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    Dal titolo del Convegno (di Verona) un progetto di vita cristiana


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2007-03-14)


    Il Convegno ecclesiale di Verona propone un progetto di vita cristiana, molto ricco e stimolante, collocato nel cuore dell’esistenza dei discepoli di Gesù e della qualità del loro servizio alla vita di tutti.
    Nella formula messa a titolo sono riassunte in modo eccellente le riflessioni suggerite dal documento introduttivo, che hanno poi orientato il cammino del Convegno stesso.
    Questa è la mia convinzione. La devo giustificare, rilanciando le ragioni e gli orizzonti pastorali che la interpretano.
    Va ricordato il titolo, anche perché qualche aggiunta successiva o qualche formulazione generica può snaturare la forza e la scelta della proposta: «Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo».
    Tutte le parole hanno un peso; la loro armonia suggerisce quel progetto conciliare di vita cristiana che mi ha colpito e entusiasmato.
    Sottolineo gli elementi del progetto:
    - i cristiani pretendono di avere qualcosa di importante da condividere con tutti, soprattutto attraverso la loro testimonianza;
    - l’evento che fonda questa pretesa e dà risposta alle attese diffuse è Gesù risorto: Gesù di Nazareth, una persona concreta, che ha un posto nella storia, che ha avuto degli amici e dei nemici. I discepoli, che l’hanno conosciuto direttamente, hanno iniziato molto presto a professare la loro fede in lui, confessandolo il Cristo, volto e parola di Dio per noi, Dio stesso in mezzo a noi, nella grazia della sua umanità;
    - Gesù è il Risorto: colui che ha vinto la morte proprio perché ha accettato di accoglierla, in un gesto impensabile di amore, quando avrebbe potuto «distruggere» i suoi nemici e scampare dalla morte;
    - il dono dei cristiani riguarda la vita di tutti: non è qualcosa da consumare al chiuso, ma da lanciare con forza verso il mondo, la storia, i problemi, le inquietudini di tutti;
    - questo dono si colloca nel cuore delle sfide contemporanee: la speranza, quella richiesta di senso e di futuro che inquieta ogni persona capace di vivere pensando e confrontandosi.
    Questi cinque elementi che il tema e il titolo del Convegno ci consegna, sono, radicalmente, un progetto di vita cristiana e una forte e coraggiosa esperienza ecclesiale. Possiamo avere la pretesa di assolverla, nonostante la debolezza e l’inquietudine che attraversa la nostra esperienza cristiana ed ecclesiale, perché ci scopriamo nella dolce compagnia dei tanti fratelli e sorelle che hanno vissuto così la loro vita: dai frammenti di vissuti concreti nasce il coraggio della proposta.
    Anche questo il Convegno ce l’ha fatto scoprire e sperimentare. La constatazione fa risuonare ulteriormente il significato ecclesiale del titolo e del tema.
    Su questi elementi spendo una parola di approfondimento.

    AL CENTRO LA SPERANZA COME SFIDA

    L’orientamento globale del Convegno ha fatto riscoprire la logica della Gaudium et spes e le ha aggiunto una dose alta di concretezza e di attualità.
    Mi spiego.
    È fuori discussione la constatazione che l’esperienza ecclesiale attraversa oggi una stagione non proprio tra le più felici. Le difficoltà sono sulla bocca di tutti e le lamentele sembrano fatte apposta per consolarci. La ricerca di ragioni si fa ansiosa, e più inquietante diventa la proposta di rimedi.
    In una situazione come questa, la tentazione facile è quella di concentrare lo sguardo verso l’interno dell’esperienza ecclesiale e cristiana, e di immaginare che i problemi nascano da una crisi di fedeltà e i rimedi stiano nel ritorno coraggioso ai modelli di un tempo, più sicuri e rassicuranti. Al massimo, le tante energie disponibili sono concentrate attorno ad alcuni orientamenti riflessivi e operativi eccessivamente autoreferenziali.
    Fa da corrispettivo un’altra soluzione, egualmente facile e frequente: quella che rilancia tutto verso il futuro, con quel pizzico di sadismo religioso che constata quanto la crisi del presente possa far ricordare la gioia del futuro… anche alle persone smemorate e affannate.
    Non nego l’importanza di queste scelte e non mi permetto di giudicare coloro che ci sperano e si affannano a trovare le espressioni più solenni per orientare e convincere.
    Mi ha colpito l’atteggiamento della Chiesa italiana, convocata in Convegno a Verona. Mi sembra pienamente decentrata sui problemi di tutti, perché sa che la fedeltà al suo Signore richiede la condivisione piena e appassionata delle gioie, delle speranze, delle tristezze e dei dolori di tutti, impegnata a trovare ragioni di speranza anche nell’oggi.
    La constatazione ha bisogno di tre sottolineature, per dare il senso pieno della scelta e collocarla nella sua giusta prospettiva.
    I problemi da cui la comunità ecclesiale italiana si lascia provocare, come dice il titolo, sono quelli della speranza. Di problemi ce ne sono molti. E lo sviluppo del Convegno e il documento preparatorio li hanno annotati con diligenza. Essa però pretende di leggerli andando verso il loro profondo, alla ricerca del punto di unificazione e di interpretazione. La sua fede nel Risorto l’abilita a questa operazione ermeneutica. Cogliendo che alla radice di tutto, quasi come elemento unificatore, sta il grido di disperazione e l’attesa di speranza, fa una lettura teologica del vissuto: dà un nome a quello che constata, riconoscendo la validità di tutti gli altri nomi ma giocando la qualità della sua esistenza in questa lettura speciale.
    Ho detto che Verona percorre le vie di Gaudium et spes e le… aggiorna. Esprime condivisione piena con la vita di tutti. Ma dichiara che c’è qualcosa che non può sfuggire a nessuno, che rappresenta, in ultima analisi, la novità di questa stagione: la crisi di senso (del nostro contesto culturale italiano) che si traduce in crisi di speranza.
    Una seconda nota desidero sottolineare.
    Condivido - e non potrebbe essere altrimenti - la preoccupazione diffusa di rilanciare quella fedeltà alla tradizione ecclesiale che oggi sembra offuscarsi sotto l’onda montante della cultura che respiriamo. Chiede e sollecita verso la conversione. Decentrandosi però sul suo compito salvifico (testimoniare la speranza in Gesù) propone un modello di conversione: il compito (la vocazione apostolica e la missione relativa) possono diventare la spinta evangelica verso la radicalità e la fedeltà.
    Infine il tema della speranza (come grido e come proposta) lega sapientemente passato e futuro sul presente. Anche questo è un tema molto impegnativo. Ciò che mette in crisi la speranza viene dal presente, dalle mille inquietudini che lo attraversano e che spesso sembrano fatte apposta per consegnarci alla disperazione o alla rassegnazione. La comunità ecclesiale ritrova dal suo passato la capacità di riempire il presente di fatti e parole di speranza, per restituirlo a chi si ritrova avvolto nell’ombra della morte. Testimoniando Gesù risorto, parla (a parole e a fatti) di vita per l’oggi. Ricorda però a tutti, con forza, che solo nel futuro ogni lacrima sarà pienamente e definitivamente asciugata. Lo proclama la Prima Lettera di Pietro, che il Convegno ha scelto come suo testo di base:
    «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi. Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un poco afflitti da varie prove» (1Pt 1, 3-6).
    Questo mi sembra bello, per ridimensionare le tentazioni nostalgiche, frequenti in una stagione di crisi, e per riempire anche il nostro presentismo di un respiro escatologico.

    GESÙ DI NAZARETH, LA PROPOSTA

    Al centro del problema sta la speranza. Al centro della proposta sta Gesù il Risorto e il suo annuncio.
    Il Convegno sembra dirci: possiamo condividere con tutti gli uomini di buona volontà le mille cose che vanno programmate con urgenza per affrontare e risolvere i problemi di oggi. E lo dobbiamo fare senza incertezza e senza tentennamenti. Su una sola frontiera però la comunità ecclesiale riconosce di essere competente in assoluto, fino al punto che la rinuncia o la debolezza nei confronti di questo servizio vanifica inesorabilmente la qualità e l’efficacia degli altri. Testimoniamo Gesù risorto per rendere efficace il servizio alla speranza, riportando ad unità e ad efficienza tutti gli altri servizi.
    Mi è sembrato un gesto di grande coraggio evangelico sul cui confronto abbiamo tanto da imparare. Non proponiamo il nome di Gesù per fare dei proseliti, per dichiarare quello a cui crediamo e neppure per contrapporre un nome forte ad altri. Proporre Gesù il Risorto per la speranza mi sembra l’unico servizio serio che i discepoli di Gesù possono fare, mettendo a frutto quella esperienza radicale che ha segnato la loro esistenza. Se la crisi radicale è crisi di speranza perché incertezza sul senso e sulla sua consistenza - oltre il dolore e la morte - solo chi ha vinto la morte e ha donato la propria vita, può risultare il Vincitore.
    Sulla proposta di Gesù il Risorto, voglio aggiungere due altre note di commento.
    Il referente della proposta è Gesù: l’uomo di Nazareth che nella nostra fede confessiamo gioiosamente il volto e la parola di Dio, Dio in mezzo a noi, l’unico nome su cui possiamo avere la vita.
    Abbiamo l’abitudine di far prevalere la dichiarazione di fede (il Cristo) sulla storia umana e concreta di Gesù. Confesso che è un modo di fare che non mi piace… perché non mi piace mettere il titolo qualificativo davanti (o come sostituto) del nome proprio, perché solo esso rappresenta la nostra storia e la nostra collocazione in un’avventura collettiva.
    Per questo mi ha colpito il titolo del Convegno e lo rilancio. I cristiani testimoniano «Gesù». Fanno riferimento al Figlio di Maria, alla sua storia raccontata dai Vangeli, intessuta dei toni essenziali e provocanti che ci inquietano e ci consolano.
    Certamente la nostra testimonianza è forte e decisa, perché lo confessiamo il Cristo, il Signore della vita e della morte, Dio con noi. Il richiamo all’Incarnazione ha, anche a questo proposito, le sue pretese.
    Gesù è il Risorto. Anche questo richiamo esige attenzione e coerenza.
    Il Risorto è il Crocifisso Risorto: il Vincitore della morte dà speranza, proprio perché ha sperimentato la morte, su scelta consapevole e amorevole, proprio quando avrebbe potuto rifiutarla con un gesto di potenza.
    La morte di Gesù è l’esito dell’ingiustizia, del sopruso, dell’ateismo religioso e fanatico. Ma quel Gesù che era stato ucciso violentemente nel nome di Dio, Dio l’ha risuscitato per dichiarare da che parte sta e dove possiamo collocarci noi per stare con Lui.
    Il richiamo al Risorto significa dunque la proclamazione della sua vittoria e, nello stesso tempo, la contestazione del sopruso e la condivisione dell’ingiustizia sofferta.

    LA TESTIMONIANZA: IL SERVIZIO DEI CRISTIANI AL MONDO

    Il servizio dei cristiani (e della comunità ecclesiale che ne rappresenta la grande compagnia) alla speranza del mondo è indicato con l’espressione «testimoni».
    La Chiesa serve la speranza del mondo nel nome di Gesù Risorto attraverso la testimonianza.
    Anche questa mi sembra una indicazione molto suggerente. Va compresa bene.
    Testimonianza è una espressione molto ripetuta e, di conseguenza, carica del rischio di diventare equivoca. Quando la si usa in un testo ufficiale, evidentemente si intende fare riferimento al suo significato tecnico.
    La fonte più sicura e attendibile per comprendere questo significato è certamente Evangelii nuntiandi.
    Riporto la sua citazione autorevole (EN 21):
    «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella. Ma questo incontro non si produrrà, se la Buona Novella non è proclamata. Ed essa deve essere anzitutto proclamata mediante la testimonianza. Ecco: un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità d’uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglimento, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono. Ecco: essi irradiano, inoltre, in maniera molto semplice e spontanea, la fede in alcuni valori che sono al di là dei valori correnti, e la speranza in qualche cosa che non si vede, e che non si oserebbe immaginare. Allora con tale testimonianza senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili: perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della Buona Novella. Vi è qui un gesto iniziale di evangelizzazione. Forse tali domande saranno le prime che si porranno molti non cristiani, siano essi persone a cui il Cristo non era mai stato annunziato, battezzati non praticanti, individui che vivono nella cristianità ma secondo principii per nulla cristiani, oppure persone che cercano, non senza sofferenza, qualche cosa o Qualcuno che essi presagiscono senza poterlo nominare. Altre domande sorgeranno, più profonde e più impegnative; provocate da questa testimonianza che comporta presenza, partecipazione, solidarietà, e che è un elemento essenziale, generalmente il primo, nella evangelizzazione. A questa testimonianza tutti i cristiani sono chiamati e possono essere, sotto questo aspetto, dei veri evangelizzatori. Pensiamo soprattutto alla responsabilità che spetta agli emigranti nei Paesi che li ricevono».
    Il documento - e la citazione che lo esprime - è molto ricco di suggerimenti. Hanno validità anche oggi, anche se sono trascorsi molti anni. Qualcosa può essere aggiornato. La comprensione di cosa sia «testimonianza» resta, decisa e forte.
    Anche in questo caso, la sfida viene dalla cultura e la risposta consiste in un servizio di rigenerazione. Verona parla in termini più concreti: grido di speranza e riscatto di ragioni di fiducia rassicurante, verso una qualità globale di vita.
    La Comunità ecclesiale si sente provocata nella sua identità. Risponde mettendo a frutto il suo dono: l’evangelizzazione. Lo fa prima di tutto con la testimonianza: una condivisione piena della vita di tutti, in uno stile di esistenza che provoca, mostra alternative, le rende sperimentabili e apre alla esplicitazione del nome che sostiene e sollecita verso questa presenza.
    In Evangelii nuntiandi si parla della testimonianza nel contesto della evangelizzazione. Lo sguardo corre, di conseguenza, verso l’insieme del processo. Si ricorda quindi che la testimonianza non realizza da sola una buona evangelizzazione. Per questo il documento aggiunge la necessità dell’annuncio e della celebrazione della fede.
    Il testo però dice due cose di grande rilevanza.
    Ricorda prima di tutto che la testimonianza è già momento di evangelizzazione e non solo premessa ad essa. È già momento di annuncio del Vangelo. Attraverso i fatti della testimonianza quotidiana i discepoli di Gesù dicono con la loro vita quello che le parole, anche le più raffinate e sapienti, non possono dire. Nello stesso tempo, le parole, che pronunciamo nella trepidazione, interpretano i fatti e danno ad essi una risonanza più ampia… proprio quella di cui abbiamo bisogno per radicare sul Signore Gesù la nostra speranza. Risuona anche a questo proposito l’invito della Prima Lettera di Pietro: «Pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3, 15).
    Il richiamo a EN ci offre poi una definizione descrittiva della testimonianza stessa, indicando la sua caratteristica centrale nella condivisione della vita di tutti e nella provocazione che il vivere la vita di tutti scatena, quando essa è realizzata in un modo nuovo rispetto alle logiche dominanti, fedele alla radicalità del Vangelo.
    Questa è la dimensione originale che il Convegno ci consegna, se è corretta la mia interpretazione.
    La Chiesa serve la speranza di tutti quando i cristiani si impegnano a vivere la vita quotidiana con una qualità che diventa provocante, perché è governata da modelli e caratteristiche che non sono davvero quelle dominanti, in tutti i settori della vita privata e pubblica.
    Possiamo tradurre l’esigenza nel linguaggio di tutti i giorni.
    Reagiamo alla crisi diffusa di speranza non perché diciamo parole di speranza, ma perché produciamo fatti di speranza. Con i fatti mostriamo che possiamo credere alla possibilità di realizzare alternative rispetto alle logiche dominanti.
    In una stagione in cui i cristiani hanno ritrovato la gioiosa fierezza di annunciare che solo Gesù e il Signore e lo fanno con decisione, il Convegno ci ricorda che la qualità del servizio alla speranza non corrisponde all’indice di questa proclamazione. L’unità di verifica e di validazione sta altrove: nella qualità della vita quotidiana. Le parole che proclamiamo - urgenti e importanti - diventano significative e credibili quando interpretano i fatti.
    Se restano invece solo un vuoto rincorrersi di espressioni solenni, la speranza resta in crisi e c’è il grosso rischio di restare condannati all’insignificanza, proprio nel momento in cui si fa più alto l’appello verso chi ha doni preziosi da condividere.

    UNA CHIESA CHE AMA E SERVE LA VITA

    L’immagine di Chiesa che Verona ha costruito, con i mille frammenti del Convegno e che consegna ai discepoli di Gesù oggi, mi sembra quella di una Chiesa, fraterna, compatta, corresponsabile al suo interno, decisamente e coraggiosamente decentrata verso i problemi veri dell’umanità, quelli della vita e della speranza. Riconosce che la fedeltà al suo Signore la costringe a condividere con passione forte la vita di tutti, le gioie e le tristezze di tutti, per riscoprire che può servire questa stessa vita, ritrovando la fedeltà al suo Signore e al Vangelo.
    Veramente è un volto di Chiesa di cui abbiamo bisogno, se non vogliamo ridurci a far diventare grandi i problemi piccoli, facendo diventare conseguentemente piccoli i problemi grandi.
    Altre voci rifletteranno su questo tema del dossier che il lettore ha tra le mani.
    Due cose però non posso ignorarle, per dichiarare forte la mia constatazione sull’avventura di Verona.
    Abbiamo scoperto la dolce e affidabile compagnia ecclesiale (dai santi grandi a quelli piccoli, dai testimoni coraggiosi alle figure senza aureole e senza insegne che fanno il bello di una Chiesa viva). Una Chiesa così ci restituisce il diritto di essere «testimoni di speranza», credibili perché autenticati da Gesù e dai fratelli che lo riconoscono l’unico Signore che può dare speranza.
    La seconda cosa ce l’ha regalata con forza il Papa, dando voce esplicita ai frammenti che avevamo incontrato nel felice cammino del Convegno: la Chiesa, a cui consegniamo i nostri progetti, è una Chiesa impegnata a dire un forte «sì» alla vita. Qualche volta - ci diceva il Papa - dobbiamo dire dei no… ma sono solo formalmente dei no… perché sono il volto impegnato ed esigente di un sì alla vita, che deve essere sempre più pieno, sperimentabile, convincente. Riporto una affermazione centrale dell’intervento del Papa:
    «Per parte mia vorrei sottolineare come, attraverso questa multiforme testimonianza, debba emergere soprattutto quel grande ‘sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica la nostra esistenza. San Paolo nella Lettera ai Filippesi ha scritto: ‘Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri’ (4,8). I discepoli di Cristo riconoscono pertanto e accolgono volentieri gli autentici valori della cultura del nostro tempo, come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la democrazia. Non ignorano e non sottovalutano però quella pericolosa fragilità della natura umana che è una minaccia per il cammino dell’uomo in ogni contesto storico; in particolare, non trascurano le tensioni interiori e le contraddizioni della nostra epoca. Perciò l’opera di evangelizzazione non è mai un semplice adattarsi alle culture, ma è sempre anche una purificazione, un taglio coraggioso che diviene maturazione e risanamento, un’apertura che consente di nascere a quella “creatura nuova” (2Cor 5,17; Gal 6,15) che è il frutto dello Spirito Santo».
    E aggiunge, chiamando in causa l’impegno educativo:
    «Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà. Da questa sollecitudine per la persona umana e la sua formazione vengono i nostri ‘no’ a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi ‘no’ sono piuttosto dei ‘sì’ all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio».
    Chi lavora con i giovani… si sente rassicurato: sta dalla parte del sì e così restituisce volto felice alla Chiesa, decentrata sulla vita e sulla speranza di tutti.

    COMPITI ALLA PASTORALE GIOVANILE

    Uno dei rilievi più ripetuti alla scelta del Convegno e al suo sviluppo è stato la marginalità dei giovani. Non ne erano presenti tanti, nell’equilibrio con cui sono stati scelti i partecipanti, soprattutto a partire dal fatto di aver privilegiato «ambiti di vita» e non categorie e ambienti.
    È anche abbastanza documentabile l’impressione di una loro marginalità effettiva soprattutto nei laboratori (quelli in cui era più evidente l’influsso dei partecipanti).
    Il confronto con l’esperienza del precedente Convegno ecclesiale di Palermo sembra sufficiente per giustificare il giudizio.
    Nonostante questa cnstatazione - su cui si può anche discutere - forte è la mia convinzione che il Convegno di Verona può giocare un peso deciso nella pastorale giovanile della Chiesa italiana attuale.
    La ragione è semplice: non contano né le cose dette né il livello dei protagonisti; conta il progetto di esistenza cristiana sviluppato, consolidato e riproposto. Le mie note precedenti spero che lo possano documentare.
    A Verona abbiamo incontrato una forte esperienza di Chiesa: è questo è già un dato fondamentale per una buona pastorale giovanile.
    Abbiamo soprattutto sperimentato una Chiesa che sa farsi carico del grido di angoscia che sale attorno a sé e lo interpreta come una richiesta di senso e di speranza per la vita. E ritrova la responsabilità di proporre fattivamente il Signore Gesù, morto e risorto, come la radice di una nuova esperienza di vita, di speranza, di senso.
    Qui c’è veramente il cuore della pastorale giovanile.
    Siamo sollecitati a passare dalle presenze giocose, dalle mille iniziative aggregative e risolutive dei tanti piccoli problemi quotidiani, alla scoperta di dove stia veramente il nodo caldo dell’esistenza e quale risposta possa essere veramente capace di andare al cuore serio delle questioni.
    Non contesto il resto… e non potrei farlo senza tradire il cammino vissuto in questi anni. Ma condivido decisamente il suggerimento che giunge da tante autorevoli fonti: ritorniamo all’essenziale, con tutto l’entusiasmo di cui siamo capaci e con le risorse che possediamo Da questa scelta potrà scaturire anche tutto quello di cui abbiamo bisogno per restituire una esperienza di felicità e di accoglienza a tutti i giovani.
    Dal Convegno viene offerto inoltre alla pastorale giovanile l’invito a prendere sul serio la vita quotidiana. La scelta di privilegiare nei laboratori l’attenzione agli ambiti (e non agli ambienti) aveva fatto storcere il naso a qualcuno. Sembrava una specie di raffinato scivolamento verso il generico. E invece, alla prova dei fatti, la scelta si è mostrata saggia, interessante, preziosa per restituirci un modello di azione concreta. Sono convinto che attorno ai cinque ambiti (vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza) sia possibile declinare meglio la vita e il suo concreto esercizio. La provocazione va pensata, verificata e soprattutto tradotta secondo i modelli concreti della vita dei giovani. Prendere sul serio la proposta potrebbe diventare un impegno da sperimentare in questi anni.
    Aggiungo un’ultima annotazione per precisare meglio il riflesso sulla pastorale giovanile.
    A Verona, spesso, è ritornata la questione di fondo: ma allora… chi è il cristiano? È interessante constatare che rimbalza come interrogativo quel dato che dovrebbe, al contrario, rappresentare il punto di partenza di tutti i progetti. Ma è una questione vera e urgente. In una stagione di profondi cambi culturali e di forti incertezze esistenziali, il nodo di ogni servizio pastorale sta proprio qui: immaginare una figura di giovane cristiano, fedele al progetto di Dio per lui e gioiosamente inserito nel tempo che sta vivendo, con il coraggio di porsi controcorrente, quando è necessario per far sperimentare a tutti che Dio ci ama e ci vuole pieni di vita.
    Il progetto di pastorale giovanile che Verona ci consegna va dunque al sodo. Rinuncia alle polemiche e alle pretese giovanilistiche per rilanciare le cose che contano: una forte esperienza di Chiesa «decentrata» sulle attese degli uomini e delle donne del nostro tempo, sollecita a far maturare un alto profilo di umanità felice e impegnata, in modo da poter parlare, con trepidante fermezza, di Gesù, l’unico nome che dà speranza, con la parola debole e persuasiva della testimonianza, del «vieni e vedi… poi decidi».


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