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    Solo Gesù è il Signore



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2004-07-62)


    “Pietro e Giovanni stavano ancora parlando al popolo, quando arrivarono i sacerdoti e i sadducei insieme al comandante delle guardie del tempio. Essi erano molto irritati per il fatto che gli apostoli insegnavano al popolo, ma soprattutto perché annunziavano che Gesù era risuscitato e che quindi i morti risorgono. Perciò li arrestarono e li gettarono in prigione fino al giorno successivo, perché ormai era sera. Tuttavia, molti di quelli che avevano ascoltato la predicazione degli apostoli credettero, e la comunità dei credenti aumentò di numero fino a circa cinquemila persone.
    Il giorno dopo a Gerusalemme si radunarono i capi degli Ebrei e del popolo e i maestri della legge. Erano presenti anche Anna, sommo sacerdote, e Caifa, Giovanni e Alessandro, e quanti appartenevano alla famiglia del sommo sacerdote. Fecero venire gli apostoli e incominciarono a interrogarli: Da dove o da chi avete ricevuto il potere di far questo?.
    Allora Pietro, pieno di Spirito Santo, rispose loro: Capi del popolo e anziani di questo tribunale, ascoltatemi. Voi oggi ci domandate conto del bene che abbiamo fatto a un povero malato e per di più volete sapere come mai quest’uomo ha potuto essere guarito. Ebbene, una cosa dovete sapere voi e tutto il popolo d’Israele: quest’uomo sta davanti a voi, guarito, perché abbiamo invocato Gesù Cristo, il Nazareno, quel Gesù che voi avete messo in croce e che Dio ha fatto risorgere dai morti.
    Il libro dei Salmi parla di lui quando dice: La pietra che voi, costruttori, avete eliminato, è diventata la pietra più importante.
    Gesù Cristo, e nessun altro, può darci la salvezza: infatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci.
    I membri del tribunale ebraico erano davvero stupiti dalla franchezza con la quale Pietro e Giovanni parlavano, tanto più che si trattava di persone molto semplici e senza cultura, e avevano dovuto riconoscere che erano stati seguaci di Gesù” (Atti 4, 1-12).

    Gesù è una persona molto diversa dagli standard delle persone che passano per importanti. Non ci ha lasciato niente di tutto suo. Non ha scritto libri. Non ha inventato nulla, capace di rivoluzionare il mondo. Non ha neppure iniziato una scuola di pensiero e non ha fondato nessuna organizzazione speciale.
    Aveva però un progetto originale, grande e impegnativo. Questo progetto era tutto per Gesù, la ragione delle sue scelte e punto di unificazione della sua vita.
    L’ha detto lui stesso: una specie di perla preziosa che un cercatore di tesori ha finalmente trovato sepolta in un campo; per questo è disposto a vendere tutto pur di comprare quel campo, perché niente lo può ostacolare nella voglia di possedere la perla che va cercando.
    Gesù lo ha detto e soprattutto lo ha fatto.
    Per realizzare il suo progetto Gesù ha dato la propria vita, come scelta consapevole e deliberata. Si è fatto dei discepoli coraggiosi, li ha invitati ad organizzarsi in una grande comunità, li ha lanciati per il mondo, sollecitandoli a continuare a chiamare altre persone, per non chiudere mai la realizzazione del suo progetto per mancanza di braccia e cuori disponibili. Ha inventato la Chiesa per portare a compimento il suo progetto fino alla fine dei tempi.
    Gesù ha parlato tantissimo del suo progetto e ha compiuto delle cose coraggiose. Non ci ha lasciato però dei documenti da studiare. Conosciamo il progetto di Gesù solo attraverso i racconti dei suoi discepoli.
    Se vogliamo scoprire, fino in fondo, qual è il progetto di Gesù e come va portato a compimento, dobbiamo, di conseguenza, metterci ad ascoltare attentamente quello che di lui ci raccontano i suoi discepoli.
    Un poco alla volta, sulla traccia dell’esperienza dei discepoli di Gesù, abbiamo scoperto che il contenuto speciale del progetto di Gesù è costituito da un originale servizio alla vita e alla speranza, nel nome e per la potenza di Dio.

    Un modo di servire la causa della speranza

    Tra noi, Gesù e i suoi primi discepoli è trascorso un lunghissimo periodo di storia. Duemila anni non sono di certo pochi. Molte cose sono cambiate. Il servizio alla vita e alla speranza continua però ad essere, anche oggi, una questione drammatica e urgente.
    Ci interessa quindi scoprire quello che Gesù è stato, ha fatto e ha detto… se vogliamo anche noi metterci seriamente al servizio della vita e della speranza.
    Per questo abbiamo bisogno di confrontarci con quello che hanno combinato i suoi primi discepoli.
    Lo facciamo con amore e con passione. Non vogliamo copiare e non abbiamo nessuna intenzione di immergerci nella sola nostalgia. Vogliamo solo stare al sicuro, perché la causa che vogliamo servire è davvero seria.

    Quale vita?

    La prima faccenda da chiarire è proprio quella di fondo.
    Vogliamo servire la vita. Cosa è “vita”? Ne parlano tutti. Quando sono troppi a parlare della stessa cosa, c’è il rischio che le parole siano condivise solo in apparenza. Sotto le stesse espressioni si nascondono mondi e preoccupazioni diversissime.
    Per chiarire cosa è “vita” e perché la mettiamo in coppia con “speranza”, ci facciamo aiutare da Gesù e dai suoi discepoli.
    Gesù non ha mai detto: adesso vi spiego cosa è quella vita il cui servizio è la mia grande passione. Ha fatto gesti concreti. Organizzandoli e interpretandoli, riusciamo a scoprire cosa cercava Gesù e cosa ha consegnato ai suoi discepoli.
    Lo dico con le mie parole e nei miei modelli culturali. Basta una rilettura del Vangelo da questa prospettiva, per trovare una documentazione molto abbondante, a conforto di ogni affermazione.
    Vita è dominio dell’uomo sulla realtà, creazione di strutture di vita per tutti, comunione filiale con Dio.
    Il dominio dell’uomo sulla realtà implica la liberazione dell’uomo dal potere schiavizzante delle cose per impadronirsi di tutte le potenzialità insite in esse.
    Costruire vita significa perciò restituire ogni persona alla consapevolezza della propria dignità. Significa rimettere la soggettività personale al centro dell’esistenza, contro ogni forma di alienazione e spossessamento. Comporta di conseguenza un rapporto nuovo con se stesso e con la realtà, per fare di ogni uomo il signore della sua vita e delle cose che la riempiono e la circondano.
    Quest’obiettivo richiede però un impegno fattivo, giocato in una speranza operosa, perché tutti siano restituiti alla piena soggettività. Lavorare per la vita significa di conseguenza lavorare perché veramente ogni uomo si riappropri di questa consapevolezza e perché il gioco dell’esistenza sia realizzato dentro strutture che consentano efficacemente a tutti di essere “signori”.
    La creazione di strutture per la vita di tutti (e dei più poveri, soprattutto) esige che scompaiano dal mondo gli atteggiamenti, i rapporti e le strutture di divisione e di sopraffazione.
    Chi vive in Dio è nella vita; chi lo ignora, chi lo teme, chi lo pensa un tiranno bizzarro, è nella morte. Nel nome della verità dell’uomo che intende servire e ricostruire, il credente s’impegna a restituire a ciascuno libertà e responsabilità in strutture più umane, proclamando a voce alta il Dio di Gesù e sollecitando esplicitamente ad un incontro personale con lui. Nello stesso tempo e nello stesso gesto, ricostruisce nell’autenticità quel volto di Dio che spesso anche i cristiani hanno deturpato. Per questo s’impegna a sradicare ogni forma di paura e di irresponsabilità nei suoi confronti e ogni tipo di idolatria: solo in questo spazio liberato è possibile poi far crescere adeguati rapporti affettivi e pratici.

    Servire la vita

    Un compito tanto impegnativo richiede coraggio e fatica. Come lo possono realizzare i discepoli di Gesù, per essere fedeli al maestro?
    Ancora una volta, mi piace dare la parola ai primi discepoli di Gesù.
    Una pagina degli Atti degli Apostoli mi sembra particolarmente espressiva al riguardo. È quella che precede il testo citato in apertura e in qualche modo lo giustifica, proprio a causa di quello che è capitato che si sono scatenate le ire degli scribi e dei farisei.
    Leggiamola.
    “Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta ‘Bella’ a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Questi, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l’elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: Guarda verso di noi. Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina! E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto” (Atti 3,1-10).
    Letto così, sembra il resoconto di un gesto prodigioso, che finisce tutto lì. E invece è importante continuare la lettura del documento. La riassumo.
    Lo zoppo, guarito dal racconto della storia di Gesù, grida tanto di gioia che lo fermano per schiamazzi nel recinto sacro del tempio. Quando i sommi sacerdoti vengono a sapere che c’è stato di mezzo Pietro, interrogano lui, per andare alla radice del disordine. Qui viene il bello. Pietro dice: “Sapete perché questo zoppo cammina dritto e sano? Perché tutti sappiano che non possiamo essere vivi se non in quel Gesù che voi avete crocifisso e ucciso e il Padre ha risuscitato da morte”.
    C’è un riferimento stretto tra la storia di Gesù, la guarigione fisica dello zoppo e la vita piena (anche contro la morte).
    Rispetto a quello che conosciamo della prassi di Gesù per la vita, Pietro aggiunge qualcosa di nuovo e di inedito. Non solo guarisce come ha fatto tante volte Gesù, ma racconta anche la storia di Gesù. Al gesto, per la cui realizzazione Gesù spesso ha chiesto la fede in lui e nella potenza del Padre, Pietro aggiunge il racconto della sua fede appassionata nel Crocifisso risorto. Dice, con forza, che solo in questa fede, impegnata a confessarlo ormai come il vivente, è possibile avere pienamente e definitivamente la vita. Il racconto della storia di Gesù nella confessione di fede dei suoi discepoli, l’entusiasmo e la fede che suscita in coloro cui è rivolto, danno la pienezza della vita. C’è un intreccio profondo tra guarigione e confessione che Gesù è il Signore. La guarigione risolve i problemi fisici. La confessione di fede nel Risorto supera le barriere della morte fisica e assicura una pienezza impensabile di vita, nonostante la morte.
    I due momenti non sono però slegati. Si richiamano invece reciprocamente. Il gesto che ha ridato vita alle gambe rattrappite dello zoppo, dà forza e serietà alla proposta di Gesù; la decisione che dà pienamente la vita, offerta come dono misterioso e accolta nella fede, va oltre la guarigione: riguarda un gioco di libertà e di amore, un sì ad un mistero di vicinanza. Senza questa decisione di fede nel Signore Gesù non c’è vita piena; nonostante l’eventuale guarigione dalla malattia o la liberazione dall’oppressione resteremo prigionieri della morte, presto o tardi.
    Per questo, i discepoli di colui che voleva tutti “a testa dritta”, perché pieni di vita, si mettono in giro per il mondo a parlare di Gesù e della sua resurrezione.
    Non lo fanno solo con belle parole. Parlano con i fatti, ma poi moltiplicano le parole che ripetono il racconto della storia di Gesù.
    La guarigione dello zoppo e tutti gli altri gesti miracolosi che i discepoli compiono, esprimono, in modo simbolico, che la storia di Gesù, raccontata nella loro fede appassionata, è vera e autentica: non parla solo di vita, ma ne anticipa i segni nel piccolo e nel quotidiano. Quello che conta veramente, quello che il racconto della storia produce più intensamente e misteriosamente (la realtà rispetto al suo segno) è proprio la vittoria della vita sulla morte.

    Un gioco originale tra domande e risposte

    Il racconto di Pietro che guarisce lo zoppo alla porta Bella del Tempio, ci regala un particolare, molto interessante per scoprire come servire la vita.
    Lo zoppo è restituito alla vita perché finalmente può camminare con le sue gambe, senza bisogno di sostegni e di aiuti. Ritrova la sua dignità di persona “normale”, libera, autonoma e responsabile.
    Anche la donna che Gesù ha guarito di sabato, contro le disposizioni della legge che sembrava vietarlo, come racconta il Vangelo di Luca al cap. 13, ha sperimentato la vita perché è guarita e può camminare a testa alta, come tutte le persone, e soprattutto perché ha scoperto quanto fosse ingiusto proibire la sua guarigione nel nome di un Dio, esoso e pignolo. Davvero Gesù ha dato la vita.
    Guarendo lo zoppo, la donna ammalata di artrosi, rimettendo in piedi la donna peccatrice, Gesù e i suoi discepoli ci dicono cos’è concretamente quella vita che rappresenta il nostro progetto e la nostra preoccupazione.
    Nello stesso tempo, suggeriscono lo stile con cui realizzare questo compito.
    A pensarci bene, aprono uno spiraglio di luce su una questione che attraversa oggi l’educazione e la pastorale, quella del rapporto tra domande e offerte.
    Lo zoppo aveva un solo desiderio: mettere assieme quattro soldi per togliersi la fame almeno per quel giorno. E ha steso la mano a Pietro, come a tutti quelli che passavano per la porta. La donna che camminava curva sotto il peso della malattia, desiderava tanto guarire, ma non aveva nemmeno il coraggio di sperarlo. Non trovava né le occasioni né le parole per chiederlo a Gesù. Quel giorno… per lei era un giorno come gli altri: una corsa alla sinagoga per pregare un poco, come faceva ogni sabato. La donna peccatrice, che una banda di fanatici ha buttato ai piedi di Gesù per chiedere a lui il via alla lapidazione, stava bene dove l’avevano trovata e non cercava proprio alternative di conversione.
    Pietro coglie la domanda, precisa e esplicita. Gesù la interpreta, leggendo con l’occhio dell’amore quello che le parole non dicono.
    Pietro non riesce a rispondere alla domanda. Ma fa la sua offerta, che travolge la domanda stessa.
    Non c’è corrispondenza tra la richiesta di soldi e il racconto di Gesù. Alle prime battute, ha letto facilmente la delusione nello sguardo dello zoppo. Ma la storia di Gesù travolge, come un fiume in piena, la domanda e fa diventare la risposta qualcosa di molto più grande ancora della domanda stessa.
    Il servizio alla vita, per i discepoli di Gesù, non può restare imprigionato nel gioco domanda-risposta. È troppo ristretta la logica e povera la prospettiva. L’amore non ce la fa a restare chiuso dentro queste sbarre. Rompe tutto.
    Dà una risposta che rende più bella ancora la domanda e restituisce a chi chiede, la gioia di avere desiderato molto di più di quello che riusciva ad esprimere.

    La missione dei discepoli di Gesù

    Mi piace considerare la storia di Pietro che guarisce lo zoppo alla porta Bella del Tempio, un riferimento fondamentale per pensare e realizzare il servizio dei discepoli di Gesù oggi.
    L’ho intuito alcuni anni fa, leggendo la ponderosa monografia di Schillebeeckx E., Gesù, la storia di un vivente (Queriniana, Brescia 1976). L’autore inizia il suo libro raccontando, attraverso modelli evocativi, la storia di Pietro e dello zoppo. E conclude, dopo oltre 700 pagine dense e impegnative: “Se questo libro, la Storia del Vivente, potesse essere una fondata introduzione ad una ripresa di fede narrativa, dall’effetto pratico-critico, basata sulla presenza orante nel mondo del regno di Dio e della prassi appropriata, mi considero felice. Se non è così, per conto mio questo libro può andare pure domani nell’elenco di antiquariato moderno” (714). Traduco così le affermazioni di gergo dell’autore: se dopo la lettura di queste pagine, chi ha avuto il coraggio di arrivare fino in fondo non cammina a testa alta, non entra saltando e ballando nel tempio, gridando che Gesù è il Signore… abbiamo buttato via il nostro tempo, chi ha scritto il libro e chi l’ha letto.
    Noi abbiamo spesso teorizzato il rapporto tra “annuncio di Gesù” e “far camminare a testa alta”, riempiendo pagine di distinzioni, integrazioni, priorità e… qualche scomunica. La meditazione della storia di Pietro mi ha convinto che la questione è un’altra, molto più impegnativa: far camminare a testa alta nel nome e per la potenza di Gesù.
    Le due preoccupazioni sono complementari, fino al punto che l’autenticità dell’una si misura sulla seconda.
    Possiamo camminare a testa alta anche quando diventiamo signori del dolore, della sofferenza, della crisi e della morte. Se questo non si realizza, siamo signori a metà… dunque non lo siamo affatto. Abbiamo bisogno di dimenticare, rilanciare in avanti, cercare i rimedi con l’ansia dell’assetato che desidera una fonte d’acqua ed è costretto a togliersi la sete alle cisterne fangose.
    Per questo solo nel nome di Gesù possiamo vivere a testa alta. Solo lui, che ha vinto la morte, scegliendola, a ragion veduta, come supremo gesto di amore e di libertà, ci permette di non avere più paura. Dà senso a tutto ciò che è drammaticamente un controsenso, tanto violento da costringerci a dimenticare.
    Per questo non c’è servizio alla vita e alla speranza “autentico” se non quando arriva al livello estremo dell’accogliere la morte nel nome di Gesù che è stato proclamato alto e forte.
    L’annuncio di Gesù è però significativo, credibile e interessante, quando si avverte che la vita incomincia a tornare nella gambe rattrappite e il capo, piegato in due sotto il peso del tradimento, del dolore e della ingiustizia, incomincia a rialzarsi.
    Chi fa camminare lo zoppo non fa un gesto previo all’annuncio di Gesù e neppure pone la condizione pregiudiziale. Si tratta di un atto pieno e autentico, che ha senso in sé e non può davvero essere strumentalizzato per secondi fini.
    Nell’esperienza di novità, sperimentata da chi cammina ora dritto, la parola su Gesù viene verificata e autenticata. Viene sperimentata come vera, e dunque provocante, proprio perché se ne constata tutta la significatività personale.
    Certo non è facile… far camminare gli zoppi. È più facile dire parole solenni.
    Ma se incominciassimo a preoccuparci di far camminare dritti quelli che zoppi lo sono dentro, piegati nell’incertezza, nella ricerca affannosa di speranza e di senso? Forse è più facile… e l’abbiamo sperimentato tutti, ogni volta che eravamo piegati in due sotto il peso dell’incertezza e abbiamo incontrato il volto sorridente e accogliente di chi si è preso cura di noi e ci ha regalato parole di speranza. Camminando lungo i sentieri tortuosi della vita, abbiamo scoperto che solo Gesù è il Signore. A lui possiamo affidare la nostra fame di speranza.


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