesso oggi si insiste. Assume però una nota che viene proprio dell’esperienza radicale di Gesù nella comunità ecclesiale dei suoi discepoli: la speranza, coraggiosa, profetica e critica.
    Possiamo ritrovare la gioia e il coraggio di dire parole più grandi dei gesti che facciamo, solo se queste parole non sono le nostre, anche se le pronunciamo noi e le riempiamo delle nostre esperienze. Per questo parliamo della speranza nel nome di Gesù di Nazareth, parola che viene dal silenzio del mistero e ci riporta sempre alla responsabilità di chi tratta con il mistero.
    Gesù di Nazareth è, infatti, la presenza sconvolgente di Dio nella nostra vita e nella storia. Dice chi siamo, verso dove siamo in cammino, come ci possiamo arrivare, facendoci toccare con mano che tutto questo non è una proposta, ma un’esperienza.
    Ci riporta, di conseguenza, al cuore del conflitto quotidiano tra speranza e disperazione: la domanda sul senso e il fondamento su cui radicare la risposta.
    Questa speranza è contagiosa. Nelle esperienze che condivide con tutti, il credente porta quel pizzico di fantasia e di prospettiva che la speranza gli dona.
    Percepisce un disagio crescente di fronte a tante situazioni. Si sente soffocare, nei suoi sogni e nei suoi progetti. Ha paura di essere costretto a spegnere l’insofferenza dell’utopia, per vivere a proprio agio nella mischia delle vicende quotidiane, sotto la guida sicura del «buon senso». Chi fa esperienza della salvezza di Dio e si sente immerso nella pace del perdono e dell’amore, ha sempre un cuore affamato di giustizia: soffre più dolorosamente l’ingiustizia e lotta più intensamente per il suo superamento.
    Lo fa però in un modo stranissimo, che infastidisce i «rivoluzionari» purosangue. Contestiamo l’esistente e cerchiamo con ansia alternative, gridando la grande promessa di Dio: «Fra poco farò qualcosa di nuovo. Anzi ho già incominciato. Non ve ne accorgete?» (Is 43, 18-19). Anche le parole più dure e i gesti più impegnativi sono pronunciati in un profondo atteggiamento di speranza. Esso porta a sognare il futuro, consapevoli che per la potenza di Dio sarà più felice del presente. Ma porta anche a leggere il presente nello sguardo penetrante della fede, che ci permette di scorgere i segni di una novità che sta germinando, anche sotto le ceneri della sofferenza, dei soprusi, delle incertezze.


    NOTA

    [1] Riporto una citazione che sviluppa e approfondisce la mia indicazione generale: «Comunità cristiana è la comunità dei fedeli, unita dallo Spirito Santo, conformata al Figlio Gesù Cristo e chiamata, con l’intera creazione, al Regno di Dio, il Padre. La relazione con lo Spirito Santo dona alla chiesa la sua specifica forma di unità, cioè l’unità nella molteplicità; lo Spirito la rende ‘ecclesia’, assemblea del popolo di Dio. La relazione con Gesù Cristo dona alla chiesa il suo specifico contenuto, quello di essere chiesa alla sequela di Gesù; in questo modo essa diventa corpo e sposa di Cristo. La relazione con il Padre definisce l’origine e il fine della chiesa, cioè la creazione e il Regno di Dio; in quanto popolo di Dio, essa li unisce entrambi, nel senso di una comunità in cammino con tutte le creature verso la pienezza del Regno di Dio» (KEHL M., Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1998, 84).


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