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    Educazione e pastorale



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2000-06-43)


    Chi si mette a lavorare in ambito di pastorale, presto o tardi, si scontra con una domanda complicata: si può educare alla fede? Essa sta alla radice di ogni impegno pastorale.
    Possono cambiare le parole, ma la sostanza resta.
    La domanda nasconde trabocchetti insidiosi… e non è sufficiente di certo cercare vie di soluzione che cercano di semplificare il problema, trasformando, per esempio, «alla» in «la» (educare alla fede o educare la fede?).
    Se rispondiamo con un sì pieno e rotondo, per fare spazio alla quotidiana fatica dell’operatore pastorale, rimbalza inquietante la constatazione che la fede è dono di Dio, offerto gratuitamente a tutti, come espressione fondamentale del suo amore.
    Se rispondiamo di no, proprio per rispettare la priorità del dono di Dio, va in crisi l’impegno che mettiamo per un servizio pastorale serio e qualificato. A pensarci, se prevale il no, ci rendiamo conto di dover girare troppo spesso verso l’alto… gli insuccessi e le crisi di cui quotidianamente facciamo lamento.
    Una risposta tentennante, tra il sì e il no, lascia tutte le incertezze e serve solo a rimandare la questione spinosa.
    Proprio perché la risposta richiede un capacità riflessiva alta e la disponibilità a pensare su differenti livelli di comprensione, nei corsi di pastorale la domanda serve a verificare il livello di preparazione acquisita.
    Una prima comprensione della questione
    Tra le righe della domanda sta una questione: il rapporto tra educazione ed evangelizzazione. Ogni gesto pastorale è, infatti, nello stesso momento e con la stessa intensità, un evento di educazione e la proposta del mistero di Dio per la nostra vita (dunque: un evento di evangelizzazione).
    In genere, la pastorale e, soprattutto, la pastorale giovanile, sono definite «educazione alla fede».
    Anche gli ultimi documenti di nostri Vescovi, dedicati alla pastorale giovanile, insistono molto sulla educazione e sulla loro centralità. Dicendo «educazione» utilizziamo una espressione solo analogica, come quando diciamo che il cielo sorride o piange…? Oppure, invece, riconosciamo che la pastorale possiede una sua reale dimensione educativa, tanto da poter assumere, anche nei suoi processi specifici (quelli che il termine «evangelizzazione» intende ricordare), le esigenze tipiche dell’atto educativo?
    Non possiamo pensare che esista un ambito destinato all’educazione e uno alla evangelizzazione. Non si tratta, in altre parole, di stabilire in quale dose utilizzare le due componenti, come se l’azione pastorale assomigliasse ad una torta da confezionare, dosando bene i diversi ingredienti. Le due dimensioni si compenetrano e si richiamano reciprocamente.
    Ci vuol poco a constatare che educazione e evangelizzazione non sono comunque la stessa cosa e comportano processi notevolmente differenti.
    L’educazione riguarda l’ambito della produzione e della comunicazione della cultura, attraverso l’esercizio progressivo di una razionalità critica, in vista della personale crescita in umanità. Ha come preoccupazione sostanziale e specifica la maturazione della persona nella società, attraverso la proposta di valori, il confronto con modelli e scelte di vita, la gestione equilibrata degli interessi personali e dei rapporti intersoggettivi.
    L’evangelizzazione invece ha come oggetto la proposta, esplicita e tematica, del Vangelo del Signore, per sollecitare alla sua accoglienza, come unico e fondamentale evento di salvezza. La comunità ecclesiale assolve questo compito utilizzando una struttura comunicativa tutta speciale. La testimonianza della fede vissuta e confessata è l’unico strumento linguistico adatto per esprimere il mistero di Dio. Infatti, l’annuncio di salvezza si fa parola umana per essere parola per l’uomo (DV 13); essa però non è mai in grado di obiettivare l’evento misterioso di cui è manifestazione. Per questo nella parola umana l’evento è presente ed assente nello stesso tempo, presente nella povertà del segno e assente perché la potenza dell’evento non è riducibile alla mediazione del suo segno.

    Le risonanze pratiche

    Ho già ricordato che non è sufficiente evitare di mettere all’ordine del giorno la questione, con la scusa magari delle mille cose più urgenti da realizzare. In ogni gesto e in ogni parola il problema si pone. Le diverse soluzioni pratiche, che riempiono la giornata di ogni operatore di pastorale, rappresentano un modo di esprimere il proprio punto di vista e, in ultima analisi, una formulazione teorica di possibili soluzioni.
    Faccio qualche esempio, tentando una rapida panoramica dell’esistente. La necessaria schematizzazione spero che abbia il vantaggio di non permettere a nessuno di concludere: parla di me… ce l’ha con me, o… al contrario, ce l’ha proprio con lui e con lui.
    In una comunità ecclesiale viene decisa una celebrazione solenne dell’Eucaristia, per aiutare i giovani a vivere una festa. Le soluzioni pratiche sono molte e diverse. Viene invitato a presiedere un vescovo importante… non è conosciuto da nessuno dei partecipanti e nessuno si preoccupa di farlo conoscere… però è importante per le responsabilità che è chiamato ad assolvere in qualche organismo ecclesiale. Si organizza un ingresso solenne in Chiesa, con una processione e canti a tre voci. Il presidente fa una omelia da manuale, dove tutte le virgole sono appostissimo, ma con un tono e un linguaggio poco o punto capace di assicurare coinvolgimento.
    Questa Eucaristia è la stessa celebrata da un piccolo gruppo, dopo una giornata vissuta assieme, con toni più domestici e con una partecipazione più intensa e immediata? Si può rispondere di sì, sottolineando l’oggettività dell’evento… o si può rispondere «nemmeno per sogno», sottolineando la dimensione soggettiva dell’evento. La questione è un’altra: l’evento eucaristico sporge certo verso il mistero… ma ciò che si sperimenta ha senso, valore, importanza… nei confronti del mistero stesso? E quale influsso?
    Ho detto, con altre parole, la qualità del rapporto tra educazione e evangelizzazione.
    Pensiamo ad un’altra questione che quotidianamente ci preoccupa: il rapporto tra contenuti e modelli comunicativi nella catechesi.
    La questione centrale è quella della verità dei contenuti o quella dei modelli comunicativi? Non basta decidere l’importanza delle due dimensioni. Nelle decisioni concrete prevale sempre un aspetto sull’altro. Di solito, l’attenzione corre verso i contenuti, con la prospettiva che non possiamo svuotarli neppure di una virgola… o al massimo possiamo cercare un adattamento provvisorio alle concrete situazioni…
    Anche questo è un modo di risolvere il rapporto tra educazione e evangelizzazione.
    Un altro modo è quello perseguito da quelle comunità ecclesiali che si preoccupano di far funzionare a puntino tutti gli aspetti di coinvolgimento (modelli comunicativi ed espressivi, ambiente e clima, conduzione dell’incontro…), senza eccessiva attenzione alla verità dell’evento.
    Smetto sugli esempi… ciascuno di noi ne può raccontare quanti ne vuole. Resta la questione: allora… quale rapporto?

    L’evento dell’Incarnazione come fondamento

    La definizione del rapporto tra educazione e evangelizzazione nei processi di educazione alla fede, pone a fondamento una comprensione teologica del mistero di Dio e della sua azione nella storia personale e collettiva.
    Il confronto tra le diverse posizioni pratiche e la scelta di assumerne una tra le tante, richiedono di conseguenza la verifica sui fondamenti teologici della riflessione e dell’azione pastorale.
    In questi anni, in molti ambienti pastorali, sotto la spinta del Documento dei Vescovi italiani Il rinnovamento della catechesi, abbiamo imparato a riferirci all’evento dell’Incarnazione. La ricomprensione del fatto insperato di un Dio, misterioso e ineffabile, che si fa volto e parola nella grazia dell’umanità di Gesù di Nazareth, è diventato il criterio decisivo per ogni questione pastorale.
    Anche la questione del rapporto tra educazione e evangelizzazione e delle conseguenze sul piano della possibilità o meno di educare alla fede, trova nell’Incarnazione la sua radice teologica.
    Non sto a ripetere quello che ho già sviluppato a lungo in un precedente intervento, dedicato appunto alla ricomprensione dell’evento dell’Incarnazione. Ricordo solo una riflessione, che sgorga dalla ricomprensione dell’Incarnazione e che sta alla radice della possibilità di risolvere, in un certo modo, anche la questione che sto studiando: la coscienza di una sacramentalità diffusa.
    La nostra vita quotidiana, compresa dalla prospettiva dell’Incarnazione, è una specie di grande sacramento in cui Dio è presente e operante per portare a pienezza il suo progetto su noi e sulla storia.
    Riconoscere l’importanza della vita quotidiana significa, perciò, prima di tutto, riconoscere la sua sacramentalità: riconoscere cioè che nella nostra vita si realizza un rapporto misterioso tra ciò che si vede e si può costatare facilmente e quello che non riusciamo a vedere con gli strumenti che possediamo.
    Ancora una volta, per comprendere il significato di affermazioni tanto impegnative, dobbiamo attivare un confronto con Gesù.
    Chi lo avvicinava, per incontrarlo nella sua verità più profonda, era sollecitato a scoprire in lui il volto e la parola di Dio. L’umanità di Gesù si porta dentro un evento più grande, la sua ragione d’essere più intima: Dio comunicato all’uomo in un gesto d’impensabile gratuità.
    Quello che riconosciamo per Gesù, vale anche per noi, per la nostra umanità e per la nostra vita. In lui e per mezzo suo anche in noi, un mistero più grande è presente in quello che vediamo.
    La nostra vita può essere descritta da quello che si vede e si costata. Abbiamo un nome, una famiglia, una storia. Abitiamo in un posto. Ci mettiamo a lavorare, cerchiamo degli amici, amiamo e soffriamo. Tutto questo è molto concreto e preciso. Nella vita quotidiana quello che si vede e si manipola non è però tutto. Quello che costatiamo, siamo e produciamo della nostra vita, è veramente «nostro», frutto della fatica del nostro esistere. In esso però è presente un evento più grande, che ci permette d’essere quello che siamo.
    A questo livello misterioso si colloca la presenza di Dio nell’umanità dell’uomo. Per questo, la presenza di Dio non esclude l’incertezza della ricerca, la sofferenza e il dolore, la tristezza della solitudine.
    Allora… si può educare alla fede?
    A questo punto, ritorna la domanda da cui era partita la mia riflessione: si può educare alla fede, oppure conviene considerare la fede una realtà totalmente sottratta alle logiche educative?
    Per rispondere, sottolineo due affermazioni. Prima di tutto, va dichiarata la prospettiva teologica in cui ci si colloca. Dalla parte dell’Incarnazione riconosco che la Rivelazione assume la vita quotidiana e i suoi dinamismi come suo strumento espressivo. Per questo affermo che si può intervenire educativamente nel processo di educazione della fede. Esiste una educabilità (almeno indiretta) della fede. Di conseguenza il termine «educazione» va preso in tutta la sua ricchezza antropologica, anche quando è riferito alla pastorale. Chi assume altre prospettive teologiche, risolve la questione secondo altre modalità.
    La seconda affermazione riguarda il modo concreto con cui parlare di «educabilità» della fede. Per dire se e come si può educare alla fede, dalla prospettiva dell’Incarnazione, vanno introdotte alcune importanti distinzioni. Solo nel loro insieme e nel rispetto delle logiche relative, assume serietà e autenticità la costatazione della possibilità di educare alla fede. Questa seconda indicazione è tanto decisiva che avverto la necessità di allungare ancora un po’ la mia riflessione, per suggerire in quale processo posso ipotizzare una vera educazione della fede.
    Propongo tre riferimenti complementari. Nel loro insieme rilevano che l’intervento educativo non riguarda, in modo diretto, il dono della fede, ma, in modo indiretto, il suo sviluppo.
    La priorità fontale del dono di Dio per la fede
    Prima di tutto è indispensabile riconoscere che la fede si sviluppa sul piano misterioso del dialogo tra Dio e ogni uomo. Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo d’intervento dell’uomo. In esso va riconosciuta la priorità dell’iniziativa di Dio.
    La risposta dell’uomo consiste nell’obbedienza accogliente: la fede è un dono, in senso totale; proviene quindi dall’udire e non dal riflettere, è accoglienza e non elaborazione.
    Questa constatazione non solo riconosce, senza incertezze, che la fede è dono di Dio, rivolto a tutti gli uomini. Rilancia anche la necessità di evangelizzare ponendo davanti a tutti, con fermezza e coraggio, un mistero, più grande delle nostre parole, che riduce a stoltezza la nostra presunta sapienza.
    La comunità cristiana ha questo compito e questa responsabilità. La assolve riconoscendo di essere «serva» della Parola e degli eventi che comunica. Confessa che la forza di salvezza (di conversione e di vita) risiede nell’evento che offre e non nella qualità della sua offerta.
    L’educazione alla fede sul piano delle mediazioni educative
    L’appello di Dio che costituisce il fondamento del processo di salvezza, si fa sempre parola d’uomo, per risuonare come parola comprensibile dall’uomo, e cerca una risposta personale, espressa in gesti e parole dell’esistenza quotidiana.
    C’è quindi una dimensione del processo di salvezza che si svolge secondo modalità comuni ad ogni processo educativo e comunicativo. Non rappresenta un aspetto che si aggiunge a quello della immediatezza dell’azione di Dio, ma un’esigenza che la pervade tutta.
    L’atto pastorale è, di conseguenza, nello stesso tempo e con la stessa intensità, tutto sottratto alla qualità della relazione interpersonale, perché attinge direttamente nel mistero di Dio potenza ed efficacia, e tutto intensamente condizionato dalla qualità umana dei gesti e delle parole poste e dalla disponibilità «educabile» del soggetto.
    Il condizionamento (positivo o negativo) è collocato nel rapporto del «segno» rispetto all’evento. Attraverso le modalità antropologiche in cui si svolge, il segno diventa sempre più espressivo rispetto alle attese del soggetto e sono ricostruite queste attese per sintonizzarle con l’offerta della fede e della salvezza.
    Questo è l’ambito tipico dell’azione pastorale. Per questo, essa riconosce la funzione insostituibile di tutti gli interventi educativi rispetto all’educazione della fede: essi hanno il compito di attivare, sostenere, mediare il processo di salvezza, nel doppio movimento di proposta e di risposta.
    La potenza di Dio investe anche gli interventi educativi
    Le due modalità (quella misteriosa in cui si esprime l’appello di Dio alla libertà dell’uomo e quella delle mediazioni educative) non sono sullo stesso piano né possono essere considerate alla pari. Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell’intervento divino anche nell’ambito educativo, quello su cui l’uomo può intervenire attraverso processi culturali.
    La fede dunque riconosce la grandezza dell’educazione: il fatto, in altre parole, che liberando la capacità dell’uomo e rendendo trasparenti i segni della salvezza, libera e sostiene la sua capacità di risposta responsabile e matura a Dio. Ma la fede riconosce che anche l’educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull’educazione dell’uomo in genere e, in particolare, sul modello educativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove generazioni.
    Questo non è attentato al dovere di rispettare l’autonomia dei fatti umani. Significa invece che l’approccio educativo e comunicativo è giudicato dall’evento al cui servizio si pone. Nel nostro caso comporta la constatazione che quest’approccio, anche se è legato ad esigenze tecniche, avviene sempre nel mistero di una potenza di salvezza che tutto avvolge: la grazia salvifica possiede una sua rilevanza educativa, certa e intensa anche se non è misurabile attraverso gli approcci delle scienze dell’educazione.

    Una pastorale alla scuola dell’educazione

    Il confronto tra educazione e evangelizzazione sollecita a realizzare i due processi in modo da assicurare a ciascuno il guadagno che il contributo dell’altro è in grado di offrire.
    L’evangelizzazione assume le esigenze dell’educativo, con disponibilità e attenzione, superando ogni tentazione di strumentalizzazione. Il pluralismo, però, investe e attraversa anche l’educazione e la frammenta in diverse figure. Il riferimento antropologico sotteso non è indifferente per la qualità del servizio di promozione della vita e della speranza, cui l’educazione tende. Essa cerca quindi un’ispirazione che la collochi pienamente dalla parte della vita e della sua qualità.
    Un dialogo e un confronto possono introdurre nei due processi un principio interessante di verifica e di rinnovamento.
    Tra i tanti modi attraverso cui si può realizzare l’evangelizzazione, chi crede all’educazione preferisce quelli in cui è rispettata meglio la preoccupazione della gradualità, della chiamata alla responsabilità. Essa si realizza sempre in una presenza accogliente, che fa dei gesti di vicinanza, di servizio, di promozione e di amore la sua parola più convincente.
    In un tempo in cui lo scontro tra le culture avviene sempre di più attorno alla qualità della vita, alla ricerca di senso e ai fondamenti della speranza, chi è impegnato sulla frontiera nell’educazione riconosce di avere un compito che riempie di gioia e di responsabilità, riguardo alla vita e alla sua promozione.
    La collaborazione, teorica e pratica, con chi opera nell’ambito dell’evangelizzazione aiuta ad inventare e sperimentare modelli di esistenza, capaci di dire oggi chi è l’uomo e la donna al cui servizio tutti sono sollecitati a piegarsi.


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