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    Dottrina sociale della chiesa e pastorale giovanile


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2008-06-35)


    Una pastorale giovanile, impegnata per la vita e la speranza, si pone due compiti fondamentali.

    Da una parte, essa si preoccupa perché cresca in ogni giovane la ricerca di ragioni per vivere e per sperare.
    La comunità ecclesiale incoraggia e sollecita l’impegno di vivere a braccia alzate, nella trepida ricerca di due braccia robuste, capaci di afferrare la nostra fame di vita e di felicità. Lo sostiene con i giovani che lo stanno spontaneamente sperimentando; lo scatena in quelli che hanno rimosso ogni confronto con la morte, da buoni figli di questa nostra cultura, e non si pongono più alcun problema di senso.
    Dall’altra, la comunità ecclesiale ripensa al Vangelo per restituirgli la forza di salvezza «dentro» e «per» la vita quotidiana.

    LA DIMENSIONE SOCIALE E POLITICA DELLA PASTORALE GIOVANILE

    Proprio per la realizzazione di questi due compiti l’attenzione alla dimensione sociale e politica dell’esistenza umana è momento irrinunciabile per l’evangelizzazione e per la pastorale.

    Specifico o marginale?

    Nessuno oggi mette in discussione la necessità di interessarsi di questioni sociali e politiche anche nell’ambito della pastorale e pastorale giovanile. Sarebbe un controsenso imperdonabile. Ciò che viene posto in discussione è la collocazione di questo riferimento nel quadro di un progetto ecclesiale di pastorale giovanile.
    Spesso oggi si discute di quanto la pastorale giovanile ecclesiale debba interessarsi di sport, di musica giovanile, di scuola… o di attività educative di questo tipo. E le risposte sono diverse. In fondo, non si tratta di questioni pregiudiziali. L’attenzione verso la dimensione sociale e politica fa parte dell’insieme delle urgenze utili, preziose… ma facoltative o, al contrario, è qualcosa di specifico, che riguarda il cuore stesso del progetto di annuncio di Gesù e di impegno per la realizzazione della sua salvezza?
    In ultima analisi, all’ordine del giorno c’è, ancora una volta, una ricerca su quale debba essere la specificità, anche formale, della pastorale giovanile, per distinguere saggiamente tra le cose necessarie, quelle utili e quelle di contorno…
    Un esempio può servire a stare un poco di più sul concreto.
    Oggi da molte parti si insiste sulla necessità di porre con decisione al centro di ogni progetto di pastorale la persona di Gesù il Signore e il suo messaggio di salvezza. Il richiamo è davvero prezioso per aiutarci a non dimenticare i rischi e le delusioni di una stagione della pastorale giovanile tutta giocata all’insegna delle astuzie metodologiche, convinti di avere finalmente trovato a questo livello la soluzione di tutti i problemi.
    Certamente è esagerato – e un poco falso – concludere che tutto il passato è stato realizzato all’insegna dell’autosufficienza presuntuosa, vuoto dei contenuti fondamentali della fede, più preoccupato delle cose che affascinavano i giovani che dell’impegno serio che loro andava prospettato. È certamente più corretto riconoscere che in certe affermazioni, che oggi possiamo considerare solo «polemiche», c’era la necessità di ritrovare qualcosa che si era perduto nelle pieghe di un certo soprannaturalismo o di un po’ di magismo religioso.
    Oggi però sembra che questi anni di faticosa maturazione siano passati invano e basti qualche citazione biblica, la partecipazione ad avvenimenti solenni, un aumento di espressioni di religiosità… per assicurare la capacità di vivere una esperienza cristiana secondo le esigenze del vangelo.
    Purtroppo questi modi di fare, superficiali ed esteriori, sono utilizzati persino per organizzare una classifica… di giovani bravi e meno bravi, di esperienze che danno consolazione e di altre che preoccupano. Altre volte, le espressioni di alcuni giovani, che hanno veramente interiorizzato i modelli irrinunciabili dell’esistenza cristiana e rappresentano una preziosa indicazione di futuro, diventano il punto di riferimento dei giovani di oggi, quasi che potessero indicare la linea di tendenza più comune, che solo un po’ di miopismo ottuso non è disposto a riconoscere. E così si dichiara che «i giovani» cercano preghiera e spiritualità, sono disponibili alle cose più impegnative quando sono presi per il verso giusto… con la tentazione pericolosa di far diventare indicativo per tutto il variegato universo giovanile quello che vale certamente per alcuni.
    La distinzione tra cose centrali e cose marginali, impegni irrinunciabili e impegni facoltativi nasce da una visione della pastorale contro cui è urgente reagire perché separa e contrappone là dove invece il riferimento alla persona di Gesù, al suo messaggio e alla testimonianza dei suoi discepoli chiede di unire, facendo unità e cercando l’integrazione che accoglie la differenza e suggerisce la complementarietà.

    Un modello preciso di azione pastorale

    La conclusione è importante e ricca di conseguenze per ogni progetto di pastorale giovanile. La discussione sul rapporto tra evangelizzazione (la affermazione che Gesù è il Risorto, unico nome in cui avere la vita) e promozione umana (l’insieme degli interventi a carattere educativo, culturale, sociale e politico che caratterizzano il servizio ecclesiale verso i giovani) risulta teorica e astratta. Non si tratta di elaborare formule di compromesso, che indichino il dosaggio degli ingredienti. Si tratta invece di due momenti, diversi nella loro specificità (almeno sul rapporto tra parole e fatti), ma così profondamente collegati da costituire un unico intervento. Le parole interpretano i fatti. I fatti danno autenticità e significatività alle parole. Come ricorda Evangelii nuntiandi, studiando il processo di evangelizzazione (EN 20-23), senza fatti, anche il più bel annuncio sarebbe vuoto e inverificabile; senza parole, il fatto resterebbe equivoco, incapace di trascinare verso la sua manifestazione più piena.
    La reciprocità tra evangelizzazione e promozione umana influenza la qualità dei due processi e, in qualche modo, li consegna alla loro autenticità. Li libera dalla possibilità di una mutua strumentalizzazione ma anche dalla pretesa di autonomia, come se si potesse realizzare l’una esigenza a prescindere, almeno implicitamente, dall’altra. Questo è il bello dell’esperienza cristiana e la novità della sua pretesa di essere al servizio della vita, piena e abbondante, per ogni persona.

    QUALE PASTORALE GIOVANILE?

    Oggi abbiamo uno strumento prezioso per dare un contenuto maturo e approfondito ad una pastorale giovanile attenta alla dimensione sociale dell’esperienza cristiana: il «Compendio della Dottrina sociale della Chiesa», edito Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Esso propone orientamenti autorevoli per comprendere la realtà, progettare interventi, verificare le realizzazioni.
    Per suggerire dal concreto le linee di una pastorale giovanile attenta alla dimensione sociale e politica, riprendo e rilancio alcune indicazioni interessanti che il «Compendio» ci propone.

    Un modo concreto di parlare dei «giovani»

    Oggi è diffusa l’abitudine di parlare spesso e volentieri dei «giovani». Sono visti come… il futuro di tutte le cose che contano, o come l’insieme delle preoccupazioni e delle inquietudini di chi avverte di avere una qualche responsabilità sulla costruzione di questo futuro.
    Spesso però l’operazione è condotta sulla frontiera di un pericoloso pressappochismo o con sfumature interpretative che hanno davvero poco di quel realismo che l’educazione e la pastorale esigono. Il «Compendio» ci aiuta a pensare in modo serio alla pastorale giovanile, perché ci aiuta a collocare il mondo dei giovani in un contesto interpretativo accurato e misurato.
    Basta sfogliare l’indice e rileggere il testo da questa guida per constatarlo.
    Tre riferimenti mi sembrano particolarmente interessanti per comprendere un serio progetto di pastorale giovanile.
    I giovani, di cui parla il «Compendio», sono collocati in un preciso rapporto generazionale, con responsabilità reciproche non dilazionabili. Merita attenzione, per fare almeno un esempio, il richiamo ai giovani espresso nel paragrafo dedicato agli anziani: «Gli anziani costituiscono una importante scuola di vita, capace di trasmettere valori e tradizioni e di favorire la crescita dei più giovani, i quali imparano così a ricercare non soltanto il proprio bene, ma anche quello altrui» (n. 222).
    L’attenzione verso i giovani è collocata come responsabilità attuale verso il futuro. E questo, ancora una volta, in termini seriamente realistici. Si parla infatti della famiglia, degli organismi internazionali… proprio da questa prospettiva. Qualche rapido richiamo può dare l’orizzonte di questa annotazione. A proposito del rapporto tra famiglia, economia e lavoro, si dice: «La famiglia va considerata, a buon diritto, come una protagonista essenziale della vita economica, orientata non dalla logica del mercato, ma da quella della condivisione e della solidarietà tra le generazioni» (n. 248). Dopo aver elencato, in termini concreti, le responsabilità di tutti per il bene comune, il «Compendio» conclude affermando: «Non va dimenticato l’apporto che ogni Nazione è in dovere di dare per una vera cooperazione internazionale in vista del bene dell’intera umanità, anche per le generazioni future» (n. 166).
    Infine, il richiamo ai giovani avviene in corrispettivo alle questioni sociali che attraversano la loro condizione attuale: lavoro e disoccupazione, formazione e educazione, diritti civili. Questo modo di pensare ai giovani sollecita veramente ad un importante cambio di rotta negli operatori e nei responsabili della pastorale giovanile. Ci ricorda che i giovani sono quelli concreti e quotidiani, alle prese con le questioni che investono la loro attuale esistenza e le prospettive verso il futuro. Ricorda il «Compendio» che «i giovani devono apprendere ad agire autonomamente, diventare capaci di assumersi responsabilmente il compito di affrontare con competenze adeguate i rischi legati al contesto economico mobile e spesso imprevedibile nei suoi scenari evolutivi» (n. 290). Aggiunge, con particolare realismo, che compete alla Chiesa additare «la disoccupazione come una vera calamità sociale, soprattutto in relazione alle giovani generazioni» (n. 287).
    Forse, lo stesso realismo e concretezza avrebbe potuto suggerire altre indicazioni in riferimento, per esempio, all’essere giovane in nazioni e contesti del Sud del mondo.

    Una solidarietà «non neutrale»

    Il «Compendio» ricorda frequentemente un dato di fatto a cui oggi, nonostante le apparenze, siamo poco attenti, anche nella pastorale giovanile: viviamo in una situazione di solidarietà reale, a raggio globale.
    Esiste, in altre parole, una solidarietà profonda tra le persone che abitano sullo stesso territorio, che sono cittadini di una stessa società. L’impegno è la logica conseguenza di questa constatazione: la solidarietà va trasformata in responsabilità. Il fatto che tutti coloro che abitano uno stesso spazio sociale, condividono vantaggi e svantaggi comuni, spinge a riconoscere la necessità di assumersi precise responsabilità culturali e sociali, di reciproco servizio. Con una metafora posso dire: chi naviga sulla stessa barca, sa che la può far affondare o può collaborare per farla giungere ad un porto sicuro. Non può tentare di restare né indifferente né neutrale.
    Questo è pacifico, almeno sul piano teorico. Quello che non mi sembra pacifico è la decisione sul tipo di collaborazione richiesta… per far arrivare in porto la barca.
    Riconosco che la solidarietà invoca una precisa responsabilità sulla gestione del potere e sulla costruzione di strutture adeguate. Per questo penso ad un livello di responsabilità personale nell’ordine dell’impegno sull’esercizio del potere e sulla costruzione di istituzioni politiche.
    Su questo aspetto sono convinto della necessità di riprendere una tradizione e una prassi che sembra caduta in disuso… forse a causa del cattivo esempio che hanno offerto ai giovani coloro che ne avevano la responsabilità diretta, anche per ragioni istituzionali. Una pastorale giovanile, troppo sbilanciata sul versante spirituale, può accontentare chi cerca gesti ed espressioni dal sapore solenne, ma, alla fine, tradisce la sua fondamentale funzione educativa e propone un immagine di esperienza cristiana troppo autoreferenziale.

    Gesù è l’unico nome in cui avere vita

    Un terzo tema percorrere tutto il «Compendio». Esso rappresenta un compito urgente per la pastorale giovanile, soprattutto quella impegnata in gesti concreti e quotidiani di promozione della vita e della speranza. Una citazione per tutte lo conferma, quella con cui si apre il «Compendio» stesso: «La Chiesa continua ad interpellare tutti i popoli e tutte le Nazioni, perché solo nel nome di Cristo è data all’uomo la salvezza» (n. 1).
    Desideriamo assicurare condizioni di condivisione piena delle risorse, per creare le condizioni concrete per l’esercizio della dignità inalienabile di ogni persona. Purtroppo le cose non sono disponibili a tutti: una seria opera di condivisione è indispensabile per un progetto di promozione dei diritti umani per tutti. Chi resta a mani vuote si ritrova spesso deprivato di ogni esperienza di dignità. Annunciare che Gesù è il Signore, senza nessuno sforzo di condivisione reale di risorse è una tentazione vecchia come il mondo, che ha giustificato la reazione dura (e legittima) nei confronti dell’esperienza religiosa.
    Il servizio di condivisione delle risorse non è però sufficiente per restituire dignità a tutti. Anche coloro che di risorse se ne sono accaparrate in misura sufficiente, si accorgono presto che le cose non bastano davvero a risolvere i problemi fondamentali dell’esistenza.
    La restituzione della dignità perduta o conculcata è compiuta solo quando riusciamo a possedere pienamente il senso della nostra esistenza, di tutte le esperienze che ne costituiscono la trama e, persino, di quella situazione limite che di fatto mette in crisi ogni pretesa di autosufficienza: la morte. Confrontati con la provocazione della morte, ritroviamo il senso più alto della nostra esistenza, proprio riconoscendone il limite più invalicabile.
    La morte ci restituisce alla qualità e all’autenticità della nostra vita. Essa non è un incidente di percorso, di cui possiamo evitare il confronto, quasi fosse statisticamente irrilevante rispetto al problema centrale.
    In qualche modo, dovremmo essergliene grati: essa è un supplemento di libertà in un mondo di costrizioni pericolose e alienanti, anche se opera con mano pesante e senza permetterci di giocare a nascondino.
    Sul confine della finitudine, l’uomo si ritrova «diverso» dalle cose e dagli altri esseri viventi. Entra nel mondo affascinante e misterioso di una vita irripetibile.
    Chi sa vivere l’esperienza della finitudine, come verità di se stesso, sofferta e scoperta, alza al Signore il grido della sua vita, ritrova la gioia di vivere e la libertà di sperare. Convive, nella pace e nella gioia, con la propria finitudine, perché si sente nell’abbraccio accogliente di Dio. L’esperienza della finitudine apre alla capacità di affidamento.
    Ci fidiamo tanto della vita, da anticipare, in modo maturo e programmato, quell’affidamento al suo mistero a cui la morte ci costringe.
    Chi vuole la vita, piena e abbondante e accetta di lasciarsi inquietare dalla provocazione del dolore e della morte, ha bisogno di incontrare una proposta forte e coraggiosa, capace di fondare la speranza. Tutto questo viene offerto nell’annuncio di Gesù, unico nome in cui avere la vita.

    CONTEMPLARE PER SCEGLIERE LE DIREZIONI GIUSTE DI IMPEGNO

    Spesso i discepoli di Gesù affidano alla preghiera la soluzione dei problemi più drammatici. Molti non vedono di buon occhio questo modo di fare, consapevoli che l’impegno sociale e politico richiede una prassi coraggiosa al servizio della vita.
    C’è posto per la preghiera in quell’azione solidale, sociale e politica, che nasce dalla coscienza della responsabilità e quale? O questo è un affare strettamente personale, che ciascuno gestisce nel segreto della propria individualità?
    Nell’ambito della pastorale giovanile la questione è di grande rilevanza.
    Una pastorale giovanile attenta alla dimensione sociale e politica ha bisogno di ripensare e di riformulare il significato della preghiera, della spiritualità, dell’interiorità.
    Una affermazione del «Compendio» dà da pensare proprio a questo proposito: «Il documento si propone come uno strumento per il discernimento morale e pastorale dei complessi eventi che caratterizzano i nostri tempi, come una guida per ispirare, a livello individuale e collettivo, comportamenti e scelte che permettano di guardare al futuro con fiducia e speranza» (n. 10).
    La funzione di discernimento offerta dal «Compendio» non è certamente solo di tipo intellettuale, quasi si limitasse a far capire dove sta la ragione e il torto, e a suggerire i percorsi ottimali quando ci troviamo in crisi di prospettiva. Essa invece soprattutto aiuta a contemplare meglio la realtà dal mistero che essa si porta dentro.
    Per questo mi piace citare questo servizio nel paragrafo dedicato alla preghiera e alla contemplazione, come dimensioni irrinunciabili di ogni buona pastorale giovanile.
    Il «Compendio» non va oltre. Oltre però dobbiamo andarci noi nel vissuto quotidiano della pastorale giovanile. In che direzione?
    Avanzo una ipotesi.
    Nella preghiera noi non consegniamo a Dio quello che invece dipende dalla nostra responsabilità. Diciamo invece tutta la nostra voglia di intervenire, cambiare, rimettere le cose apposto. Riconosciamo però che non siamo noi i padroni di questa trasformazione dalla parte della vita. Siamo «soltanto servi»: il protagonista indiscusso è il Dio di Gesù. Solo lui può cambiare il nostro cuore di pietra in un cuore di carne (Ez 11, 19) e può far nascere figli di Abramo anche dalle pietre (Lc 3, 8). Per questo lo preghiamo con fiducia. Gli affidiamo quello per cui ci impegniamo e gli affidiamo l’esito della nostra fatica.
    Possiamo di conseguenza pregare per i poveri, per la pace nel mondo, per la vita e la speranza. Possiamo pregare con verità solo se abbiamo il desiderio serio ed efficace di fare tutto quello di cui siamo capaci: altrimenti la nostra preghiera diventa soltanto uno scarico di responsabilità. Preghiamo però per consegnare a Dio la nostra pochezza, certi della sua presenza potente.
    La preghiera del cristiano è anche contemplazione del mistero di Dio che ci avvolge, come l’aria che respiriamo. Essa è quindi cammino verso la verità. Pregando, il cristiano si contempla, immerso in un amore che tutto lo avvolge, per possedersi nella verità. Non può dire quello che ha scoperto di sé con le parole controllate con cui si esprime nel ritmo della esistenza quotidiana. Ha bisogno di parole intessute di silenzio, di espressioni pronunciate nel vortice dell’amore, della fantasia scatenata in cui si sono espressi alcuni santi.
    Pregando, il credente parla a Dio e parla di sé e di Dio. Vive di fede e dice la sua fede. Riconosce, in altre parole, che il volto più vero della realtà proviene ad essa dal mistero che si porta dentro.
    Questo va gridato forte e sperimentato nel tessuto della esperienza quotidiana, per non spalancare quella pericolosa divaricazione di prospettive che ha spesso segnato l’esperienza religiosa e l’attività politica.
    Il «Compendio» lo fa intravedere. Chi è impegnato nella pastorale giovanile, per il contatto quotidiano con persone e situazioni vive, lo può rilanciare come uno dei compiti più urgenti. La consapevolezza si traduce anche nella costruzione di strumenti formativi coerenti e conseguenti.

    In una grande compagnia

    Concludo ricordando una esigenza che dovrebbe attraversare e caratterizzare la qualità sociale e politica della pastorale giovanile: la grande compagnia con tutti, perché la responsabilità nasce dalla coscienza di una solidarietà di fatto attorno a problemi comuni. Lo ricordavo all’inizio e lo rilancio alla conclusione.
    Ci sono dei cristiani che hanno bisogno di riconoscersi, distinguendosi e separandosi dagli altri. Cercano una loro identità attraverso una chiara e definita preoccupazione di «differenza»: per stile di vita, per scelte di fondo, per orientamenti concreti. Anche nell’impegno per la vita cercano a tutti i costi di fare cose diverse dagli altri. Diventano persino gelosi quando avvertono che l’impegno sembra oltrepassare i confini del loro mondo.
    Chi è impegnato nella pastorale giovanile, dalla prospettiva in cui l’ho compresa nella premessa introduttiva, preferisce parlare di una grande compagnia con tutti, per tradurre veramente la solidarietà di fatto in responsabilità.
    Questo non giustifica certamente l’assurdo di una convergenza indifferenziata, assumendo magari il «buon senso comune» a regola dell’agire politico.
    La compagnia del credente con tutti gli uomini nella fatica di costruire vita e speranza, resta sempre tutta originale. La sua esperienza di fede scaturisce dalla testimonianza della croce e da una speranza che va oltre ogni umana sapienza. E questo lo costringe presto ad assumere atteggiamenti, a dire parole e a fare gesti che sono solo suoi, che non riesce più a capire e a condividere chi viaggia solo sull’onda delle logiche correnti.
    Una figura concreta potrebbe rappresentare bene questa preoccupazione fino a tradurla in una chiave di rilettura di tutto il «Compendio»: il cristiano è uno che «siede a mensa con tutti – da solitario». Per scoprire il significato della espressione, invito a pensare ad alcune persone speciali, che, di tanto in tanto, abbiamo la fortuna di incontrare. Sanno ridere e scherzare con tutti. Sono gente di compagnia gradita e ricercata. Ogni tanto però si estraniano pur restando in mezzo alla folla: sembra che il loro pensiero stia correndo alla rincorsa di alcune questioni impegnative, che esigono quel livello di concentrazione che il brusio della folla non riesce ad assicurare. Non sono dei solitari, desiderosi di silenzio quasi come condizione normale di esistenza. Sono dei solitari nella compagnia convinta e felice con tutti.
    Il cristiano è fatto così. Verso questa meta è orientata tutta la pastorale giovanile.
    La sua fede e la condizione della speranza lo sollecitano ad una immersione intensa nella vita di tutti. Non pretende un tavolo riservato, quando si siede a mensa, perché la compagnia con gli altri commensali è gradita e ricercata. Possiede però sensibilità, intuizioni, passioni; riconosce esigenze e avverte urgenze che lo costringono ad una parola originale, scomoda, inquietante.
    Quando tutti scivolano verso la disperazione, sa offrire una parola di speranza che permette di risalire la corrente. Quando serpeggia la convinzione di avere finalmente risolto tutti i problemi o, almeno, di possedere la chiave del futuro, riporta con i piedi per terra e ridimensiona i sogni troppo sicuri.
    Sa parlare di morte e di vita. Propone il confronto con la morte per amare veramente la vita. Rilancia la vittoria della vita per restituire a tutti la gioia di essere signori persino della morte.


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