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    Una chiesa che ama. L’eredità dell’enciclica «Deus caritas est»



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2006-07-36)


    Quale «eredità»?

    Quale «eredità»? Dobbiamo metterci d’accordo su cosa significhi «eredità», per assumere un atteggiamento disponibile e critico sulla proposta che sto per fare.
    Un buon dizionario della lingua italiana ci suggerisce qualche possibile significato. In senso reale, eredità significa «successione a titolo universale nel patrimonio del defunto». In senso figurato, eredità significa «patrimonio ideale trasmesso ai figli o ai posteri».
    Non credo proprio che sia questo il significato da attribuire alla espressione chiave della riflessione che mi è stata affidata.
    Per me eredità significa «vocazione» ad una responsabilità.
    Mi spiego.

    La scelta

    L’Enciclica non ci consegna nessun patrimonio, da spendere o da impegnare in qualche operazione finanziaria.
    Neppure mi basta considerarla come un bel documento che ho letto con gusto e mi ha fatto crescere intellettualmente, fino a consegnarmi un punto di riferimento su cui confrontarmi quando ho incertezze… magari citandone qualche passo per darmi ragione.
    L’Enciclica ci consegna come eredità un compito da realizzare. Esso riguarda tutti, perché investe la comunità dei discepoli di Gesù, che avvertono la gioia e la responsabilità di realizzare nelle diverse situazioni il servizio alla vita e alla speranza che ha riempito l’esistenza di Gesù.

    L’eredità è una vocazione

    L’Enciclica, parlandoci dell’amore di Dio e di quello del prossimo, ci chiama, prima di tutto, a sperimentare e a far sperimentare l’amore, come «Chiesa che ama». Per questo, l’eredità è una vocazione.
    È una vocazione molto speciale, da realizzare in quello stile totale di esistenza con cui Gesù descrive la consegna vocazionale che affida ai suoi discepoli, secondo la testimonianza dei Vangeli:
    - Gesù affida la causa che ha appassionato la sua vita ai suoi amici: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15).
    - Agli amici Gesù chiede il coraggio di portare avanti la realizzazione della sua causa, per la vita e la speranza di tutti, con la stessa passione con cui l’ha portata avanti lui. Una parabola lo dice molto chiaramente: lui e i suoi amici sono paragonati ad un tipo furbo, gran collezionista di perle: «Quando ha trovato una perla di grande valore, egli va, vende tutto quello che ha e compera quella perla» (Mt 13, 46).
    - La consegna è una cosa seria. Richiede entusiasmo… ma questo è abbastanza facile. Più impegnativo è la consapevolezza che la realizzazione richiede fatica, sofferenze, accettazione della vita dura: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9, 58).

    Quale eredità?

    Non dobbiamo romperci eccessivamente la testa per sapere in che cosa consiste l’«eredità» che l’Enciclica ci consegna, quale sia, in altre parole, il contenuto concreto di questa vocazione al servizio dell’amore.
    Ce lo dice chiaramente l’Enciclica stessa, aprendo la seconda parte: «Lo Spirito è anche forza che trasforma il cuore della Comunità ecclesiale, affinché sia nel mondo testimone dell’amore del Padre, che vuole fare dell’umanità, nel suo Figlio, un’unica famiglia. Tutta l’attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti, impresa tante volte eroica nelle sue realizzazioni storiche; e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana. Amore è pertanto il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini» (19).
    Propongo di pensarci un attimo con calma. Le parole del Papa non solo ci indicano il compito da assumere come Chiesa per portare avanti l’eredità dell’Enciclica, ma ci aiutano a scoprire che in questa operazione siamo tanto in buona compagnia… da ritrovare il diritto di sognare persino a colori.

    Il compito

    Il compito è detto senza mezzi termini: un servizio di amore, attraverso cui la Chiesa viene costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni degli uomini. L’ambito del servizio investe tutti i bisogni di tutti gli uomini: da quelli che riguardano il senso della vita e la speranza verso il futuro… fino a quelli «materiali» (come dice il Papa): pane, lavoro, casa, saluto, sicurezza, libertà, pace.
    Per non restare nel vago, il Papa traduce questo compito, invitandoci a considerare la pagina famosa in cui viene descritta la comunità apostolica, nel libro degli «Atti degli Apostoli».
    Ci chiede di fare memoria (e riprenderò questo invito in seguito), per radicare la nostra riflessione su una radice sicura, che ci aiuti a superare distinzioni e quelle discussioni che hanno attraversato la riflessione ecclesiale, avvelenando qualche volta persino gli animi… nel nome della carità e della verità.
    Conosciamo il testo. Lo cito con il commento dell’Enciclica stessa: «‘Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno’ (At 2, 44-45). Luca ci racconta questo in connessione con una sorta di definizione della Chiesa, tra i cui elementi costitutivi egli annovera l’adesione all’‘insegnamento degli Apostoli’, alla ‘comunione’ (koinonia), alla ‘frazione del pane’ e alla ‘preghiera’ (cf At 2, 42). L’elemento della ‘comunione’ (koinonia), qui inizialmente non specificato, viene concretizzato nei versetti sopra citati: essa consiste appunto nel fatto che i credenti hanno tutto in comune e che, in mezzo a loro, la differenza tra ricchi e poveri non sussiste più (cf anche At 4, 32-37)» (20).
    Su questa esperienza di fondazione il Papa giustifica l’esigenza: «La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario. Al contempo però la caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa; la parabola del buon Samaritano rimane come criterio di misura, impone l’universalità dell’amore che si volge verso il bisognoso incontrato ‘per caso’ (cf Lc 10, 31), chiunque egli sia» (25).
    E commenta con forza: «L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l’amore. Conseguenza di ciò è che l’amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato» (25).

    Il protagonista

    Il testo dell’Enciclica richiama la qualità del servizio d’amore che la comunità ecclesiale è chiamata a realizzare, mettendo come soggetto operativo lo Spirito di Gesù.
    Mi sembra una indicazione davvero preziosa che trasforma il compito in un sogno realizzabile, nonostante difficoltà e resistenze. Ci restituisce così il diritto di sognare in un tempo in cui sembra che crisi e tensioni ce lo stiano rubando inesorabilmente… questo diritto di sognare, persino a colori vivaci.
    La cosa mi piace e quindi la voglio sottolineare con forza.
    La descrizione della comunità apostolica, quella che rappresenta il riferimento del nostro attuale servizio di amore verso tutti gli uomini (l’eredità dell’Enciclica), non è una fotografia dell’esistente. Se lo fosse, servirebbe solo a mettere in crisi le nostre quotidiane faticose realizzazioni.
    In questo caso, stiamo riproducendo le logiche dominanti, quelle di cui la pubblicità si è impossessata abbondantemente, per convincerci a comprare i prodotti reclamizzati.
    Si fa così, di solito.
    Viene indicata un’immagine affascinante, lontana da tutte le nostre possibilità quotidiane. Questa immagine ci colpevolizza… perché non siamo «belli» come dovremmo essere e non ci vergogniamo di andare in giro con la faccia che ci ritroviamo… Subito però sono reclamizzati i prodotti capaci di trasformarci. Così, se siamo più belli, facciamo persino un servizio gradevole agli altri. C’è persino una ragione di altruismo… generoso.
    Le cose funzionano quasi come sacramenti ad effetto sicuro: colpevolizzati… facciamo incetta di sacramenti e così torniamo (o speriamo di tornare) passabili.
    Il ritratto della comunità apostolica che il Papa pone davanti alla Chiesa di oggi per delineare il suo servizio d’amore, non è una fotografia, ma un sogno.
    Non è una fotografia perché i fatti descritti nelle pagine che seguono nel libro degli «Atti degli Apostoli» sconfessano questo ritratto. Anche l’Enciclica ci ricorda questi episodi (21 ss.).
    La comunità procede d’amore e di concordia… e poi risulta che litigano per gelosie di bassa lega. Per uscire dai litigi, gli Apostoli «inventano» la figura di quegli uomini saggi che poi abbiamo chiamato i «diaconi» (Atti 6, 1-6).
    Un’altra pagina è più drammatica ancora. Fa quasi da specchio alla constatazione che tutti mettevano in comune i loro beni e persino vendevano quello che possedevano, per assicurare una condivisione piena. Anania e Zaffira (Atti 5) vendono il loro campo ma consegnano agli apostoli solo una parte del ricavato e si tengono il resto. Pietro li condanna e la morte li ghermisce, improvvisa e violenta.
    E posso continuare: di cose simili ce ne sono tantissime nelle pagine solenni degli «Atti degli Apostoli».
    Se fossero fotografie… ci sarebbero troppi trucchi per renderle credibili.
    Gli «Atti» raccontano un sogno. Ma si tratta di un sogno speciale. Esso ha lo Spirito di Gesù come protagonista. Lui è il nostro sogno di futuro che ci permette di vivere il presente, anticipando frammenti di futuro fino alla pienezza, sperimentata nella gioia, del nostro sogno. Egli fa realizzare i sogni. Dalla parte del futuro scopriamo meglio, con un sguardo molto più penetrante, il limite che attraversa il nostro presente. Non ci disperiamo e nemmeno ci rassegniamo. Continuiamo a sognarlo, nella certezza che i nostri sogni, proprio quando sono belli davvero, avremo la gioia di vederli realizzati per la potenza dello Spirito.
    L’eredità dell’Enciclica è un compito impegnativo.
    Ci consola la constatazione che la verifica di questo compito non sta, prima di tutto, nei risultati ottenuti, ma nel coraggio di trasformare il compito in un grande sogno di futuro nel protagonismo dello Spirito di Gesù.

    Come realizzare il servizio dell’amore?

    L’interrogativo su quale sia il progetto da realizzare, si trasforma subito nell’altra domanda: in che direzione operare? Come realizzare nel nostro concreto quotidiano l’eredità dell’Enciclica?
    Ci aiuta ancora la stessa Enciclica.
    Il Papa dichiara: «L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro. La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza» (25).
    Riflettendo su queste affermazioni, alla ricerca di suggerimenti operativi, desidero sottolineare due indicazioni.
    La prima rilancia due qualità operative, che dovrebbero attraversare il nostro attuale vissuto ecclesiale di amore.
    Nella seconda tento di fare qualche esempio concreto, riprendendo la memoria della comunità apostolica.

    Esigenze di qualità

    L’Enciclica, come è stato ricordato anche nell’articolo precedente, è una specie di lezione magistrale. Va quindi al sodo nelle cose di cui parla. Evita le espressioni vaghe o quelle che vanno bene per tutte le stagioni. L’eredità che ci consegna è davvero di qualità alta.
    Due esigenze desidero ricordare, tra quelle che mi hanno maggiormente colpito.
    - Un servizio concreto. Il servizio dell’amore si colloca all’interno delle sfide che il contesto lancia ai discepoli di Gesù. Per questo lo devono interpretare adeguatamente… senza lasciarsi sedurre dalle apparenze. Interpretato bene, permette di progettare operazioni precise, concrete, verificabili. Il servizio dell’amore diventa promozione di giustizia e di carità, capace di assumere anche risonanze politiche.
    - Un servizio unitario… dove non c’è posto per distinzioni di priorità e di competenze. Esso ha come sorgente l’amore di Dio, che raggiunge tutto l’uomo nella sua esistenza concreta. E ha come referente le singole concrete persone, i cui bisogni convergono nella radicale unità dell’esistenza.
    Ho già citato il passo dell’Enciclica che riduce a questioni ormai superate le preoccupazioni che distinguono tra evangelizzazione e promozione umana, con categorie di priorità o di integrazioni più o meno necessarie. Il Papa dice con decisione: «Amore è pertanto il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini» (20).

    Proposte operative

    Non posso lasciare il discorso a metà, indicando le esigenze senza suggerire concrete linee di azione.
    Esigenze senza fatti sono solo parole vuote.
    Mi sono chiesto: quali fatti produrre per dare spessore concreto all’eredità dell’Enciclica?
    Ho trovato una via di uscita… in un modo strano… che continua un modello presente abbondantemente nell’Enciclica: per individuare come impegnarci per trasformare il presente ecclesiale verso il futuro di Dio, possiamo far parlare la memoria.
    Ci costa, perché siamo gente dalla memoria corta e spesso tanto saccenti da pretendere di guardare solo il presente. Se vogliamo fondare i progetti su radici sicure, dobbiamo ritrovare la memoria: non solo nel servizio ecclesiale alla carità, ma in ogni gesto che assicuri quello che il Papa ci raccomanda «La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario» (25).
    Convinto di questo, ho riletto gli «Atti degli Apostoli» per scoprire come la Chiesa delle origini ha realizzato il compito impegnativo affidato da Gesù ai suoi discepoli.
    Ho scoperto tante cose molto belle.
    Le conosciamo tutti.
    Mi basta citarne alcune tra le tante, a battute veloci, con la pretesa, esplicita e forte, di affidare un compito da fare a casa: rileggere, sotto questa luce, tutto il libro degli «Atti».

    * Un annuncio che restituisce vita
    Incomincio con una pagina che riassume operativamente tutta la prassi di Gesù e ci consegna suggerimenti concretissimi.
    Mi riferisco alla storia di Pietro che guarisce lo zoppo alla porta bella del Tempio (Atti 3 e 4).
    Il racconto degli «Atti» ci propone il fatto e ci offre la sua interpretazione nella difesa a cui Pietro è costretto nei confronti di coloro che avrebbero preferito la tranquillità del tempio alla guarigione dello zoppo.
    Le parole di difesa di Pietro danno da pensare. Da difesa diventano attacco: giudizio su un modo di vivere la fede che la tradisce.
    Lo zoppo, guarito dal racconto della storia di Gesù, grida tanto di gioia che lo fermano per schiamazzi nel recinto sacro del tempio. Quando i sommi sacerdoti vengono a sapere che c’è stato di mezzo Pietro, interrogano lui, per andare alla radice del disordine. Qui viene il bello. Pietro dice: «Sapete perché questo zoppo cammina dritto e sano? Perché tutti sappiano che non possiamo essere vivi se non in quel Gesù che voi avete crocifisso e ucciso e il Padre ha risuscitato da morte».
    C’è un riferimento stretto tra la storia di Gesù, la guarigione fisica dello zoppo e la vita piena (anche contro la morte).
    Rispetto a quello che conosciamo della prassi di Gesù per la vita, Pietro aggiunge qualcosa di nuovo e di inedito. Non solo guarisce come ha fatto tante volte Gesù, ma racconta anche la storia di Gesù. Al gesto, per la cui realizzazione Gesù spesso ha chiesto la fede in lui e nella potenza del Padre, Pietro aggiunge il racconto della sua fede appassionata nel Crocifisso risorto. Dice, con forza, che solo in questa fede, impegnata a confessarlo ormai come il vivente, è possibile avere pienamente e definitivamente la vita. Il racconto della storia di Gesù nella confessione di fede dei suoi discepoli, l’entusiasmo e la fede che suscita in coloro cui è rivolto, danno la pienezza della vita. C’è un intreccio profondo tra guarigione e confessione che Gesù è il Signore. La guarigione risolve i problemi fisici. La confessione di fede nel Risorto supera le barriere della morte fisica e assicura una pienezza impensabile di vita, nonostante la morte.
    I due momenti non sono però slegati. Si richiamano invece reciprocamente. Il gesto che ha ridato vita alle gambe rattrappite dello zoppo, dà forza e serietà alla proposta di Gesù; la decisione che dà pienamente la vita, offerta come dono misterioso e accolta nella fede, va oltre la guarigione: riguarda un gioco di libertà e di amore, un sì ad un mistero di vicinanza. Senza questa decisione di fede nel Signore Gesù non c’è vita piena; nonostante l’eventuale guarigione dalla malattia o la liberazione dall’oppressione resteremo prigionieri della morte, presto o tardi.

    * Un modo di risolvere i problemi
    Il secondo fatto riguarda soprattutto i criteri attraverso cui la Chiesa apostolica ha risolto i problemi, anche quelli gravi e laceranti.
    Sull’urgenza di affrontare problemi gravi… la Chiesa apostolica ci assomiglia. Forse le assomigliamo meno sul modo di risolverli.
    Mi riferisco al cap. 15 degli «Atti».
    A prima vista lo scontro di Antiochia riguardava la circoncisione e la legge mosaica. Alla radice però stava l’atteggiamento verso il presente… che ormai si stava facendo lungo e ingovernabile e la priorità fontale della salvezza di Gesù.
    Problemi come questi andavano risolti. E in fretta.
    L’assemblea di Gerusalemme non cerca di spezzare un capello in quattro, raffinando analisi e documentazioni. Neppure cerca quel tanto di compromesso che assicura l’unanimità sul minimo. Propone, al contrario, una conclusione innovativa attraverso una criteriologia di verifica assai originale.
    Pietro racconta la sua esperienza… quell’avventura stranissima di cui è stato protagonista a Giaffa (At 10, 9-30). Da buon discepolo di Gesù, che si riconosce pieno dello Spirito, sembra dirci: ascoltiamo i fatti. In essi parla lo Spirito, se ci lasciamo guidare da lui, anche nell’interpretarli correttamente. Nel fatto citato lo Spirito dichiara, attraverso l’interpretazione autorevole di Pietro: «Dio che conosce il cuore degli uomini ha mostrato di accoglierli volentieri: infatti ha dato anche a loro lo Spirito Santo, proprio come a noi. Egli non ha fatto alcuna differenza fra noi e loro: essi hanno creduto e perciò Dio li ha liberati dai loro peccati». La stessa procedura è realizzata da Paolo: anche lui racconta quello che è successo, per far toccare con mano da che parte sembra orientare lo Spirito. Tra l’altro… fa una cosa che potrebbe creare meraviglia e disappunto alla gente seria come siamo noi: durante il viaggio verso Gerusalemme, alla ricerca della soluzione del problema, non resta con le mani in mano né aspetta la soluzione prima di muoversi, ma annuncia il vangelo ai pagani, nello stesso stile con cui lo si faceva ad Antiochia, scatenando le polemiche.
    Poi interviene un altro riferimento decisivo, frutto della sapienza di Pietro e di Giacomo… un altro di quei criteri che riesce a portare a decisioni di futuro, costringendo a schizzare fuori delle beghe intellettualistiche.
    Pietro e Giacomo propongono di spostare l’attenzione dai principi a quella esperienza normativa fatta da tutti loro stando con Gesù: la possibilità di sperimentare la bontà di Dio. Continuando la prassi di Gesù, bisogna far sperimentare agli uomini chi è Dio: il Padre buono e accogliente, che non chiede cose inutili, come invece fa chi comanda per il gusto di farsi obbedire. Non è possibile annunciarlo nella verità, se la parola proclamata viene poi accompagnata da una serie di pretese inutili, motivate sul compromesso e sulla paura.

    * Testimoni di speranza
    Cito un altro fatto, tra i molti che gli Atti ci raccontano. Sta proprio all’inizio del libro (cap. 1).
    Pietro ha bisogno di indicare alla comunità apostolica una persona a cui affidare in pieno titolo tutti i compiti che derivano dalla vocazione apostolica. Non gli basta constatare che uno dei due possibili candidati è tanto bravo e onesto, da portarsi dietro il soprannome di «Giusto». La disponibilità vocazionale ha bisogno di qualcosa di più consistente e radicale.
    Pietro suggerisce così due riferimenti per operare il necessario discernimento vocazionale: la confessione che solo Gesù è il Signore e la capacità di essere gente di speranza sulla forza della resurrezione.
    Il posto lasciato libero da Giuda, è per una persona che abbia conosciuto Gesù, abbia camminato con lui fin dall’inizio, sia un testimone sicuro e di prima mano.
    Il criterio per noi potrebbe sembrare impossibile. Non si cancellano duemila anni di storia trascorsa.
    Eppure il suggerimento è davvero serio e impegnativo. Senza condivisione appassionata di una persona e della causa che ha riempito l’esistenza di questa persona, diventiamo impiegati e non apostoli.
    Mi sono chiesto cosa significa tutto questo per noi oggi. La risposta è facile… anche se mette in crisi. Noi possiamo tradurre il criterio di Pietro con l’espressione fondamentale: va scelta una persona affascinata dal Signore Gesù, capace di porlo al centro della sua esistenza.
    Si tratta, in altre parole, di scegliere la nuova responsabilità in Gesù e per Gesù… evidentemente per la causa di Gesù, in fedeltà a quanto i Vangeli dicono di Gesù e della sua esistenza. Non sono ammesse persone che abbiano secondi fini… anche i più nobili dal punto di vista religioso.
    Il secondo elemento rilancia il coraggio di servire con decisione la speranza.
    Pietro dice: il posto di Giuda è per una persona che sia capace di diventare «testimone della resurrezione».
    Essere testimoni della resurrezione significa dichiarare con i fatti che il Crocifisso è il Risorto: colui che era stato distrutto, fino a togliergli persino il volto di uomo nel nome della legge, ha vinto la morte ed è vincitore per tutti. Il testimone della resurrezione è una persona di speranza, che inonda di speranza e di ottimismo, per la potenza di Dio, ogni fatto della vita quotidiana.

    * Restituire libertà per chiamare a responsabilità
    Anche nella Chiesa di oggi ci sono situazioni in cui risuonano l’applauso, l’entusiasmo e il consenso. Ce ne sono altre in cui la persecuzione ritorna violenta come ai tempi di Paolo e nei primi secoli della storia della Chiesa. Entusiasmo e contestazione qualche volta hanno come referente la stessa persona, oggi come allora.
    Gli Atti raccontano un episodio capitato a Listra… una città lontana di tempo e di spazio. Basta cambiare città, nazione e riferimento personale e l’avventura di Paolo e Barnaba, la loro reazione e il loro coraggio possono diventare anche la nostra, in una Chiesa che sa amare.
    Quello che è capitato lo si descrive con poche battute. Paolo suscita un consenso strepitoso tra la folla, per le cose che dice e per i gesti con cui le accompagna. E l’entusiasmo va alle stelle. Gli bruciano l’incenso davanti e… si chinano ad adorarlo. Le stesse persone, sobillate da qualche infiltrato, poco dopo lo vorrebbero linciare. La strada dall’adorazione alla contestazione è brevissima.
    Sono fatti di cronaca quotidiana, come ricordavo poche righe sopra. Per questo, non mi interessano più di tanto.
    Mi sta invece a cuore scoprire la reazione di Paolo e, fin dove è possibile, le ragioni che la giustificano. Il fatto raccontato passa così dalla cronaca alla proposta proprio sulla forza di questi atteggiamenti.
    Paolo non ci sta affatto ad essere trattato come fosse un dio. Non si pone neppure la questione dei vantaggi che potevano derivare al suo ministero di evangelizzatore. Lo sapeva certamente, anche d’esperienza diretta, quanto è disponibile all’ascolto una folla sedotta dal fascino e quanto l’applauso può ricadere a vantaggio della causa che lui sta proponendo e servendo. Ma questo modo di vedere le cose non era per niente il suo.
    Non poteva essere l’atteggiamento dei discepoli, pieni dello Spirito di Gesù, perché così li aveva educati Gesù stesso, a fatti e a parole.
    Strano formatore questo Gesù che chiama a cose impegnative, facendo balenare dolori e privazioni che il sì al suo invito avrebbe assicurato. Sono in pochi a condividere questo stile di fare proposte… anche oggi.
    Nello stesso tempo, le persecuzioni e le minacce di morte non fermano né Gesù, né i suoi discepoli, né tanto meno Paolo. A Listra, dopo il linciaggio, con le poche energie che è riuscito a recuperare, continua nel suo impegno di evangelizzatore.

    La dolce compagnia

    La lettura dell’Enciclica mi ha fatto scoprire una cosa bella e consolante. La voglio condividere prima di concludere.
    Questa è la mia… piccola scoperta: il nostro impegno - personale e ecclesiale - per realizzare l’eredità dell’Enciclica, si effettua in una dolce compagnia.
    Non abbiamo solo la compagnia dello Spirito di Gesù, che ci restituisce il diritto di sognare in grande, nonostante problemi e tradimenti. Ci conforta la raccomandazione di Gesù: «Quando un servo ha fatto quello che gli è stato comandato, il padrone non ha obblighi speciali verso di lui. Questo vale anche per voi! Quando avete fatto tutto quello che vi è stato comandato, dite: Siamo soltanto servitori. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare» (Lc 17, 10).
    Abbiamo anche una compagnia più vicina, quasi a portata di mano: quella dei «santi», «coloro che hanno esercitato in modo esemplare la carità» (40). Il Papa ce li ricorda, chiamandoli per nome. L’elenco non è esaustivo… ma esemplificativo. Ne possiamo aggiungere finché vogliamo, inserendoci anche tanti nostri amici, che hanno fatto cose grandi per quell’amore verso Dio e i fratelli che loro ardeva nel cuore… e magari, sottovoce, possiamo aggiungere anche qualche frammento della nostra vita.
    In compagnia si lavora meglio.
    La compagnia dà credibilità alle parole. Dà diritto di dire cose più grandi dei fatti che possiamo produrre. La compagnia sostiene e giustifica la speranza.
    In qualche modo ridimensiona persino il pericoloso criterio della «testimonianza personale» come diritto alla parola.
    Scopriamo di essere come una… multinazionale con un bilancio unico. I miei buchi di passivo sono controbilanciati dagli enormi profitti realizzati dai miei amici: Gesù, Maria, i Santi, quelli grandi e quelli piccoli… con il volto senza aureola di tante persone che conosciamo.


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