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    Passione per la vita



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2000-07-54)


    Per fare l’educatore, in una stagione come è quella che stiamo vivendo, si richiede l’acquisizione di molte competenze che lo abilitino a tradurre l’entusiasmo in professionalità alta. Di queste competenze, alcune riguardano il suo essere e la sua persona, altre sono esigite dal suo servizio e dai compiti relativi.
    NPG ha parlato spesso di queste competenze. Una, però, è stata sottolineata con frequenza: una forte passione per la vita. Non è come le altre, ma le attraversa tutte. La consideriamo tanto necessaria da dichiarare che se un educatore non ha una forte passione per la vita, è meglio per lui – e per gli altri – che cambi presto vocazione e mestiere.
    Faccio il punto, per aiutare il lettore a raccogliere, in modo consapevole, tutte le conseguenze.
    Quale vita?
    Ricordo che le prime volte in cui si parlava della vita nell’impegno educativo e pastorale, un obiezione fioriva facile e immediata. Vita è espressione equivoca, qualcuno diceva. Non la possiamo utilizzare nell’ambito educativo perché produce confusione. La possiamo usare solo dopo aver fatto chiarezza. L’obiezione era logica… in persone, come siamo molti di noi, abituati a procedere con una prioritaria chiarificazione di termini ed eventualmente l’elenco degli avversari. Fatta chiarezza e etichettati i concorrenti, sono già risolte la buona parte delle difficoltà.
    NPG ha resistito di fronte a questo modo di procedere. In fondo ci faceva paura. Non volevamo dividere il cammino già prima di muovere il primo passo. E poi avevamo l’impressione che troppi aggettivi qualificativi riducessero la passione per la vita ad un tentativo di manipolazione verso i nostri progetti.
    Non possiamo pretendere la chiarificazione «prima» di appassionarci per la vita, quasi come condizione per la compagnia. Se la vita è il patrimonio comune a tutti, forse l’unico davvero pienamente condiviso, la compagnia sta prima delle differenze. Possiamo incominciare il cammino nella compagnia di tutti coloro che amano la vita e, in qualche modo, la vogliono abbondante, anche se hanno progetti diversi e precomprensioni differenti. Procedendo assieme, è molto più facile ed arricchente il confronto. Nel confronto scopriremo la necessità di chiarificare e concretizzare. Il confronto diventerà persino scontro proprio nel nome della vita e della sua qualità. E, così, con disappunto le strade si divideranno, forse tanto inesorabilmente da escludere ogni contatto successivo.

    L’attenzione al presente

    I modelli di esistenza cristiana in cui siamo cresciuti e che ancora ci sono rilanciati, sono in genere sbilanciati verso il futuro.
    Il presente è una specie di banco di prova, in cui mostrare la voglia di eternità e operare scelte coerenti con questa prospettiva. L’educatore si pone come il testimone del futuro. Ama la vita dei giovani perché li orienta verso il futuro. Gioca tutte le risorse per attivare controlli e verifiche sulla vita quotidiana, con l’intenzione dichiarata di assicurare meglio il consolidamento di quello che conta. La vita, cui farci attenti, è quella che attendiamo, che dobbiamo preparare a fatica. Per evitare equivoci, il sostantivo vita è continuamente qualificato con una serie di aggettivi che dicono rimando e controllo. L’ultimo, il più radicale, è «eterna»: la vita è quella eterna… dunque non può essere quella quotidiana.
    Questa è la vita da amare e da porre al centro del nostro servizio educativo e pastorale? Il centro della passione educativa è il presente e, di conseguenza, la vita, senza ulteriori aggettivazioni o, al massimo, con il richiamo «quotidiana» per eliminare ogni incertezza. Di questa vita l’educatore è appassionato. La sua presenza si qualifica sull’impegno di restituirla piena e abbondante al suo protagonista.
    Un avvenimento ha segnato un punto prezioso di confronto e di conforto: la meditazione di Evangelium vitae. Forse per la prima volta in termini così espliciti, in un documento del Magistero solenne, il richiamo alla vita corre infatti verso la vita quotidiana, ai problemi che l’attraversano, alle prospettive in cui ne sogniamo una qualità rinnovata. «Presentando il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10). In verità, Egli si riferisce a quella vita nuova ed eterna, che consiste nella comunione con il Padre, cui ogni uomo è gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma proprio in tale vita acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell’uomo» (EV 1). «In simile prospettiva, l’amore che ogni essere umano ha per la vita non si riduce alla semplice ricerca di uno spazio in cui esprimere se stesso ed entrare in relazione con gli altri, ma si sviluppa nella gioiosa consapevolezza di poter fare della propria esistenza il luogo della manifestazione di Dio, dell’incontro e della comunione con lui» (EV 39).
    EV mette la vita al centro della passione ministeriale di Gesù e dei suoi discepoli. E aiuta a dare un significato preciso alla vita stessa.
    La vita eterna non è un’alternativa alla vita quotidiana. Di certo, dalla prospettiva del Vangelo, non la possiamo considerare il premio che giustifica (o addolcisce un poco) la fatica di rifiutare la voglia di felicità o, peggio, ciò che spinge a fuggire dalle responsabilità dell’esistenza. Persino l’invito duro che Gesù rivolge ai suoi amici di «perdere la propria vita» è motivato dal desiderio di possederla.
    La vita eterna è la pienezza della vita quotidiana, il consolidamento e il compimento di quello che abbiamo realizzato nel ritmo impegnativo dei nostri giorni. Lo ricorda anche Gaudium et spes: «I beni, quali la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno ed universale» (GS 39).

    Una proposta concreta

    L’attenzione alla vita non è un compito da assumere. Fa parte del vivere stesso… tanto essa è un dato spontaneo e ingovernabile. Il problema è un altro: sul piano riflesso e consapevole che significa «attenzione» e verso quale vita giocare l’attenzione?
    A questo punto, finalmente è possibile scendere verso il concreto, elaborando una proposta concreta, precisa e impegnativa.
    Vita è dominio dell’uomo sulla realtà, creazione di strutture di vita per tutti, comunione filiale con Dio.
    Il dominio dell’uomo sulla realtà implica la liberazione dell’uomo dal potere schiavizzante delle cose per impadronirsi di tutte le potenzialità insite in esse.
    Costruire vita significa perciò restituire ogni persona alla consapevolezza della propria dignità. Significa rimettere la soggettività personale al centro dell’esistenza, contro ogni forma di alienazione e spossessamento. Comporta di conseguenza un rapporto nuovo con se stesso e con la realtà, per fare di ogni uomo il signore della sua vita e delle cose che la riempiono e la circondano.
    Quest’obiettivo richiede però un impegno fattivo, giocato in una speranza operosa, perché tutti siano restituiti alla piena soggettività. Lavorare per la vita significa di conseguenza lavorare perché veramente ogni uomo si riappropri di questa consapevolezza e perché il gioco dell’esistenza sia realizzato dentro strutture che consentano efficacemente a tutti di essere «signori».
    La creazione di strutture per la vita di tutti (e dei più poveri, soprattutto) esige che scompaiano dal mondo gli atteggiamenti, i rapporti e le strutture di divisione e di sopraffazione.
    Chi vive in Dio è nella vita; chi lo ignora, chi lo teme, chi lo pensa un tiranno bizzarro, è nella morte. Nel nome della verità dell’uomo che intende servire e ricostruire, il credente s’impegna a restituire a ciascuno libertà e responsabilità in strutture più umane, proclamando a voce alta il Dio di Gesù e sollecitando esplicitamente ad un incontro personale con lui. Nello stesso tempo e nello stesso gesto, ricostruisce nell’autenticità quel volto di Dio che spesso anche i cristiani hanno deturpato. Per questo s’impegna a sradicare ogni forma di paura e di irresponsabilità nei suoi confronti e ogni tipo di idolatria: solo in questo spazio liberato è possibile poi far crescere adeguati rapporti affettivi e pratici.
    La passione per la vita è, dunque, servizio appassionato per «questa» qualità di vita. Qui l’educatore esprime la sua decisione vocazionale più impegnativa.
    Quale passione per la vita
    Non è sufficiente fare chiarezza sulla figura di «vita» di cui appassionarci. La passione per la vita non è una decisione maturata solo all’insegna dell’entusiasmo. Richiede coraggio e profonda capacità critica. Non è una competenza in più da aggiungere alla serie delle altre richieste professionalmente all’educatore.
    Rappresenta invece la qualità globale della sua esistenza e del suo servizio: una precisa collocazione nella trama complessa dell’esistente e il criterio di orientamento e di verifica del suo servizio.
    È urgente dare spessore operativo alla espressione «passione». Ci provo, ricordando tre urgenze.
    Un fiuto per cogliere i problemi «veri»
    Ci mettiamo a pensare e a progettare, perché ci sentiamo inquietati da problemi a cui vogliamo trovare risposte adeguate.
    Spesso i problemi che ci premono addosso sono problemi veri e reali.
    Qualche volta, purtroppo, sono problemi falsi.
    Possono essere falsi per differenti ragioni: o perché ce li siamo proprio inventati, forse per eccesso di zelo; o perché rappresentano qualcosa che non ha radici solide; o perché sono solo di una fetta di gente, alle prese con i propri problemi per non accorgersi di quelli gravissimi che attraversano l’esistenza dei più.
    L’aggettivo «falsi» va preso quindi con beneficio d’inventario. Ma non può certo tranquillizzare.
    Alla scuola di Gesù per individuare quali problemi sono veri e quali sono «falsi», il referente non può essere che «tutti». Non basta rifarsi a coloro che ci stanno, a coloro che ci preoccupano, a coloro che interpretiamo con quel po’ di presunzione che nasce dall’amore. «Tutti»... è un dato serio: vuol dire la gente che vive nelle nostre città, che prende l’autobus al mattino, costretta a svegliarsi alle prime luci per riuscire a salire e arrivare a tempo al lavoro, che si affanna e spera, con mille progetti in testa. A questa indicazione va aggiunta, come condizione di possibilità, l’attenzione agli ultimi, ai più poveri, a quelli che stanno ai margini per mille e differenti ragioni. Solo misurandosi con gli ultimi possiamo, infatti, presumere che il nostro cammino sia possibile a tutti.
    Dalla parte degli ultimi non ci vuole molto per scoprire che i problemi, quelli «veri», sono quelli che nascono attorno alla vita. Gli altri problemi – i molti altri che spesso ci inquietano – o sono «falsi» o sono meno urgenti di questi.
    Viviamo, infatti, in una situazione di diffusa e insistita situazione di «emergenza» sulla vita.
    Per molti diventa impresa impossibile «vivere» una vita, così come il Dio della storia l’ha progettata per gli uomini e le donne che chiama figli suoi.
    Molti hanno superato l’emergenza sulla possibilità della vita. Ma si trovano alla ricerca, disperata o rassegnata, di una qualità che la renda vivibile.
    Su tutti preme l’ombra della morte: quella quotidiana, che ci accompagna come un nemico invisibile e pervasivo, e quella violenta e conclusiva, che sembra bruciare ogni progetto. Non sappiamo più bene dove radicare la nostra speranza. Abbiamo troppe proposte; e appena ne prendiamo qualcuna per buona, ce la vediamo scoppiare tra le mani, come se la morte ci prendesse gusto a far esplodere i pallonicini colorati che allietano la festa della vita. Siamo, un po’ tutti, in emergenza sul senso della vita.

    La fiducia nella vita: da problema a risorsa

    Esistono modelli educativi e pastorali che considerano la vita quotidiana come un ostacolo da controllare; altri sono tutti impegnati nello sforzo di fuggirla o, almeno, di ridurne al minimo i condizionamenti. La mia ipotesi è molto diversa. Riconosco che la crescita nell’esperienza cristiana corre parallela con l’accoglienza della propria vita, come mistero impegnativo e interpellante. Riconosco, di conseguenza, che questa stessa vita offre in modo germinale i contributi più rilevanti per la sua pienezza e autenticità. La considero, in altre parole, la grande risorsa, che dà senso e prospettiva a tutte le altre risorse educative.
    Chi riconosce nella vita, concreta e quotidiana, la risorsa fondamentale del progetto educativo e pastorale, assume un atteggiamento di ampia collaborazione con tutti.
    La vita e la sua qualità sono infatti un problema davvero comune a tutti allo stesso titolo: riguarda giovani e adulti, educatori ed educandi, credenti e non credenti.
    Per questo, i discepoli di Gesù, forti nella loro fede e della loro speranza, si impegnano in un terreno comune e cercano la piena collaborazione con tutti coloro che amano veramente la vita e vogliono lottare contro la morte.
    Il riconoscimento della vita come grande risorsa si realizza sempre in una esplicita e intensa preoccupazione educativa. L’accoglienza della vita, infatti, per ogni credente, è fondata nell’esperienza gioiosa della Pasqua del Crocifisso risorto.
    L’accoglienza non è accettazione della situazione di fatto in modo rassegnato, come se quello che esiste sia già tutto quello che va assicurato. Accogliere significa condividere per portare a compimento. Momento qualificante dell’accoglienza è, di conseguenza, l’impegno per trasformare continuamente quello che è stato accolto incondizionatamente.
    Uno stile globale: per la vita «soltanto servi»
    La passione per la vita influenza decisamente anche la qualità del servizio educativo e pastorale attraverso cui la portiamo a pienezza.
    Tra promozione della vita e riconoscimento di Dio c’è un legame molto stretto. Romperlo o svuotarlo ci riporta nel regno triste della morte, dove dominano l’angoscia e la paura o dove l’impegno dell’uomo diventa arrogante e violento.
    Gesù descrive tutto questo e lo stile di esistenza che ne consegue, con l’invito ad assumere l’atteggiamento del «servo»: «Quando avete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite: Siamo soltanto servitori. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare» (Lc 17, 10).
    L’invito del Vangelo rappresenta un punto di riferimento qualificante per una costruzione della vita e della speranza.
    Chi vuole la vita, si pone come Gesù al servizio della vita, con la coscienza che la vita è il grande dono di Dio. Richiede fatica e disponibilità. Richiede capacità di decentrarsi sugli altri, facendosi attenti ai loro bisogni e alle loro richieste. Pone soprattutto in primo piano l’esigenza di «dare la vita» perché la vita sia piena e abbondante per tutti.
    Il primo grande servitore è perciò Gesù di Nazareth. Nella fatica della croce ha imbandito la festa della vita, perché tutti – e soprattutto i più poveri – possano essere in festa. La sua esistenza è stata il servizio totale per la festa di tutti.
    Per questo, il credente lotta per la vita e resiste alla morte in uno stile che risulta spesso radicalmente opposto a quello corrente.
    Nella cultura che ogni giorno respiriamo, il possesso infatti significa la necessità di conquistare, di arraffare, di tenere ben strette le cose. Possiede la vita chi se la tiene stretta, come un tesoro prezioso. Magari la nasconde sotto terra, per paura dei ladri, come ha fatto il servo sciocco della parabola dei talenti (Mt 25, 14-28).
    Nel progetto di Gesù, possiede invece la vita chi la sa donare, chi la butta per amore: come il chicco di grano che diventa vivo solo quando muore (Gv 12, 24; cf anche Mt 16, 25).
    Perdere per condividere diventa la condizione per assicurare più intensamente il possesso. Il distacco non è l’atteggiamento manicheo di chi disprezza tutto per un principio superiore. Distacco vuol dire invece consapevolezza crescente di una solidarietà che diventa responsabilità. Le cose sono per la vita di tutti. E tutti hanno il diritto di goderne, soprattutto hanno questo diritto coloro a cui sono sottratte più violentemente e ingiustamente.
    Il povero, l’essere-di-bisogno, è la ragione del nostro distacco. Ci priviamo delle cose, giorno dopo giorno, proprio mentre le possediamo gioiosamente, per permettere ad altri di goderne un poco.

    Tradurre tutto in un progetto culturale

    Viviamo in una cultura dove predomina la denuncia, la paura, l’incertezza e lo scoraggiamento.
    Siamo sotto l’incubo di ciò che non funziona e di ciò che fa problema... con la conseguente spietata ricerca di qualcuno (persona o cosa) da colpevolizzare. Spesso, quasi come reazione di rilancio, è facile constatare una diffusa tendenza a far diventare normale e fascinoso solo ciò che è deviante, negativo, alternativo, fino a banalizzare il ritmo faticoso dell’esistenza di tutti i giorni. La conflittualità (a livello personale e sociale) sta diventando, insomma, una componente normale dei processi esistenziali.
    La passione per la vita sollecita ad una visione diversa della realtà. Consegna all’educatore una specie di filtro da cui rileggere l’esistente. E si traduce nel compito nuovo e molto concreto di elaborare alternative, serie e praticabili, per una nuova cultura della vita.
    Due atteggiamenti percorrono questa fatica: la coscienza del limite per dire la verità di noi stessi; l’accoglienza incondizionata della vita di tutti per esprimere una fiducia radicata nel riconoscimento della capacità di autogenerazione e di trasformazione, per la potenza di Dio che tutta la pervade. Restituiti alla verità, nella forza stessa dell’amore alla vita, possiamo continuamente scoprire che noi non siamo il bene: non lo possiamo neppure pensare né possiamo costruire giustizia. Il cammino verso la verità ci costringere a rifiutare l’orgoglio illuminista che ci trascina a fare di noi stessi il «soggetto», aumentando il potenziale che possediamo o raffinando le nostre capacità. Solo Dio è il principio del bene. Egli lo costruisce, facendo irruzione nella storia con la sua azione creatrice e restituendo ad essa la possibilità del suo esito positivo. Per questo, nel riconoscimento e nell’affidamento, ritroviamo la possibilità di «potere tutto», dalla parte della vita. La nostra debolezza, riconosciuta e accolta, è principio inedito di trasformazione.
    Nasce così, in termini sempre più meditati, una cultura della vita. Oggi ne avvertiamo fortemente l’esigenza. Un lungo cammino si apre però davanti alla nostra ricerca per costruire un nuovo progetto culturale, capace di tradurre la passione riconquistata in espressioni concrete e operative.
    Questo compito sta al centro del nostro servizio educativo: diventa la piattaforma di responsabilità quotidiana della nostra scommessa sulla vita.


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