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    Bibbia

    e domande dell'uomo
    contemporaneo

    Bruno Maggioni

    Questi pensieri - in verità un po' rapsodici - sono soprattutto il frutto di riflessioni personali e di letture dirette dei testi più che di studi veri e propri.
    Già dagli anni giovanili, la mia principale passione è stata di mostrare che la parola della Scrittura è parola viva e coinvolgente, parola per tutti, nuova e sorprendente anche - e più che mai! - per l'uomo d'oggi, sorprendente anche per il non credente. Fino a qualche anno fa mi sembrava che il pericolo venisse da certe letture eccessivamente «scientifiche», disperse in molte analisi che nascondevano il centro. Da qualche tempo ho paura anche del rischio contrario, quello cioè di frettolosi, impazienti e superficiali letture spirituali (così dette, ma abusivamente), che non sopportano la fatica di cogliere la «lettera» del testo. La pratica della lectio divina - da favorire in ogni modo, senza alcun dubbio - deve normalmente accompagnarsi a qualche forma di catechesi biblica seria, semplice, alla portata di chiunque. Fede e ragione devono legarsi anche nell'ascolto della Parola!
    La stessa pratica della lectio divina dovrebbe far nascere il desiderio di un approccio culturale. Il fatto che questo non sempre avvenga suona come un campanello d'allarme. Non è in pericolo l'esegesi, ma la stessa lectio divina.
    Mi capita sempre più frequentemente di incontrare persone che si dicono stanche, quasi annoiate dalla lectio divina che si fa nei loro ambienti. E questo non per il fatto che tale lectio si è trasformata in un discorso culturale, ma perché non dice più nulla: sempre gli stessi pensieri, gli stessi stereotipi moralistici, privi di un qualsiasi mordente, con il dubbio che non si tratti più di vero ascolto di una Parola dello Spirito, ma di una comunicazione dei propri pensieri. Nessun significato è più spirituale e coinvolgente, persino nuovo e sorprendente, del significato vero del testo. Saltare la fatica della «lettera» è una perdita, non un guadagno e forse nasconde anche una sottile venatura di fideismo. Certo, è lo Spirito che parla, ma parla attraverso una Parola già detta. Certo, la Bibbia va compresa nella fede della chiesa, ma la fede non proietta sul testo un significato che non ha. Il miracolo dello Spirito e della fede è quello di rendere viva, contemporanea, una Parola già risuonata nel passato.
    Da più parti si accentua l'importanza di un ritorno ai Padri della chiesa. Giustissimo. Tuttavia non si cada nell'illusione, come qualcuno sembra fare, di voler ripetere oggi la loro lettura. La Dei Verbum (n. 12) dice che bisogna «tenerne conto», non ripetere.
    Nella vita della chiesa la Scrittura non ha mai cessato di essere sempre nuovamente interpretata.

    Un confronto con l'esistenza

    Se l'ascolto delle Scritture perde il suo sapore, come a volte mi sembra di vedere, con che cosa potremo salare? Sono convinto che certe letture insipide della Scrittura trovino la loro spiegazione in un approccio globale scorretto al testo sacro.
    La Bibbia è un libro che racconta un'affascinante esperienza umana, capace di coinvolgere ancora l'uomo d'oggi. È. come uno specchio in cui l'uomo può leggere e confrontare la sua stessa esistenza. È questo un primo punto che mi sembra molto interessante ed è questo l'aspetto che forse più di ogni altro fa della Bibbia un libro che appartiene all'intera umanità.
    Ma proprio perché la Scrittura è profondamente radicata nella vita, molte sue pagine sono problematiche e aperte. Problematiche perché pongono al lettore altre domande anziché dare subito risposte. E aperte perché si possono osservare - come è appunto la vita - da differenti angolature, aperte in più direzioni e disponibili per più significati. Questo non vuol dire, ovviamente, che in una pagina biblica si possa trovare una cosa e il suo contrario. In realtà c'è sempre una profonda coerenza, un centro, come in ogni scritto intelligente. Uno scritto può essere aperto in più direzioni, ma non in qualsiasi direzione.
    Colpisce il fatto che all'interno della Bibbia la domanda dell'uomo non scompare, come se venisse annullata dalla risposta della rivelazione. Bensì riemerge doppiamente. Come ogni altro uomo, anche l'uomo biblico sente l'angoscia della precarietà e dell'incompiutezza: desidera vivere e va incontro alla morte, sogna una pienezza di felicità che non trova da nessuna parte. Ma, a differenza degli altri, l'uomo biblico può giocare la carta della sua fede: egli crede in un Dio che è fedele, un Dio che gli garantisce una promessa di vita e di pienezza. E questa è una risposta senza dubbio consolante, carica di speranza. Tuttavia la domanda non si spegne. L'esperienza del dolore innocente, dell'ingiustizia trionfante, della delusione pare continuamente contraddire la bontà e la fedeltà di Dio, e questo spinge l'uomo biblico - pur credente - a chiedersi se davvero Dio sia fedele, se davvero la sua promessa sia solida. L'uomo biblico si imbatte continuamente nel mistero di Dio. E così la sua domanda si fa dubbio. Non soltanto: «Chi è l'uomo?», ma anche: «Chi è Dio?».
    Per alcuni il fatto che nella Bibbia la domanda si riproponga costituisce una delusione. Personalmente ne provo entusiasmo. È un segno che la Bibbia è un libro sincero, non un libro edificante nel quale i conti tornano sempre. Far tornare i conti è il desiderio dell'uomo, non il vero modo di manifestarsi di Dio.
    Mi si permetta di insistere. La Bibbia è piena di domande: l'uomo interroga Dio e Dio interroga l'uomo. Leggere la Bibbia attraverso le sue domande è senza dubbio un percorso tra i più suggestivi. Non si rimane sulla soglia del suo discorso, ma si va dritti al suo centro. Le domande bibliche vanno collocate nel più ampio contesto umano e culturale che le ha accompagnate. Solo così ci si accorge che sono domande caratterizzate da una sorprendente originalità, e al tempo stesso domande aperte, universali, specchio dei problemi di ogni uomo. Singolarità e universalità costituiscono una tensione che non si può disattendere, se veramente si vuole cogliere l'esperienza biblica nel suo spessore. Nonostante la singolarità della sua fede - o proprio per questo - l'uomo della Bibbia condivide sempre fino in fondo l'inquietudine di ogni altro uomo: la solitudine, l'angoscia, la paura, la tentazione di non sperare, più il senso dell'abbandono, la domanda del perché. Questa profonda solidarietà umana è la ragione che rende possibile a ogni uomo, credente o no, di trovare se stesso nelle grandi pagine bibliche, mai però senza un «di più» che non cessa di sorprendere e inquietare. Senza questo di più l'esperienza biblica non avrebbe nulla da dire. E senza la sua profonda solidarietà con l'uomo essa diventerebbe estranea. Tener conto di questa tensione è una regola interpretativa importante.
    Quanto sto dicendo è essenziale se si vuole che la Scrittura conservi intatto il suo sapore e diventi strumento di vera «nuova evangelizzazione». Qualche esempio. Già negli antichi racconti della vita di Abramo troviamo una domanda che percorre da un capo all'altro la Bibbia: la domanda sulla storia. Dio decide di informare Abramo su quanto sta per fare contro Sodoma e Gomorra (Gen 18,17-18). Un'informazione che suscita in Abramo un interrogativo che subito rivolge a Dio: «Davvero sterminerai il giusto con l'empio?» (Gen 18,23). È una domanda seria. Si chiede infatti al Signore con quale criterio egli intenda guidare la storia: per punire la malvagità dei cattivi egli è pronto a coinvolgere nel castigo anche i giusti, o invece l'onestà dei giusti, anche se pochi, è per lui più importante della malvagità di molti? Domanda inquietante, a cui nessuno, credente o non credente, può sfuggire: troppe volte gli eventi della storia sembrano non fare alcuna distinzione tra giusti e peccatori, colpevoli e innocenti!
    Anche nei racconti che narrano la liberazione d'Israele dall'Egitto e il lungo cammino nel deserto le domande sono numerose: interrogativi di Mosè, del popolo e di Dio. Ma li possiamo ricondurre a due tipi fondamentali: la domanda su Dio (qual è il tuo nome?) e la domanda sul senso della sua presenza e della sua azione (perché ci hai fatto uscire dall'Egitto?). Le due direzioni mostrano che la domanda non è suscitata soltanto dalla schiavitù, ma anche dalla libertà. Né soltanto dalla promessa, ma anche dal compimento. E difatti l'uomo si interroga non soltanto quando cerca Dio, ma anche quando lo ha trovato e si accorge che è diverso da come immaginava.
    A Mosè che gli chiedeva il nome, Dio risponde con queste parole: «Io sono colui che sono» (Es 3, 13-14). Con questo nome misterioso Dio dichiara di essere «Colui che è presente», presente in mezzo al suo popolo, presente per salvarlo: una presenza concreta e attiva. Ma nell'enigmatica espressione «Io sono colui che sono» si avverte anche una reticenza, quasi Dio non volesse rivelare all'uomo il proprio nome. E difatti Dio è presente, ma conserva intatta la sua libertà. Dio è con il popolo, ma non nelle mani del popolo. È Dio che conduce il popolo, non il popolo che conduce Dio. Questa tensione tra Dio e l'uomo è lo spazio in cui continua a riproporsi la domanda. Non è facile credere in un Dio presente nella storia, perché la sua presenza è sempre esposta alla sfida e alla minaccia degli avvenimenti. La storia di Israele, come la storia di ogni altro popolo, è formata da avvenimenti che parlano della presenza del Signore e da altri che sembrano negarla. E così nel libro dell'Esodo, come in ogni altro libro della Bibbia, accanto alle professioni di fede ci sono anche le espressioni del dubbio che è sempre - e non è paradosso - il compagno inseparabile della fede: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7).

    Un capolavoro letterario

    La Bibbia è un «monumento letterario», ricco, vario e suggestivo. Non è un testo di filosofia o un trattato religioso, ma un'esperienza (per lo più corale) che si esprime in pensieri, poesia, emozioni. 11 «vero» e il «bello» si intrecciano. Anche da questo punto di vista la Bibbia è un libro universale, non semplicemente il patrimonio del credente. E non richiede condizioni speciali di lettura, se non una sensibilità letteraria, il gusto della poesia, la capacità di meravigliarsi. Come per ogni altra testimonianza letteraria.
    Importante, semmai, è attirare l'attenzione sul fatto che la tradizionale lettura biblica è per lo più insensibile a questi aspetti, unicamente interessata (o, per lo meno, impazientemente interessata) al contenuto dottrinale, alle idee, ai criteri operativi. E questo è grave. Non solo perché si priva la lettura biblica di un suo spessore «universale», ma anche perché si impoverisce la Parola nei confronti dello stesso credente, la si sminuisce nella sua capacità di provocazione e di coinvolgimento. Privata di questa dimensione, la Bibbia parla alla nostra intelligenza, forse, ma non al cuore, non all'uomo intero. Qualche esempio? Penso al libro dell'Apocalisse: una semplice (e tradizionale) intuizione di fede (la storia è solidamente nelle mani di Dio e la chiave per interpretarla è la morte-risurrezione di Cristo) espressa mediante un immenso artificio letterario. Che cosa diverrebbe mai senza questo artificio bellissimo? È come il caso di una sinfonia: pochi motivi di base, semplici, che continuamente vengono ripresi, si intrecciano, si ripropongono, si compongono e si scompongono in continue variazioni.
    Come si potrebbe leggere l'Apocalisse, restarne affascinati, emozionati, coinvolti se non si gusta la bellezza della sua costruzione, la suggestività delle immagini, la forza dei simboli, il martellare delle sue ripetizioni? È come chi guardando una cattedrale la giudicasse unicamente dal punto di vista della funzionalità. Chi non ha questa sensibilità letteraria rischia (e difatti è così) di cercare in ogni pagina dell'Apocalisse, in ogni visione, in ogni passaggio un'idea nuova, un fatto nuovo, una progressività di contenuto che di fatto non esiste.
    La stessa cosa può dirsi - per fare un altro esempio - del libro di Giobbe: non è un dibattito filosofico, teoretico e astratto (se fosse così, si ridurrebbe
    a poche battute, importanti, ma poche), bensì il racconto di un'esperienza dal vivo: un dibattito che cresce piano piano, ritorna su se stesso, si frantuma, si smarrisce, si ritrova. Come è nella vita!

    La ricerca di Dio

    La Bibbia si rivolge soprattutto a un uomo che ha una domanda religiosa. E anche chi la interroga sull'esistenza si vede rinviato a questa domanda. È lo specifico biblico, che però non deve mai essere isolato dalla domanda sull'esistenza, quasi che la ricerca di Dio sia altra cosa rispetto alla domanda sul senso del vivere. Occorre però una precisazione. La Bibbia racconta un'esperienza religiosa, che per un verso accoglie l'istanza religiosa dell'uomo, ma che per un altro la purifica, la orienta e la supera. In concreto, l'uomo che accosta la Bibbia in cerca di una risposta alla sua domanda su Dio, non è mai un uomo che ha solo una domanda: ha già dentro di sé - per tradizione, educazione, riflessione propria e altro - qualche risposta, qualche schema, qualche ipotesi. Il discorso biblico vaglia tutto questo, spesso lo contesta, persino lo delude. Lo accoglie nel profondo, ma non necessariamente in superficie. E così comprendiamo quale sia la regola metodologica fondamentale per questa lettura: andare alla Bibbia con la domanda religiosa, ma al tempo stesso disposti a un coni tonto. In altre parole, il lettore deve essere consapevole dell'istanza religiosa che fa parte della struttura più profonda del suo essere, ne accetta le domande e con queste domande si avvicina alla Bibbia. Al tempo stesso, però, è necessario che sia disposto a un confronto e a una discussione: la Bibbia nel contempo soddisfa e contesta la domanda religiosa posta dall'uomo. E così discute l'educazione religiosa ricevuta, il sentito dire, l'ovvio, ma proprio per questo ringiovanisce la domanda religiosa: ne spalanca orizzonti nuovi.

    Un libro di preghiera

    Si raccomanda oggi che la Bibbia diventi un libro di preghiera. Giustissimo. Tuttavia anche su questo punto c'è il rischio di fraintendere e di impoverire. Anche su questo punto la lettura della Scrittura può diventare insipida. Possono essere utili alcune precisazioni.
    Ovviamente si può pregare con la Bibbia in tanti modi. Il primo, il più profondo, consiste nel comprendere che la preghiera, più che un parlare a Dio, è un ascolto di Dio. Se così, allora si fa già vera preghiera ogni volta che si apre la Bibbia per cercarvi sinceramente Dio e la sua volontà. Ma pregare è anche parlare a Dio, e la Bibbia è ricca di uomini che si pongono «davanti al loro Dio» e con lui parlano, riflettono, discutono. Parlare a Dio con le parole della Bibbia, per esempio dei Salmi, offre un grande vantaggio: si parla a Dio con parole che lui stesso ha suggerito. E questo arricchisce. La preghiera rischia sempre di trasformarsi in parole con le quali l'uomo si rispecchia in se stesso, chiuso nella propria esperienza. Ma se si prega con la Bibbia, questo non succede. Non mi confronto, infatti, con me stesso, con le mie parole, ma con un'esperienza più grande della mia e con parole che mi rispecchiano e al tempo stesso mi superano. Lo sappiamo: la Bibbia è la rivelazione di Dio e insieme uno specchio molto articolato e intelligente dell'esperienza umana. È facile - naturalmente quando si tratta di domande essenziali, profonde, sull'esistenza, su Dio o su di me, sul dolore o sulla gioia della vita - trovare nella Bibbia la mia stessa domanda, ma sempre formulata - ed è una prima novità - davanti a Dio. L'uomo biblico infatti discute con Dio, non fa riflessioni tra sé e sé, o fra sé e gli altri, ma davanti a Dio e con Dio. In tal modo le riflessioni sulla vita si fanno preghiera, sono preghiera. Non è un modo intelligente di riflettere? E anche di pregare!
    Senza dimenticare poi - ed è un secondo tratto interessante - che non raramente scopro nella Bibbia le mie domande poste con una forza e una lucidità che da me stesso non avrei saputo raggiungere. Riflesse nella parola di Dio, le mie domande tornano .1 me approfondite, essenziali, soprattutto incanalate nella giusta direzione. Non sempre trovo nella Bibbia l'immediata risposta alle mie domande. Sempre i rovo, però, la giusta direzione in cui porle. Penso ,i1 libro di Giobbe: il mistero della sofferenza - che e ostituisce il cuore del libro e della mia domanda - resta intatto. Non perché Dio non vuole svelarmi il quo mistero, ma perché io non sono in grado di capirlo. La risposta alla domanda sta infatti nella grandezza dell'amore di Dio, che io però riesco a capire soltanto nella misura del mio. Ma se il mistero della 'sofferenza resta intatto, mi viene però suggerito come pormi davanti a esso. Il mistero rimane (la Bibbia non cede mai a risposte illusorie, a palliativi), ma il libro di Giobbe mi dice come viverlo: fidandomi di Dio!
    Leggiamo, per fare un esempio, nel Salmo 25 la preghiera di un povero israelita che si rivolge al suo Dio in un momento di grande angoscia, come rivelano alcune espressioni che si lascia sfuggire: perdona il mio peccato anche se è grande; sono solo e infelice; allevia le angosce del mio cuore; liberami dagli affanni; i miei nemici mi detestano con odio violento; libera Israele da tutte le sue angosce.
    L'angoscia è spesso la compagna dell'uomo: l'angoscia della colpa, della solitudine, della cattiveria che sentiamo attorno a noi, l'angoscia che è dentro di noi, a volte senza apparente motivo. L'antico israelita che confessa la sua angoscia è lo specchio dell'uomo di sempre, di ogni uomo. Ma nel suo modo di vivere l'angoscia c'è qualcosa che lo distingue. Anzitutto il fatto che prega. Il salmista non tiene l'angoscia dentro di sé, ma la grida al suo Dio. Con Dio si può essere sinceri, senza vergogna, senza pudori. Di fronte agli altri dobbiamo, a volte, nascondere la nostra angoscia. Di fronte a Dio no. Lui comprende anche l'angoscia che altri non comprendono, e non ci deride se altri possono farlo. Sì, perché Dio sa che l'angoscia - qualsiasi motivo abbia - in realtà è sempre un segnale di una profonda insoddisfazione e di una profonda nostalgia di lui. L'angoscia è il segnale che siamo fatti per Dio, non per le cose né per gli altri uomini. È la nostalgia di Dio che ci inquieta. Solo i distratti non l'avvertono.
    E c'è un secondo tratto che caratterizza la reazione del salmista di fronte alla sua angoscia. Egli sa che la sua angoscia non è solo sua. E allora non si chiude in se stesso, ma pensa all'intero popolo, e la sua preghiera si fa corale: «O Dio, libera Israele da tutte le sue angosce» (Sal 25,22). L'angoscia può chiudere in se stessi, e allora ad angoscia si aggiunge angoscia. Ma può aprire, rendere sensibili ai problemi di tutti, e allora l'angoscia si stempera nell'amore. L'unico modo per attenuare la nostra angoscia - e dare un senso al vuoto della vita - è spendere i nostri giorni per qualcosa che è più grande di noi.
    Ma c'è ancora una nota nel salmo che non si può ignorare: anche se nell'angoscia, il salmista non perde l'occasione per chiedere a Dio anche altro. Pregando egli dimentica per un istante il suo dolore, e dice: «Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi» (Sal 25,4-5). Sembra la domanda di un uomo tranquillo, e invece sappiamo che si tratta di un uomo che soffre. Anche nell'angoscia l'uomo biblico chiede a Dio il gusto della verità e il gusto di conoscerlo.

    Il capovolgimento per la nuova evangelizzazione

    A conclusione, alcune riflessioni che toccano direttamente il tema della «nuova evangelizzazione».
    Le ritengo utili sia per una comprensione della Bibbia, sia per un rinnovamento della pastorale. Ribadendo con chiarezza che la nuova evangelizzazione non può ridursi a una rievangelizzazione fatta con maggiore passione, né a una nuova inculturazione del vangelo nel mondo di oggi, mi permetto alcuni suggerimenti molto concreti.
    Il primo è che occorre un coraggioso ritorno al «centro» del vangelo. L'annuncio deve ritornare a essere un vero annuncio. Anche i primi cristiani sapevano che il vangelo ha contenuti e conseguenze molteplici, e sapevano che gli uomini hanno molti e svariati bisogni, ma erano anche convinti che la novità, lo stupore e la forza di convincimento del vangelo stanno nella sua radice, non nei singoli particolari. Nessuna emergenza li distraeva dalla continua riproposizione del centro.
    Il secondo suggerimento è che non si può parlare del Dio di Gesù Cristo in modo ovvio. Certo è importante aiutare gli uomini a sperimentare che Gesù Cristo compie le loro attese, ma è altrettanto importante farli accorgere che il suo compimento è sorprendente. Gesù compie le attese e insieme le supera. Nella sua rivelazione c'è un di più, che apre all'uomo orizzonti insospettati e che, una volta conosciuti, fanno impallidire le attese di prima, tanto profondamente le compiono. Così la samaritana, venuta al pozzo per attingere acqua, corre al villaggio dimenticando la brocca.
    Il terzo suggerimento è di evidenziare, sottolineare, mai nascondere, il «capovolgimento» che l'evento di Gesù Cristo porta con sé. Un capovolgimento che è motivo di fede per alcuni e di scandalo per altri. Tutte le religioni dicono che l'uomo deve essere pronto a dare la vita per Dio (e ogni uomo, in fondo, si aspetta di sentirselo dire), ma il vangelo racconta che un Figlio di Dio ha dato la vita per l'uomo. Il movimento è dunque capovolto. Non sono i discepoli che hanno lavato i piedi al Signore, questo sarebbe ovvio; ma è il Signore che ha lavato i piedi ai discepoli, questo è del tutto sorprendente. Il capovolgimento impegna il credente a capovolgere a sua volta il suo modo di pensare Dio e la sua gloria. Morire per Dio è certamente duro, impegnativo, ammirevole, ma tuttavia comprensibile e ovvio. Che il Figlio di Dio sia stato crocifisso per noi - e sia morto tra due malfattori! - è qualcosa di assolutamente inatteso.
    Il Figlio di Dio è venuto nel mondo per salvare il mondo. Ma non ha salvato il mondo ponendosi a lato di esso, evitandone le contraddizioni, bensì condividendole. Nel mondo esiste la morte: il Figlio di Dio l'ha vinta condividendo il morire dell'uomo con le sue angosce e le sue domande. Nel mondo c'è il peccato: il Figlio di Dio l'ha preso sulle sue spalle, non soltanto morendo per i peccatori, ma come un peccatore, tra due malfattori. Nel mondo la verità
    sopraffatta dalla menzogna: il Figlio di Dio ne ha condiviso il dramma e lo scandalo. Tutto questo il Figlio di Dio lo ha vissuto non per mostrare quale prezzo occorresse alla giustizia di Dio per riscattare il peccato dell'uomo, ma per mostrare fino a che punto Dio ama l'uomo. Il Crocifisso dice la misura dell'amore di Dio, non anzitutto la gravità del peccato.
    La storia di Gesù Cristo - e, si può dire, la Bibbia nella sua sostanza - non permette che l'uomo ostruisca astrattamente, fuori dalla storia, una figura geometrica di Dio, che poi - appena la immergi nella storia e a contatto con le sue contraddizioni - subito si frantuma. È la figura di Dio degli amici di Giobbe. È la figura - purtroppo a mio avviso molto diffusa anche fra i cristiani - di un Dio incapace di sostenere l'urto delle contraddizioni dell'esistenza. La figura di Dio, invece, rivelata da Gesù è dentro la storia, non fuori di essa. Le stesse contraddizioni della storia - delle quali la croce è la gigantografia - rivelano il volto di Dio, non lo smentiscono.

    (Nuova evangelizzazione, Messaggero 2012, pp.31-46)


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