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    Lo Spirito fa comunione nella diversità



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2005-01-56)


    “Quando venne il giorno della Pentecoste, i credenti erano riuniti tutti insieme nello stesso luogo. All’improvviso si sentì un rumore in cielo, come quando tira un forte vento, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Allora videro qualcosa di simile a lingue di fuoco che si separavano e si posavano sopra ciascuno di loro. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e si misero a parlare in altre lingue, come lo Spirito Santo concedeva loro di esprimersi.
    A Gerusalemme c’erano Ebrei, uomini molto religiosi, venuti da tutte le parti del mondo. Appena si sentì quel rumore, si radunò una gran folla, e non sapevano che cosa pensare. Ciascuno infatti li sentiva parlare nella propria lingua, per cui erano pieni di meraviglia e di stupore e dicevano: Questi uomini che parlano sono tutti Galilei? Come mai allora li sentiamo parlare nella nostra lingua nativa? Noi apparteniamo a popoli diversi: Parti, Medi e Elamiti. Alcuni di noi vengono dalla Mesopotamia, dalla Giudea e dalla Cappadòcia, dal Ponto e dall’Asia, dalla Frigia e dalla Panfilia, dall’Egitto e dalla Cirenaica, da Creta e dall’Arabia. C’è gente che viene perfino da Roma: alcuni sono nati ebrei, altri invece si sono convertiti alla religione ebraica. Eppure tutti li sentiamo annunziare, ciascuno nella sua lingua, le grandi cose che Dio ha fatto.
    Se ne stavano lì pieni di meraviglia e non sapevano che cosa pensare. Dicevano gli uni agli altri: Che significato avrà tutto questo? Altri invece ridevano e dicevano: Sono completamente ubriachi” (Atti 2, 1-13).

    Fare comunione

    La pagina del libro degli “Atti”, proposta come riferimento di questa riflessione, ricorda un evento su cui, tante volte, la comunità ecclesiale ritorna: il dono dello Spirito di Gesù ai suoi discepoli per abilitarli a riempire il mondo della bella notizia del Vangelo. La Pentecoste è la realizzazione della grande promessa fatta da Gesù ai suoi discepoli, prima di tornare al Padre, è la festa d’inizio della Chiesa e della sua missione.
    È importante fare memoria di questo evento straordinario per ritrovare, ancora una volta, le radici carismatiche della nostra esperienza di credenti e di discepoli. In questo contesto, però, sottolineo un punto di prospettiva tutto particolare. L’ho scelto perché sono convinto che ci può aiutare ad affrontare, in modo serio e qualificato, una delle questioni più drammatiche dell’attuale vita ecclesiale. Come sempre, non dà la soluzione magica ai nostri problemi, ma ci indica la direzione e le condizioni su cui lavorare per trovarla.
    La questione impegnativa è quella messa a titolo: possiamo progettare una vita di comunione, reale e intensa, anche in una situazione culturale come è la nostra, segnata dai conflitti, dalle differenze, che fa della diversità un punto di non ritorno? Pensando alla “comunità” e alla sua costruzione, non mi limito alla comunità ecclesiale ufficiale, ma allargo il discorso alle diverse realtà che compongono la vita ecclesiale e la loro reciproca integrazione in una comunione più vasta.
    È facile proporre una risposta positiva, soprattutto se si resta sul vago e sui principi. Molto più complicato è immaginare le condizioni che rendono possibile e praticabile ciò che ci sta a cuore raggiungere.
    Comunione e comunità (l’istituzione che vive in comunione) sono, infatti, parole magiche, ripetute con frequenza da chi suggerisce punti di arrivo nel cammino ecclesiale e da chi fa analisi e indica difficoltà. Come capita con tutte le parole molto usate, c’è il rischio di restare eccessivamente nel generico.
    Per pensare al cammino verso la comunione, ho bisogno di porre davanti allo sguardo una figura sognata di comunione. Su essa possiamo misurarci e progettare.
    Ci aiuta, in modo originale, proprio la pagina del libro degli “Atti” su cui stiamo riflettendo.

    A confronto con i problemi

    Molti dei particolari che animano il racconto di Pentecoste richiamano spontaneamente quell’avvenimento, narrato da Genesi (cap. 11), che sembra davvero il suo contrario.
    I protagonisti della Torre di Babele, all’inizio della loro avventura, parlano la stessa lingua e, in qualche modo, condividono la stessa cultura e la medesima visione dell’esistenza. Si trovano nella condizione ottimale per comunicare con profitto. Rappresentano, nell’intenzione del racconto, una società ideale, segnata decisamente dall’esperienza di comunione.
    Forti di questa loro potenza decidono di sfidare Dio. Pretendono di poter fare a meno di lui per affrontare e risolvere i problemi dell’esistenza quotidiana. E si organizzano, progettando la costruzione di una torre, segno della loro potenza e espressione della loro autosufficienza, che colleghi la terra con il cielo.
    La loro presunzione diventa la loro rovina. Non solo la torre altissima è tanto piccola e sparuta che Dio deve “scendere” per vederla. Ma, all’improvviso, non riescono più ad intendersi. Avevano costruito qualcosa come segno della loro potenza condivisa, e si ritrovano incapaci di fare cose assieme. La diversità diventa impotenza, principio di crisi. La comunione, che regnava come dato di fatto, sparisce per lasciare posto alla dispersione, all’isolamento, alla crisi di solidarietà.
    Da questa prospettiva possiamo rileggere il racconto di Pentecoste. È davvero tutto il contrario. Il punto di partenza è la diversità, almeno di lingua. Il punto di arrivo è la possibilità di intendersi, pur parlando lingue diverse. Anche nel racconto degli “Atti” interviene Dio. Scende non per vedere meglio quello che resta invisibile ai suoi occhi, perché piccolo e insignificante, ma per assicurare quella solidarietà che l’Incarnazione produce. Nel dono dello Spirito nasce la comunione, la possibilità di “comprendere” e “condividere” nella diversità.
    Il confronto è molto importante, proprio per riuscire a costruire una figura di comunione su cui pensare in modo concreto.
    Tre elementi meritano un’attenzione speciale.
    In primo luogo i due racconti ci avvertono che la comunione non è punto di partenza, terreno consolidato di cui godere, ma tensione e crescita. Non bastano le condizioni esterne, la stessa lingua e la stessa cultura, per assicurare la comunione. Ci vuole un atteggiamento interiore, che spinga le persone a decentrarsi verso qualcosa che sta oltre il dato di condivisione spontaneo.
    Il secondo elemento tocca da vicino la nostra pretesa di autosufficienza. La possibilità di vivere in comunione è un dono che, in qualche modo, fa riferimento al mistero che ci avvolge. Se pretendiamo di fare a meno di questo inserimento accogliente nel mistero (che è, in ultima analisi, la presenza di Dio nella nostra esistenza), decidendo di gestire autonomamente la nostra avventura, la comunione va in crisi, inesorabilmente.
    Il terzo elemento sottolinea la sfida più grossa: il rapporto tra comunione e diversità. La diversità esclude la comunione? Per assicurare la comunione va cancellata la differenza e consolidata l’omologazione? Nel racconto del Genesi la diversità è castigo e quindi scatenamento della rottura e della dispersione. Essa è quindi la fine della comunione. Ma è proprio così? Il racconto della Pentecoste avanza altre ipotesi.
    Questi elementi, tanto importanti da richiedere una riflessione attenta e approfondita, sono tre aspetti di una stessa figura concreta di comunione. Per sapere come operare in ordine alla costruzione della comunione nella diversità, invito a meditare il racconto del libro degli “Atti”.

    La comunione è dono dello Spirito

    Nel racconto di Pentecoste il protagonista è lo Spirito.
    Lo Spirito, prima di tutto, è all’origine della grande trasformazione interiore che investe gli apostoli. Tutto incomincia dallo Spirito e si realizza nello Spirito. Essi erano un piccolo gruppo di sbandati, pieni di nostalgia per quello che avevano visto e udito, ma attanagliati dalla paura. Per questo restavano sbarrati in casa, dimenticando persino l’invito di Gesù di spargersi per il mondo. La missione che loro è stata affidata resta controllata e spenta dalla consapevolezza della propria inadeguatezza, che diventa paura e previsioni piccole, dominate dal buon senso e dalle logiche dei controlli e dei rischi. Pieni dello Spirito cambiano tutto: spalancano porte e finestre verso la vita autentica e non riescono più a contenere quell’esperienza che li ha trasformati dentro. Davvero sono diventati persone nuove, tanto imprevedibili nelle reazioni, che qualcuno li prende per ubriachi di prima mattina.
    La prima novità è costituita proprio dal coraggio di proclamare a voce forte (come quel rumore di tuono che ha attirato tanta gente a curiosare attorno alla loro casa) che Gesù è Risorto ed è il Signore, l’unico nome in cui avere la vita. Basta leggere le pagine che seguono nel libro degli “Atti” per scoprire la forza provocatoria di questo annuncio. Un richiamo è eloquente, per tutti: Pietro, davanti al Sinedrio (cap. 4). Lì da accusato si fa accusatore impietoso. Non deve difendersi, per aver guarito lo zoppo alla Porta Bella del Tempio. Dice, senza mezze parole: lo zoppo cammina perché tutti sappiano che quel Gesù che voi avete ucciso, nel nome di Dio di cui vi sentite i padroni (ucciso perché bestemmiatore… per le cose che faceva e diceva), Dio l’ha resuscitato, denunciando direttamente il vostro errore. E aggiunge: non è una cosa da poco… egli è diventato l’unico nome in cui avere quella vita che ci sta a cuore e che eravate abituati a collegare ad altre fonti (la legge, l’osservanza, le formalità…). Nei capitoli 7 e 8 della Lettera ai Romani Paolo lo ripete senza mezzi termini, sostituendo ai fatti una riflessione teologica nuova, originale, affascinante.
    Un secondo elemento va sottolineato, per scoprire lo stretto rapporto tra comunione e dono dello Spirito.
    Lo Spirito risolve un problema, altrimenti irrisolvibile. Il racconto lo dice in modo esplicito, proprio per far notare quello che è capitato. Gli ascoltatori di Pietro venivano da mezzo mondo. Non parlavano la stessa lingua. Le quattro parole di ebraico che certamente conoscevano non erano sufficienti per cogliere tutta la forza provocatoria e impegnativa della parola di Pietro. Si realizza, per dono dello Spirito, la novità di segno opposto a quella di Babele. Pietro parla la sua lingua e ciascuno lo intende nella propria. Il dono dello Spirito non investe solo Pietro e gli apostoli. In qualche modo attraversa tutta la folla. Funziona come interprete autorevole, per permettere a ciascuno di ascoltare quello che viene proclamato in una lingua sconosciuta, come se fosse pronunciato nella propria lingua materna.
    A pensarci bene, c’è qualcosa di molto più profondo. Non si realizza solo una specie di traduzione simultanea. Le parole di Pietro colpiscono la vita dei suoi ascoltatori. Essi si rendono conto che ciò che viene detto li riguarda da vicino, si riferisce alla dimensione più profonda dell’esistenza personale.
    Pietro non è costretto a richiamare l’attenzione con la solita litania “è importante”, “pensaci bene”, “c’è di mezzo la tua vita”… tutti processi che lasciano il tempo che hanno trovato, come sappiamo d’esperienza diretta. Lo Spirito assicura quella sintonia esistenziale che produce poi la conversione. Le parole risuonano come personalmente interpellanti. Lo Spirito ha scatenato l’atteggiamento di invocazione… a cui le parole di Pietro sono una specie di risposta donata. Viene spontanea in molti la decisione di chiedere: allora… che facciamo?
    Anche a questo livello il dono assume i contorni dell’evento meraviglioso. La parola pronunciata nell’annuncio diventa una parola che mi riguarda e mi interpella, di fronte alla quale non posso restare indifferente. L’esito della parola annunciata non dipende dalla qualità della parola stessa né tanto meno da qualche strategia raffinata. Viene dallo Spirito, che riempie chi propone e chi ascolta, muove la libertà nell’incontro e rende disposti alla conversione.
    È interessante, infine, constatare come la grande avventura viene realizzata all’insegna della libertà: la decisione fiorisce nel mistero di un incontro che ha sempre il soggetto come protagonista responsabile. Persino in un avvenimento così denso di emozioni e di coinvolgimento, qualcuno riesce a tirarsi fuori, denunciando come ubriachi coloro che invece per altri erano principio salvifico.
    Il dono dello Spirito, e la comunione che produce, è una grande esperienza di libertà, tanto lontana dalla voglia di proselitismo e da quel sistema di seduzione nascosta che affascina chi cerca l’applauso e il consenso. Senza libertà non c’è comunione.

    Un modo nuovo di vivere la diversità

    Il dono dello Spirito che costruisce la comunione è anche all’origine di un modo nuovo di vivere il rapporto con la diversità. Fa la comunione, proponendo una immagine di comunione che fa spazio alla diversità.
    Nel racconto della Torre di Babele la diversità produce dispersione e conflitto. Per questo, è punizione, meritata dalla pretesa di autosufficienza. In questa logica, che sperimentiamo tutti i giorni, la comunione tenta di sopprimere la diversità.
    Il racconto della Pentecoste ci propone una prospettiva di molto diversa.
    La diversità esiste, come punto di partenza. La folla che si ritrova attorno alla casa, in cui gli apostoli si erano rifugiati, proviene da zone geografiche e da culture diverse. Non parlano neppure la stessa lingua. Sono stati convocati dalla curiosità, un elemento di richiamo che non modifica per nulla la situazione di diversità.
    Di fronte all’annuncio di Pietro, restano quello che erano, nella loro lingua, nella loro cultura, nella loro collocazione esistenziale. Non viene attivata nessuna procedura di omologazione né sono avanzate richieste che possano superare questa situazione di partenza.
    La comunione sta altrove, in una radice molto più profonda e impegnativa.
    Cambiano dentro: riconoscono che Gesù è il Signore e sono felici di far parte del popolo degli uomini e delle donne nuove, rinnovate dallo Spirito, che li ha salvati.
    Questo è un aspetto su cui mi sembra urgente pensare, proprio in riferimento alla nostra esperienza ecclesiale attuale.
    La diversità, a tutti i livelli, è un fatto… l’esito triste della vecchia condanna di Babele. Ne paghiamo ancora lo scotto. Come reagire? Rimpiangere con nostalgia tempi diversi e lavorare per la loro restaurazione? O cercare altrove una soluzione, recuperando dal dono dello Spirito una nuova figura di comunione e i suggerimenti per consolidarla?
    Nel racconto degli “Atti” la comunione non viene costruita attraverso operazioni di omologazione, superando il limite della diversità. Nasce, cresce e si consolida attraverso la convergenza operosa nei confronti di un progetto di esistenza, imprevisto e inatteso, che cambia dall’interno e fa davvero la novità.
    Nella figura di comunione a cui spesso facciamo riferimento, tutto viene giocato nella relazione interpersonale e nello sforzo di creare interazioni positive reciproche, sulla forza della pressione, della simpatia, dell’adeguamento alle decisioni dell’autorità, nella rinuncia sublimata dalle promesse. In questo schema, l’indice di diversità rappresenta una specie di misura oggettiva del cammino ancora da percorrere.
    Ispirato dal racconto della Pentecoste, immagino una diversa figura di comunione.
    Le persone si decentrano verso un progetto che sta sopra i singoli, una causa, grande e impegnativa, che ciascuno fa propria e che ciascuno vive, consapevole di poterla realizzare solo in una convergenza, amorevole e operativa, con gli altri. In fondo, l’altro-diverso-da-me è un dono per me perché mi permette di scoprire meglio il progetto da servire e mi aiuta, nella ricchezza della sua diversità, a realizzarlo più rapidamente e meglio.
    La costruzione della comunione richiede la capacità di decentrarsi, per concentrarsi sul progetto, sulla causa da servire e portare a compimento. Siamo in comunione perché condividiamo appassionatamente la stessa causa. Il racconto di Pentecoste dà un nome a questa causa: la vita e la speranza di tutti per la potenza del Dio di Gesù, l’unico nome su cui possiamo tutti avere la vita.
    Comunione e diversità non sono perciò in conflitto.
    La diversità viene accolta, come dato di fatto e come ricchezza. Non produce contrapposizione e permette la comunione proprio perché ciò che accomuna è più grande e impegnativo: un progetto di esistenza, offerto e accolto, a cui ci si consegna nella fede e nella speranza.
    La comunione, che è dono come il progetto, attraversa le diverse persone e le unisce profondamente.
    In questa operazione, il confronto sulla diversità non produce né vincitori né vinti… come capita normalmente quando sembra necessario omologare le differenze per assicurare la necessaria convergenza. Tutti restano nella gioia della loro esperienza, trasformati da un dono che ha avvolto tutti, decentrati verso quella ragione profonda di esistenza che è il principio interiore di unità e di comunione. Le altre espressioni, che manifestano all’esterno la comunione sul progetto, sono giochi simbolici, utili e necessari per il nostro vivere sociale, ma sempre e solamente “segni”, espressivi e autentici nella misura in cui la realtà personale corrisponde ad essi.


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