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    Laboratori della fede



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2002-03-20)


    Abbiamo l’abitudine di ricordare i grandi avvenimenti attraverso qualche battuta particolarmente felice. È un modo di fare interessante, perché richiama alla memoria un punto di incontro e di riferimento comune e condiviso. La battuta infatti ritorna sulla bocca di tutti. Viene citata per indicare la novità sperimentata e la prospettiva che ci è stata consegnata. Purtroppo, però, come capita per le espressioni troppo frequentate, rischia di diventare una specie di luogo comune, che tutti citano e che ciascuno interpreta poi a suo modo.
    «Laboratori della fede» è una di queste espressioni. L’ha lanciata il Papa ai giovani (e indirettamente agli educatori) raccolti a Tor Vergata per la GMG. Ha fatto il giro del mondo, con una risonanza almeno simile a quella di «sentinelle del primo mattino», attraverso cui il Papa ha consegnato ai giovani la responsabilità di vegliare sullo sviluppo del nuovo millennio.
    Cosa significa istituire «laboratori della fede»? Cosa comporta?
    Senza alcuna pretesa risolutiva, provo a dire perché considero il compito una urgenza forte e una scommessa vincente per la maturazione della fede dei giovani nell’attuale situazione culturale.

    Laboratori e non scuole

    Chi è impegnato con compiti di evangelizzazione e di catechesi, di solito concentra la sua attenzione sulle cose che deve comunicare, sulla loro correttezza e sulla loro sistematicità. È consapevole che l’oggetto della sua proposta è una bella notizia, importante per la vita e la speranza delle persone, e si preoccupa di scegliere i tempi e i luoghi più adatti. Questa preoccupazione si traduce nella fatica di costruire un clima che faciliti la comunicazione, ne assicuri l’ascolto e ne sostenga l’interiorizzazione.
    Un problema serio, che torna con insistenza, è quello della possibilità di verificare se il processo comunicativo ha funzionato bene. In genere, l’unità di valutazione è quella tipica di ogni comunicazione di contenuti: viene misurato il livello di comprensione e condivisione delle cose che sono state proposte. Se chi ha ascoltato la proposta sa ripetere bene quello che è stato detto, è segno che l’obiettivo è stato raggiunto. Se invece il tentativo di ripetere ciò che è stato detto fa intravedere delle lacune concettuali o esperienziali, viene chiamata in causa la correttezza del processo o, cosa più facile, le cattive disposizioni dell’interlocutore.
    Proprio da questo punto di vista nascono oggi lamentele a causa del livello veramente scarso di conoscenza dei contenuti della fede, riscontrabile nell’attuale mondo giovanile. Qualcuno dice: «Non sanno più neppure i dieci comandamenti… Come possiamo immaginare un buon livello di vita cristiana in una situazione di ignoranza tanto diffusa?».
    La ricerca sui rimedi porta ad una doppia prospettiva di interventi. Da una parte la ridefinizione in modo organico e sistematico del dato della fede. E così si moltiplicano i testi dove incontrare questi elementi… Dall’altra la preoccupazione corre verso i momenti, formali e istituzionali, dove mettere i giovani a contatto con questi «materiali» conoscitivi. E così si parla spesso di «scuola di catechesi», dando al sostantivo «scuola» l’accezione più classica e tradizionale. Le mille altre cose messe in cantiere servono a rendere attraente l’avvenimento o sono utilizzate come strumentazioni didattiche, in vista di un migliore apprendimento.
    Uno studio sulla pastorale giovanile, che ha avuto una certa risonanza e che esprime, in modo accorto, questa preoccupazione, sottolinea la necessità di mettere i giovani davanti al dato della fede, nella sua formulazione più piena e corretta… perché solo acquisendolo in tutta la sua rilevanza anche culturale è poi possibile procedere nella direzione di esprimere e consolidare la vita cristiana. Una citazione documenta con lucidità la preoccupazione e la proposta: «Occorre restituire univocità alla verità cristiana, o meglio all’annuncio del Vangelo, di fronte alla coscienza del giovane, che per lo più oggi è incapace di cogliere con chiarezza e determinatezza cosa sia la fede nel Vangelo e l’appartenenza alla Chiesa. Occorre restituire al giovane un’immagine del cristianesimo consistente e determinata. Un’immagine che è – fondamentalmente – data al giovane, dischiusa alla sua ricerca, non una immagine che egli deve faticosamente e incertamente creare in ogni momento nell’happening dell’incontro di gruppo» (Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, Condizione giovanile e annuncio della fede, Editrice La Scuola, Brescia 1979, p. 89). Il testo è datato… ma non me la sento proprio di concludere che è un’isola lontana, sperduta nel mare dei ricordi. Sta tornando di moda, sotto l’urgenza dei problemi.
    Come si nota, la logica è quella classica: far conoscere per aiutare a scegliere e a vivere in coerenza.
    L’enfasi sul «laboratorio» spinge verso prospettive operative differenti.
    Il termine «laboratorio» evoca, infatti, un ambiente provvisto di strumenti e materiali idonei, e una situazione (anche temporale) che richiede alle persone una partecipazione diretta per sperimentare e produrre risultati. Il laboratorio è un metodo attivo di apprendimento che chiama in causa l’alunno perché personalmente o in gruppo sperimenti e lavori sul proprio apprendimento in un ambiente idoneo, avendo a disposizione un supporto preparato dall’insegnante (si veda Caputo M. G., «Laboratorio», in Dizionario di scienze dell’educazione, Elledici-LAS-SEI, Leumann 1997, pp. 590-591).
    Il confronto tra i due modelli è facile e produce un chiaro invito a scegliere.
    Molti elementi sono condivisi. È un dato comune, per esempio, l’obiettivo (raggiungere l’acquisizione di informazioni e soprattutto il consolidamento di atteggiamenti adeguati), la presenza di un «insegnante» (di un adulto che ha il compito di sostenere, guidare, informare la ricerca), l’ambiente (fatto di un rapporto stretto tra spazio, anche fisico, e tempo, necessariamente prolungato, come condizione irrinunciabile per l’acquisizione delle informazioni e la loro interiorizzazione).
    Cambiano però radicalmente alcune preoccupazioni e gli interventi relativi.
    Dalla parte della «scuola» tradizionale, il contenuto da comunicare è dato… una volta per tutte e va trasmesso nella sua interezza, facendo spazio soprattutto alla comunicazione orale. La verifica sta nell’indice di apprendimento. Compito dell’adulto è l’offerta di questo contenuto. Egli è soprattutto un «maestro». Il contenuto non appartiene neppure a lui e di conseguenza non è mai autorizzato a manipolarlo. L’esito è la ripetizione fedele di quanto è stato trasmesso. Tutte le strumentazioni sono funzionali: rendono gradita la comunicazione, comprensibile il suo contenuto, gradevole la relazione.
    Dalla parte del laboratorio, invece, la comunicazione non si realizza in modo lineare e discendente, come capita nei processi tradizionali di apprendimento. Si realizza invece all’interno di una trama comunicativa che lega tutti i partecipanti all’evento. Ciascuno ha una precisa funzione: l’adulto sta al gioco comunicativo, come testimone di eventi, più grandi di lui, che lui ha compreso e vissuto nella sua soggettività e che rende disponibili agli altri, per ricomprendere a sua volta ciò che trasmette. Anche i cosiddetti destinatari sono soggetti dell’atto comunicativo, chiamati ad offrire il contributo della loro esperienza, competenza e ricerca, per formulare meglio, nella situazione concreta, l’oggetto della comunicazione. Esso non appartiene a nessuno dei partner: ciascuno lo cerca, lo vive, lo sperimenta. Nell’atto della sua accoglienza si scatena un processo di riformulazione, orientato a dire il dato di sempre nell’oggi del tempo, dello spazio, della storia del gruppo in laboratorio. A tutti sta a cuore non tanto la ripetizione di ciò che è stato comunicato, ma la sua riespressione in fedeltà dinamica e la trasformazione della persona (tutti i partner della comunicazione) e dei suoi atteggiamenti, secondo la prospettiva di vita suggerita dalla comunicazione.
    Le strumentazioni non sono solo in funzione del clima che si vuole costruire nell’ambiente della comunicazione. Sono invece orientate, prima di tutto, verso il consolidamento di un esito, costituito non da competenze riespressive ma esistenziali.
    La novità non sta prima di tutto sull’invito a far qualcosa per assicurare l’approfondimento della propria esperienza di fede. Ne siamo tutti convinti e non abbiamo bisogno che ci sia ricordato in ogni momento. La novità sta in quello che si cerca di fare per assicurare questo necessario spazio di approfondimento.
    La diversità tra il modello «scuola» e il modello «laboratorio» non è piccola. È vero che nella descrizione dei due modelli ho tolto grigi e sfumature per mettere in risalto i contrasti… Non posso certamente affermare che l’invito del Papa verso «laboratori» della fede ha chiesto di scegliere tra questi modelli… Resta però il fatto che dà da pensare.

    Perché è urgente scegliere «laboratori»?

    Mi piace il modello del «laboratorio» e lo rilancio, per dare una interpretazione operativa alla raccomandazione del Papa. Mi sembrerebbe davvero poco far nostro un invito tanto appassionato, accontentandoci di porre una etichetta solenne alle solite procedure (come qualcuno ha già fatto… a proposito di «nuova evangelizzazione»).

    Una sfida

    Perché il modello del laboratorio ha qualche chance in più delle alternative più tradizionali?
    La risposta nasce dalla considerazione della meta che vogliamo raggiungere.
    Ripartiamo quindi dalle preoccupazioni di fondo.
    Di che cosa hanno bisogno oggi i giovani cristiani? Dove ci giochiamo il futuro (certo… quello prossimo e concreto; non le grosse prospettive, che restano generiche e poco verificabili…)?
    La risposta non è facile. Soprattutto non può diventare perentoria.
    Questa è la mia convinzione: oggi abbiamo tutti bisogno di scoprire e sperimentare una esperienza di fede che sia capace di dare gusto, senso e prospettiva alla vita quotidiana. Ne hanno bisogno specialissimo i giovani, soprattutto quelli di oggi, perché stanno vivendo esperienze sociali, culturali e personali all’insegna di «come se Dio non ci fosse», per dirla con una espressione celebre.
    La cultura del nostro mondo, quella in cui noi siamo cresciuti e vissuti, era tutta intrisa di esperienza cristiana. Non mancavano le eccezioni… ma erano veramente eccezioni. I problemi venivano affrontati e risolti facendo riferimento al contenuto della fede. Nei momenti lieti e in quelli tristi l’orizzonte di prospettiva e di speranza era quello suggerito dalla fede cristiana.
    Non voglio dichiarare che i contenuti di quell’orizzonte fossero proprio i migliori che il Vangelo poteva suggerire. Spesso erano segnati da modelli culturali che per fortuna oggi abbiamo imparato a superare. Restava però il dato di fatto: per tante persone l’esperienza cristiana rappresentava la profonda ragione del vivere, dello sperare, del gioire e del morire. Ci sentivamo, in qualche modo, colpevoli, quando cercavamo altrove le indicazioni necessarie.
    Oggi le cose vanno molto diversamente.
    La meditazione del Vangelo, la grande avventura conciliare, la maturazione culturale e sociale… hanno modificato i riferimenti e hanno aiutato ad elaborare un punto di prospettiva assai diverso da quello tradizionale. Viviamo l’esperienza cristiana dentro una spiritualità profondamente rinnovata.
    Purtroppo però tutto questo ha perso il suo significato ispiratore collettivo, per diventare qualcosa di strettamente individuale, in una logica di diffusa e insistita frammentazione.
    Ciascuno ha la sua soluzione dei problemi. Nel Vangelo, nell’esperienza ecclesiale, nella preghiera e nella vita liturgica e sacramentale, ciascuno trova quello che lo soddisfa e su questo imposta le sue scelte. È scarsa la preoccupazione di confrontare i propri orientamenti con i riferimenti che dovrebbero verificarli, ispirarli e normarli. L’esperienza religiosa è diventata, soprattutto per molti giovani, una esperienza molto soggettivata, legata a momenti, fasi, frammenti dell’esistere. Riusciamo a transitare da livelli alti di impegno e di entusiasmo religioso a momenti, tempi, scelte in cui predominano i gusti e gli orientamenti dominanti.
    Anche la soluzione dei problemi, persino dei più drammatici, è generalmente costruita all’insegna del buon senso, del non-si-può-fare-altrimenti, del rispetto delle leggi del mercato e del consenso… come se l’utopia del Vangelo fosse riservata solo ad alcuni spiriti eletti.
    Ci sono eccezioni, per fortuna. Ma restano sempre purtroppo casi isolati: ho l’impressione che sia eccezionale quel modo di esistere che generalmente chiamiamo «integrazione della fede nella vita».
    Un’altra cosa va aggiunta… anche questa tutta da verificare come la precedente.
    Troppe volte, alla radice di questa mentalità che tende a separare la fede dalla vita, sta una proposta di fede che ha davvero molto poco da spartire con la vita. Le cose che contano sono lontane dalla vita quotidiana. Il linguaggio lascia l’impressione di essere piombati in un altro mondo, dove si parla una lingua sconosciuta. Gesti e riti lasciano l’impressione di aver abbandonato fuori dalla porta tutte le cose che contano veramente.
    Tutto questo peggiora la situazione.

    Una fede che dà gusto alla vita, radicata in Gesù e sperimentata nella Chiesa

    Provocati da questa sfida, siamo invitati a ripensare alla meta del processo di maturazione e di consolidamento della fede e della vita cristiana.
    Due dati si intrecciano in modo deciso.
    Da una parte, abbiamo davvero bisogno di ritrovare una esperienza di fede che sia capace di risignificare tutta la vita quotidiana, dando ad essa gusto, prospettiva, comprensione, orientamento. Non ci serve una fede che si riferisca ad alcuni momenti dell’esistenza, abbandonando gli altri alle soluzioni del «mi piace», «mi sta bene così», «la vedo così»… «il buon senso dice di fare così». Solo una esperienza di fede che risignifichi nella totalità la vita quotidiana ci permette di vivere veramente in integrazione tra fede e vita, perché aiuta a costruirsi una struttura di personalità progressivamente unificata, i cui criteri di comprensione e di decisione si rifanno al Vangelo di Gesù, la sua persona, il suo messaggio, come è testimoniato oggi nella comunità ecclesiale, con un processo valutativo e decisionale pronto, facile, pervasivo.
    Dall’altra, abbiamo bisogno di incontrare un progetto di esistenza che sia davvero aperto verso questa risignificazione, per non offrire pane a chi non ha nessuna intenzione di cibarsene; e abbiamo bisogno di un progetto di esistenza cristiana che, in fedeltà al Vangelo, sappia davvero dare gusto e prospettiva alla vita quotidiana, per non dare un sasso a chi cerca disperatamente un pane.
    Solo una esistenza che si fa invocazione verso qualcosa che sta oltre il confine della quotidiana esperienza e una proposta di fede che afferra le due braccia alzate nell’invocazione, possono produrre una autentica decisione di fede.
    Questo dato è oggi abbastanza pacifico tra coloro che si riconoscono in un modello di pastorale giovanile fedele all’evento dell’Incarnazione, come è quello suggerito spesso da «Note di pastorale giovanile».
    Il cammino percorso ci aiuta però a scoprire qualcosa che va riaffermato.
    L’esperienza dell’integrazione tra fede e vita è come una forte esperienza di innamoramento. Non è un dato intellettuale, frutto di un accorto lavoro di conoscenza, che orienta le scelte sulla misura di quadri concettuali corretti. Vive nell’integrazione tra la sua vita e l’esperienza di fede chi ha incontrato Gesù, nella sua proposta anche ecclesiale, e ha deciso di farlo diventare il Signore della propria vita, in un gioco di rischio calcolato, che sa affidarsi, consegnarsi e lasciarsi affascinare.
    Se chiediamo a due giovani perché si amano tanto da progettare la vita assieme, è difficile trovare risposte da manuale. Spesso la risposta è: «Perché è così… punto e basta!». Tutto il resto viene dopo: la verifica, l’organizzazione delle scelte, la fatica quotidiana della coerenza. Se, al contrario, cerchiamo di risolvere problemi di solitudine, facendo leggere qualche bel libro… forse cresceranno le conoscenze e le nostalgie… ma il vissuto resta sprofondato nella tristezza dell’isolamento. In fondo, anche la coerenza di vita viene travolta dalla forza dell’innamoramento. Quando l’amore sta naufragando e spuntano i primi segnali della gelosia, contano i gesti e le opere… e diventa necessario giustificare tutto, con una rigida contabilità a partita doppia.
    Questa è dunque la mia convinzione sulla meta del processo di maturazione della fede: perché sia possibile vivere una esperienza di fede che dà gusto e orientamento alla vita, in questa stagione di frammentazione e di soggettivizzazione, è indispensabile raggiungere una esperienza forte della presenza di Gesù nella nostra vita. Riconoscendolo il Signore, l’unico e l’assoluto, possiamo riconquistare la gioia di essere signori delle nostre scelte e delle nostre decisioni, nel suo progetto e in fedeltà al suo messaggio.

    Una comunicazione orientata al cambio degli atteggiamenti

    La riflessioni con cui ho cercato di individuare e raccogliere le sfide che il momento culturale ci lancia e quelle con cui ho riformulato la meta del processo di maturazione della fede, indicano esigenze molto impegnative. Per trovare risposte adeguate, la direzione di lavoro mi sembra proprio quella dei «laboratori della fede», da prendere nella accezione specifica.

    Gli atteggiamenti al centro

    Ogni obiettivo è definito attraverso un intreccio di conoscenze, atteggiamenti e comportamenti. Anche quello del processo di educazione alla fede segue lo stesso ritmo. Non basta però dichiarare che ci stanno a cuore tutte e tre queste dimensioni. Va definita, almeno in termini teorici, la qualità del rapporto e le priorità.
    L’orientamento verso una fede che sappia dare senso alla vita, nella logica dell’integrazione tra la fede e la vita, pone gli atteggiamenti al centro del processo di maturazione cristiana. Ce lo dobbiamo dire con coraggio, in una stagione in cui la rivincita di un certo intellettualismo cammina a braccetto con il vecchio perbenismo tutto… «casa e chiesa».
    La fede dà gusto e organizzazione alla vita quotidiana quando orienta concretamente la persona a valutare la realtà e a decidersi per una sua trasformazione secondo il Vangelo di Gesù, in modo semplice, quasi spontaneo, tanto radicato nella struttura di personalità da rappresentare uno stile quotidiano di vita. Non è sufficiente conoscere che le cose dovrebbero andare in una precisa direzione e non in un’altra, e neppure basta proclamarlo. Possono capitare momenti di incoerenza, le decisioni contrarie restano sulla soglia della vita, ma l’orientamento globale è forte e preciso.
    Due esempi opposti aiutano a chiarire l’affermazione.
    Don Bosco aveva una convinzione così profonda da funzionare come la «perla preziosa» di cui parla il Vangelo. Ripeteva spesso: «basta che siate giovani e io vi voglio bene». Questa convinzione ha orientato tutta la sua esistenza. Ha scelto, quando doveva scegliere… a partire da questa logica. Qualche volta la proclamava in modo solenne… quasi per dare le ragioni dei suoi interventi. Anche quando non ne parlava in modo esplicito, la si poteva leggere tra le pieghe della sua esistenza, come la filigrana concreta del suo agire. Anche lui ha avuto certamente i suoi dubbi e le sue difficoltà. Per dono del Signore e per fortuna dei suoi giovani, l’atteggiamento di fondo della sua vita ha superato però tutte le prove. Oggi lo ricordiamo con ammirazione riconoscente per questo suo stile globale, dimenticando tutto quello che ha solo il sapore, un poco amaro (almeno per i nostri gusti), del suo tempo.
    Il secondo esempio è sulla sponda opposta. Ci sono persone che hanno scelto come orientamento fondamentale della propria esistenza quello di fare soldi… Non lo dichiarano, ma lo si legge da tutte le scelte della vita. Non sempre agiscono per denaro… ma se si scava bene nel profondo, la si trova presente questa motivazione globale. Essa è l’atteggiamento generale dell’esistenza che si traduce negli atteggiamenti diversi della vita quotidiana.
    Gli esempi ci aiutano a scoprire cosa sono gli atteggiamenti e cosa significa metterli al centro.
    Gli atteggiamenti sono capacità operative che armonizzano le doti personali in una disponibilità, agile e pronta, ad intervenire quando è il momento, sapendosi richiamare a motivazioni di riferimento. Essi sono importanti. Ma non possono essere considerati esclusivi. Gli atteggiamenti rimandano continuamente alle conoscenze. Di esse esprimono la dimensione pratica e da esse, soprattutto, riprendono la qualità cristiana. Non qualsiasi atteggiamento fa il cristiano: egli deve misurarsi su Gesù Cristo, il suo messaggio e la testimonianza attuale della Chiesa. C’è quindi una linea di demarcazione netta tra atteggiamenti determinati da Gesù Cristo e atteggiamenti lontani dal suo progetto di vita. Le conoscenze sono la verifica oggettiva degli atteggiamenti, la loro riappropriazione nella direzione della verità dell’evento di Gesù.
    Le conoscenze non sono quindi fine a se stesse, né rappresentano il terreno su cui verificare il livello di integrazione tra la fede e la vita. Non si tratta infatti di sapere e di dimostrare di sapere, ma di investire tutta l’esistenza di questo sapere. Integrare fede e vita significa fondamentalmente operare una ristrutturazione di personalità, tale da restituire all’evento di Gesù la funzione di determinante nelle scelte e nelle decisioni di vita. Non ricerchiamo quindi conoscenze di tipo nozionistico, ma conoscenze che permettano di valutare e di intervenire nelle concrete situazioni di vita, con costanza e con coerenza.

    Come acquisire atteggiamenti?

    La diffusione delle informazioni e la loro ripetizione assicurano l’acquisizione delle conoscenze. Le pressioni, i controlli, le seduzioni e le motivazioni permettono una certa coerenza (almeno formale) a livello di comportamenti. Chi pone gli atteggiamenti al centro dei processi educativi, si chiede immediatamente dove si può agire per la loro acquisizione, il loro consolidamento, il cambio di quelli negativi.
    Sappiamo che uno dei tratti tipici degli atteggiamenti è la loro stabilità. Essi tendono cioè a perdurare: diventano strutture di personalità e risultano quindi difficilmente modificabili. Qui sta la loro forza educativa e il loro limite.
    Lo strumento abituale per costruire atteggiamenti e sollecitare al loro cambio è la comunicazione di informazioni, proposte, modelli di vita. Ma non basta certamente una proposta generica. Vanno previsti e programmati gli interventi corrispondenti. Troppo spesso utilizziamo con il massimo della buona volontà lo strumento meno efficace. Gli scarsi risultati educativi possono essere dovuti a questo fatto.
    Il grado di cambio di atteggiamenti provocato da nuove informazioni è l’esito di diversi elementi: i fattori situazionali (legati cioè alle caratteristiche della situazione in cui avviene l’informazione), la fonte (il modo cioè con cui il comunicante è percepito dal suo pubblico), il mezzo utilizzato per comunicare, la forma e il contenuto delle informazioni.
    In genere questo processo si realizza all’interno di uno spazio esistenziale dove sono intense le relazioni interpersonali. Queste relazioni hanno la capacità di influenzare tutta la comunicazione. Sono una specie di messaggio nascosto che interpreta e organizza quello esplicito. Sono una specie di metamessaggio che spinge ad interpretare il messaggio, a comprenderlo in tutte le sue risonanze e soprattutto ne assicura condivisione e interiorizzazione.
    Una serie di esperimenti ci permette di riconoscere anche le variabili che influenzano il clima di gruppo rispetto all’acquisizione degli atteggiamenti.
    La comunicazione produce cambio di atteggiamenti se la fonte è considerata del gruppo, o perché appartiene di fatto al gruppo o perché è modello di identificazione e di riferimento da parte dei membri.
    Se le informazioni sono contro le norme del gruppo, l’ascolto individuale è più efficace rispetto al cambio degli atteggiamenti, perché viene superato il filtro stabilito dalle norme e viene liberata almeno parzialmente la responsabilità personale dalla pressione di conformità.
    L’efficacia rispetto al cambio degli atteggiamenti, infine, è molto condizionata dal tipo di impegno con cui si conclude la comunicazione. Si dà più facilmente cambio degli atteggiamenti se la comunicazione sollecita tutti verso un impegno preciso, concreto, pubblico, facilmente verificabile. Inoltre, l’efficacia è legata al livello di collaborazione richiesto per l’esecuzione dell’impegno: un impegno privato produce meno influsso sugli atteggiamenti di un impegno a carattere collaborativo.

    Due esigenze irrinunciabili

    La scelta del «laboratorio» si inserisce nelle logiche correnti, le assume e cerca alternative adeguate, senza immaginare isole felici dove si respiri un’aria diversa da quella che spira d’intorno.
    Il lettore attento se n’è certamente accorto. Immagino che si sia posto anche uno di quegli interrogativi che, se non è risolto, diventa capace di buttare all’aria tutto. Lo formulo così: Chi sceglie di fare formazione attraverso «laboratori» rinuncia ai contenuti e rinuncia alla responsabilità personale?
    Non lo credo proprio. Al contrario dovremmo essere capaci di assicurare l’una e l’altra cosa meglio… anche se ci troviamo costretti a riesprimere in modo nuovo le due esigenze.

    Verità

    Non possiamo certamente dimenticare che la fede cristiana ha una sua formulazione dottrinale precisa, che ci arriva attraverso il cammino e la riflessione dei credenti e che è testimoniata oggi in modo autorevole dalla comunità ecclesiale. In questa prospettiva è egualmente importante riconoscere la funzione autorevole di quei fratelli che, testimoni della fede e della Parola, hanno il compito di farci camminare in unità verso la verità. La forte spinta alla soggettivizzazione che sta investendo la nostra cultura, rende più difficile l’opera di consolidamento di questo patrimonio dottrinale, ma non può, di sicuro, cancellarne l’urgenza imprescindibile per rispettare il progetto di Gesù sulla Chiesa.
    Non possiamo però immaginare che questo riconoscimento funzioni solo quando affidiamo al magistero il compito di controllare quale sia ancora la distanza tra la formulazione ufficiale e quella personale. In questo modello, la confessione di fede assomiglia molto all’ascolto di una bella sinfonia musicale, in una camera insonorizzata e con strumenti di registrazione raffinati. Tutto è gradevole, perché la riproduzione è perfetta... e quando non è così, si richiede l’intervento dei tecnici per riparare i guasti.
    La persona del credente è sempre al centro della sua professione di fede. Dice parole che si avvicinano al mistero con la stessa forza coinvolgente dei simboli dell’amore e della poesia.
    Quando pretende di descrivere il mistero in modo sicuro e definitivo, con le sue parole o con quelle prese a prestito dai documenti ufficiali, corre il rischio di perdersi nella ricerca affannosa di qualcosa che non riuscirà mai a trovare.
    Il procedimento è un altro, molto più impegnativo. Siamo invitati a crescere verso le espressioni consolidate e verso l’obbedienza sincera e cordiale nei confronti di quei fratelli che hanno il compito di sostenere nella verità la nostra ricerca. Tutto questo rappresenta il punto d’arrivo del nostro cammino, la tensione verso la maturità piena, il confronto che giudica e inquieta il nostro quotidiano procedere.
    Diremo sempre la fede con le nostre parole, anche quando riusciremo a dirla con le parole che altri hanno costruito per noi, nella loro fede. Non possono non restare «parole nostre», perché solo così diciamo nella verità la nostra fede.
    Spesso le parole saranno tanto nostre, che ci metteremo del nostro: battute, espressioni, inflessioni di voce, qualche virgola di troppo. Non possiamo essere in crisi per questo: perché nessuna parola potrà mai essere tanto perfetta da dire tutto il mistero.
    Ci lasceremo invece inquietare dalla necessità di far progredire la nostra confessione di fede, fino ad esprimere la nostra passione e la nostra speranza nel modo che risuona, alto e solenne, nella comunità ecclesiale.
    Tutto questo per una ragione semplicissima: c’è una differenza sostanziale tra il dire la fede e ripetere una formula di chimica o un teorema di matematica. Nel secondo caso dico cose vere e autentiche solo quando ripeto esattamente ciò che ho appreso. Nel primo, invece, sono nella verità e nell’autenticità quando dico io, con la vita e con le parole che so elaborare, quello che ho sperimentato del dono affascinante dello Spirito di Gesù.

    Interiorità

    La responsabilità personale va affermata e sostenuta con una attenzione tutta speciale, reagendo alle tendenze manipolatorie che l’esperienza del laboratorio può portarsi dietro.
    La persona è formata quando si è costruita un «filtro» attraverso cui verificare e valutare cosa accogliere e su cosa reagire. Non cerca così mondi protetti e neppure teme il pluralismo delle proposte. Le sa invece accogliere o rifiutare a partire da qualcosa che riconosce come decisivo nella propria struttura di personalità.
    La decisione di orientare la propria esistenza nella prospettiva della fede è così un fatto personale e sociale nello stesso tempo. Dipende in altre parole da una fatica che ha nella persona l’unico protagonista ed è legata intensamente al tessuto sociale in cui la persona si esprime e al suo influsso e condizionamento. In un ambiente di complessità e di pluralismo la formazione esige, perciò, come condizione di possibilità e di autenticità, l’impegno di restituire ad ogni persona la capacità di comprendersi e di progettarsi dal silenzio della propria interiorità.
    Interiorità dice spazio intimissimo e personale, dove tutte le voci possono risuonare, ma dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di tutte le sicurezze che danno conforto nella sofferenza che ogni decisione esige. Il confronto e il dialogo serrato con tutti sono ricercati, come dono prezioso che proviene dalla diversità. La decisione e la ricostruzione di personalità nascono però in uno spazio di solitudine interiore, che permette, verifica e rende concreta la «coerenza» con le scelte unificanti la propria esistenza.
    La capacità di interiorità è così la condizione irrinunciabile di un processo formativo per un tempo di complessità. In questo spazio di esigente e indiscutibile soggettività la persona valuta e interpreta tutto, prende le proprie decisioni, soffre la faticosa coerenza con le scelte.
    Lo so che non tutti sono d’accordo su questo orientamento di fondo. Qualcuno, infatti, preferisce la via più sicura dell’oggettività, quella che gioca tutte le risorse sulla forza delle proposte e sulla necessità di accoglierle senza troppi aggiustamenti. Prima conoscere e accogliere, poi discutere e verificare… si dice… forse con espressioni meno dure di questa.
    Questo modo di fare non mi piace. Il terreno è molto insidioso e impegnativo: il confronto deve avvenire sulle ragioni. Ne indico due, quelle che stanno a monte della mia valutazione.
    Prima di tutto ho l’impressione che, in situazione normale, la soluzione dell’oggettività sicura sia poco praticabile, perché il peso della soggettivizzazione non si controlla sulle proclamazioni di principio. La pretesa di curare la soggettivizzazione con una buona cura di oggettività, secondo me, è rimedio peggiore del male. Non coglie la radice della disfunzione e, in qualche modo, la perpetua.
    Anche la seconda ragione nasce dal confronto con il clima culturale che respiriamo. Giocando sulla forza della seduzione o sul fascino delle alternative forti, corriamo il rischio di giustificare e consolidare quel modello comunicativo che sta alla base della crisi attuale. In fondo, se alle proposte la persona non impara a reagire dal silenzio dell’interiorità, i «nostri» valori oggettivi saranno quotidianamente sconfitti dal fascino seducente delle tante proposte che respiriamo.
    Non voglio di certo raccomandare la rassegnazione. Cerco un rimedio efficace. Lo vedo nella educazione all’interiorità. Possiamo reagire alla soggettivizzazione sfrenata solo riconsegnando la persona in modo serio all’interiorità. Le risorse educative possono essere spese per far nascere l’esigenza, sostenere l’esperienza, progettare la realizzazione. E ce ne vorranno molte in una cultura che fa di tutto per trascinare verso l’esteriore, anche con la scusa di salvaguardare meglio l’oggettività. Lo affermo sulla fiducia educativa verso i giovani. Lo rilancio, consapevole, nella fede, che il silenzio dell’interiorità è il luogo in cui lo Spirito di Gesù si fa voce per guidarci alla pienezza della verità.

    La conclusione: l’urgenza di veri «laboratori» della fede

    Possiamo, a questo punto, tirare qualche somma. Per farlo, il punto di verifica, su cui misurare la selezione e organizzazione delle risorse, è la meta del processo.
    Cerchiamo una esperienza di fede che sappia integrarsi con la vita quotidiana e dare ad essa senso, riferimento, orizzonte. Questa meta è tutta sbilanciata dalla parte degli atteggiamenti. Le conoscenze, sempre necessarie, non misurano il raggiungimento della meta, ma servono a orientare la scelta degli atteggiamenti e a dare ad essi una espressione culturale (fatta di «parole») che li giustifichino e li orientino.
    Per raggiungere e consolidare questo obiettivo abbiamo bisogno di un luogo capace di assicurare identificazione, per rendere le persone disposte a mettere sotto valutazione gli spontanei orientamenti di vita. Ci serve uno spazio di vita, capace di essere proposta concreta e sperimentabile di nuovi atteggiamenti. Abbiamo bisogno di poter costruire una comunicazione fatta di scambi fra tutti i partner, permettendo a ciascuno di essere emittente e recettore. Abbiamo la necessità di poter immediatamente sperimentare ciò che viene messo in circolazione nel volto e nel vissuto concreto di alcune persone. Abbiamo l’urgenza di tradurre subito in decisioni, piccole concrete e collettive, ciò che viene proposto, per assicurare meglio integrazione e interiorizzazione.
    Abbiamo bisogno, per tirare le somme del cammino percorso, di «laboratori della fede». Quali?
    Parlando degli atteggiamenti e dei processi orientati alla loro costruzione, ho fatto riferimento al gruppo. Ho usato il termine «gruppo» per indicare un insieme di persone, tra cui scorrono rapporti intensi, il cui indice di coesione non è tanto dall’annullamento della diversità ma dalla capacità di assicurare convergenza verso obiettivi comuni.
    Ho utilizzato l’espressione «gruppo» solo in modo funzionale: per dire esigenze e funzioni e non per escludere quelle istituzioni che di solito non si chiamano «gruppo». A questo punto, possiamo facilmente sostituirlo con il termine di «comunità ecclesiale», impegnata ad assicurare le condizioni relazionali minime di esercizio.
    Il soggetto del «laboratorio della fede» è quindi la comunità ecclesiale. Lo è a titoli diversi e complementari.
    La comunità istituisce il laboratorio per aiutare i giovani a maturare nella fede. La comunità lo anima e lo fa funzionare, giocando le sue risorse per renderlo vitale e coinvolgente. La comunità ecclesiale cerca, incontra, accoglie il giovane che desidera, almeno implicitamente, ritrovare orizzonte e senso alla propria vita. Non gli fa l’esame d’ingresso e non lo spaventa con pretese ingiustificate. Lo aiuta invece a scoprire quello che è e sta vivendo, proprio mentre lo sollecita a crescere nella direzione di un’autentica integrazione della fede nella vita.
    Diventa «laboratorio della fede» soprattutto nei momenti celebrativi. In essi si pone tutta in stato di «laboratorio della fede». Il vissuto quotidiano è tanto immerso nel mistero di Dio da riscoprire quello che lo Spirito sta operando nel profondo della vita quotidiana e da desiderare ardentemente una sua rinnovata espressività. Nella comunità ecclesiale, la proposta di uno stile di vita evangelico ritrova il fascino dei testimoni viventi, quelli vicini e quelli più lontani, che hanno cose da dire inquietanti a chi si chiede come e dove giocare la propria vita.
    Nel grembo materno della comunità, un poco alla volta sono apprese le parole della fede, in una compagnia dolce e motivata con la fede della Chiesa nel lungo cammino dei tempi. La comunità ecclesiale diventa così «scuola della fede» autentica, perché si propone come «laboratorio» di questa stessa fede.
    L’invito del Papa alla GMG ha quindi colto nel segno. Compete a coloro che sono impegnati nell’affascinante terreno dell’educazione dei giovani alla fede… prenderlo sul serio e tradurlo in corretti processi metodologici.


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