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    Su Maria

    Alessandro Maggiolini

    botticelli madonna-libro


    La presenza di Maria

    È in crisi la devozione alla Madonna? Non so, e non mi interessa molto la cosa. So che senza la Madonna il Cristianesimo non mi appare più accettabile.
    Forse in passato c'era più d'un motivo per criticare un culto mariano un po' smodato e tendente alla supersti­zione. La Madonna non è una sorta di «dea» staccata dall'unico vero Dio e da colui che Dio ha mandato: Gesù Cristo. Non è neppure un mito o una figura evanescente: una specie di lirica astratta o una fuga di note eteree... Era una ragazza come tutte le altre: macinava il grano con la pietra, cucinava, rifaceva i letti, teneva le pulizie di casa, andava alla fontana a prender l'acqua, al Sabato si ritrovava con le amiche nella sinagoga, e per strada non faceva voltare i ragazzi perché aveva l'aureola: non ce l'aveva. E se si volevano informazioni su di lei al paese, non ne sarebbe venuto nulla di particolare: di professio­ne era casalinga, credo fosse bella, aveva gli occhi color - chissà che colore avevano i suoi occhi -; i capelli color - allora forse non si usavano le ossigenature e un biondo era un biondo, un nero era un nero eccetera.
    Così all'esterno. Ma dentro... Dentro viveva la gra­zia di un mistero abissale e sconfinato.
    Recuperiamo pure il senso della concretezza umana di Maria. Ma non dimentichiamo che Maria è unica al mondo perché appartiene a Dio in modo totale, per­ché Dio la fa sua fin dall'inizio e abita in lei al punto da nascondersi nel suo grembo e la vuole ai piedi della croce.
    Forse proprio questa sintesi di banalità quotidiana e di grazia vertiginosa costituisce il fascino di Maria.
    Ed è una donna: benedetta tu tra le donne. La propo­sta di Dio - unica e completa in Cristo - si colora di fem­minilità nella Madonna: si fa più accessibile a noi, gente impaurita ed arida; si fa più calda, più accogliente...
    In tempo di suffragette, di trucchi, di bambole e d'altro, si fatica forse un poco a cogliere lo stupore per la donna del «dolce stil novo» o l'attrattiva per l'«eter­no femminino» di Goethe. Ma avevano un senso, que­ste cose e altre simili. E hanno un senso: si vuole spera­re che la donna non sia soltanto la ragazza-copertina delle riviste illustrate, la figura discinta che sui manife­sti è abbinata ai dentifrici e alle saponette - passi per la biancheria - o l'attricetta che si spoglia sulle scene... Un oggetto - ma dentro chissà cosa c'è! -: un oggetto qua­le non vorremmo fossero le nostre sorelle o le nostre mamme.
    Non abbandoniamoci a del tenerume un poco a van­vera. Sta il fatto che femminilità nel suo ideale è pre­senza nascosta e silenziosa, è dono di sé senza pretese, è intuizione che vede là dove l'uomo non scorge, è sen­timento che spezza i reticolati della nostra dura razio­nalità, è attenzione alle piccole cose che son forse le più importanti, è fragilità che si rivela forza sorprendente nella sofferenza, è capacità di gioire per un nulla e di portare la gioia... Immagino che a questo punto qual­che «esprit fort» sorrida di compatimento, o qualche scettico dia di gomito alla moglie per dire: è vero tutto ciò? Preciso allora di nuovo che parlo di ideale. E invito a non mostrarsi tanto facilmente disinvolti o sprez­zanti. Si pensi, per favore, alla casa d'uno scapolo. E di contro: si pensi alla sublime ingenuità degli innamorati o al nostro affetto di figli. I sorrisi possono cessare. Inizia la semplicità degli occhi puri. Torniamo alla Madonna. Qui la femminilità si fa apice inarrivabile e diviene abbandono radicale al Signore che chiama - il «sì» dell'annunciazione -: diviene premura materna per tutti noi.
    Dio sa se nell'arida società mascolina in cui viviamo - a stento - non ci sia bisogno d'un recupero della sti­ma per la donna e d'una autentica presenza femminile che vivifichi e allieti. Dio sa se nella Chiesa un po' sgo­menta e un po' mascolinamente arrabbiata in cui vivia­mo non ci sia bisogno d'una riscoperta d'una sorella maggiore o d'una madre che faccia unità e porti un po' di freschezza.
    Dio sa se - anche in campo religioso - nell'esistenza solitaria e gretta che ci trasciniamo, non si avverta la necessità d'una tenerezza mariana.
    Verrebbe voglia di mettersi a recitare l'Ave Maria.

    L'Immacolata, un inizio e una totalità

    Non si sciupano, non si toccano neppure, le gemme sui rami. Son cosine piccole, quasi insignificanti, ma dentro nascondono il segreto che verrà: la festa dei fio­ri e la gioia del raccolto.
    Una donna che attende un bambino non inizia ad amarlo quando il figlio va a scuola o va a soldato: non aspetta neppure d'averlo tra le braccia: appena ha in­tuito che in grembo le è insorta un'esistenza - prima non c'era -, non vive la gravidanza come se fosse un periodo di squilibrio ormonico: la vive come un rapporto; attende, ma sa già che lui o lei c'è - il figlio è sempre una sorpresa oltre che un progetto -: e pensa al nome, prepara il corredino...
    Sto dicendo che l'inizio è sempre un mistero. E che l'amore è impaziente: sa cogliere nel germe tutto lo sviluppo, e non sta passivo; previene, risale su su fino all'origine oltre la quale non c'è nulla...
    Sto cercando di capire il perché dell'Immacolata. Certo, Dio aveva bisogno d'un angolo pulito di mon­do per poterci mettere i piedi. Lo capiscono anche i bambini i quali, quando son cavati dalla vasca dopo il bagnetto, sanno che non devono uscire dal tappetino, se no si sporcano di nuovo. Un angolo pulito, sta be­ne. Ma perché prevenire fino a raggiungere il comin­ciamento assoluto e lì collocarci già la grazia? Il dog­ma è esattamente questo, nella solennità un po' ari­da della sua formulazione: per singolare privilegio, Maria già dall'inizio della sua concezione, in previsio­ne dei meriti di Cristo, è stata esente dal peccato ori­ginale.
    Dall'inizio della sua concezione. Perché?
    È il discorso dell'amore che spiega: dell'amore che vuol subito possedere, che anticipa, che sta in agguato per cogliere immediatamente. Un po' come una mam­ma che non risponde al sorriso del bambino, ma lo precede e lo provoca. Quando il piccolo accennerà al primo gesto di gioia, lo farà perché c'è la mamma che gli solletica il mento ed è curva su di lui con gli occhi felici.
    Così per Dio. Poteva attendere l'adolescenza di Maria o la nascita, no, si è collocato al primo insorgere della vita oltre il quale Maria non esisteva: questo è già momento di grazia. Il seguito lo si sa: non è come in un giallo di Agatha Christie. L'Immacolata Concezione non è soltanto mistero d'un istante: è dialogo d'una vita, un dialogo che ha incluso cadenze felici e lunghe fatiche e qualche pianto nascosto e terribile. Un dialo­go totale, senza mezze misure, capace soltanto di «sì»: neppure lontanamente sfiorato dal «no» o dal «ni» che è il nostro stile più subdolo ed usuale di rispondere. Dio chiamava - ed ogni volta la vocazione si faceva più esigente, fino alla croce -, e Maria si lasciava condurre per mano con docilità sempre crescente: il Fiat non è un caso nella sua vita. E ogni risposta impegnava tutte le forze - tutte: non una fibra del cuore rimaneva esclu­sa -; e ogni risposta ne preparava un'altra più ampia, più profonda.
    La misura dell'amore è amare senza misura. E i no­stri atti non solo ci seguono, ma ci cambiano... Chie­diamoci un po' brutalmente: ebbene, se l'Immacolata Concezione è tutto questo, a noi che cosa importa? È un privilegio di Maria, e sia...
    Sa di profanazione esprimerci così.
    Potrei rispondere che questa sorella è la prima tra i salvati; che ci ha dato il Signore Gesù; che sul Calvario ha penato anche per noi - senza urlare, come nel film di Pasolini -; che è immagine del nostro futuro - di noi, redenti dal Battesimo eppur attraversati dal peccato e dalla fragilità -; che è motivo di speranza, atterriti come siamo da quella tragica croce che ci è messa sulle spalle e che è la libertà finita: la capacità di dire «no» a Dio... o di scansarlo.
    Potrei dire tutto questo. Ma preferisco semplice­mente contemplare e godere di questa creatura im­macolata che appare nel mondo, portata sulle mani sporche d'una umanità che affondava nella colpa ep­pure non rinunciava a sperare. Ricordate le genealo­gie? Genuit, genuit, genuit... Poi il ritmo si interrom­pe: Dio interviene. La storia ha una impennata. Il Si­gnore è vicino. Benedetto il frutto del ventre tuo, Maria...

    La verginità di Maria: un'appartenenza e una novità

    Certe volte, di fronte ad alcuni aspetti del Cristiane­simo, facciamo i «supperciò», assumiamo il tono delle persone informate, emancipate; e invece manchiamo semplicemente di fantasia. Ricordate il «piccolo prin­cipe» di Saint-Exupéry?
    Diceva che bisognava avere molta pazienza con gli adulti perché non san parlare che di numeri, di cra­vatte, di bridge e di politica; e, messi di fronte a un disegno un po' sghembo, vi dicono che è un cappel­lo, mentre è un serpente boa che ha ingoiato un ele­fante.
    La fantasia è spesso più vera della realtà anche a li­vello umano. Quando poi si penetra nel mondo di Dio, l'estro è d'obbligo, e il nostro buon senso non ci capi­sce un'acca. È come mettere un cavallo di fronte al teo­rema di Pitagora o a un quadro d'arte: se lo mangia, non lo contempla.
    Ponete uno dei dogmi più affascinanti - e più osti­ci - del Cristianesimo, la Verginità di Maria: si è incar­nato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Eb­bene, ponete questo dogma: uno che non vi sa leggere oltre le formule e gli avvenimenti storici, ne fa una stramberia o riduce il tutto ad una questione di anato­mia, di ginecologia e di ostetricia.
    Un miracolo inutile. Un geroglifico indecifrabile e fastidioso. Vi dirà anzi che, se Gesù vuol essere uo­mo per davvero, «deve» nascere al modo nostro. Co­me se Dio lasciasse misurare la sua poesia dalla nostra ottusità di ragionieri in mezze maniche. È la storia del cappello e del serpente boa che ha ingoiato un ele­fante.
    Vediamo invece le cose con gli occhi della fede. Ver­ginità. A me fa tornare alla mente il fascino delle porte chiuse: quelle che celano un mistero e che noi voglia­mo subito aprire di fretta, di forza, perché non soste­niamo l'ignoto, non sopportiamo la pazienza della sor­presa. Mi fa tornare alla mente la bellezza inviolata delle distese di neve appena caduta - e noi che voglia­mo subito calpestare. O anche, più banalmente, la sem­plicità dei muri puliti - quelli che noi imbrattiamo di continuo con manifesti sfacciati o con scritte di cattivo gusto...
    Ricordate l'annunciazione dell'Angelo nel convento di San Marco a Firenze? Maria è raccolta in preghiera, l'Angelo la sta salutando; ma il prato verde attorno alla casa non ha l'orma d'un piede: non un filo d'erba è piegato; tutto è intatto... Non conosco uomo.
    E poi, verginità nel Cristianesimo non è puramente lontananza, estraneità, difesa. È adesione. Non è in­nanzitutto un «no» detto alla sessualità coniugale: è un «sì» detto a Dio. Il «no» viene dopo, come una conseguenza. Càpita già così nel celibato o nella ver­ginità consacrata dei credenti. C'è un abisso tra lo scapolo ed il celibe per il Regno. Lo scapolo è alla ri­cerca continua: è disponibile ad ogni avventura con la prima commessa o la prima cassiera che incontra al bar. Il celibe per il Regno ha il cuore saturato: ha l'ani­mo dello sposato, se si può dire. È legato al suo Dio che gli riempie la vita e lo rende capace di servizio ai fratelli. E così pure: c'è un abisso tra la zitella e la vergine per il Regno. Questa - stranamente - è sposa e madre, a modo suo. Si tratta di capire. E non a tutti è dato di capire.
    Per Maria poi questa adesione, questa appartenen­za, questa comunione raggiunge intimità inimmagina­bili. E Dio si serve del nulla per le Sue meraviglie: sce­glie questa ragazza che ha rinunciato ad essere madre secondo la carne e che pure non rinuncia ad attendere il Messia promesso...
    Come nascerà tra noi il Signore atteso e invocato? Maria non lo sa. Vuole soltanto abbandonarsi al suo Dio. Ma Dio lo sa. E sceglie proprio lei, per uno di quasi gesti che sembrano assurdi e che invece ci metto­no di fronte al mistero. La sterile per elezione - su un piano umano - diviene feconda e rimane intatta nella sua verginità: lo Spirito Santo scenderà su di te e ti coprirà della sua ombra; perciò quel che nascerà da te sarà santo e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo...
    Appunto: l'incarnazione del Verbo è un inizio asso­luto nella storia: si colloca dentro la trama delle vicen­de umane, ma le sorpassa; è l'irruzione di Dio nei no­stri giorni bui e incapaci di salvarsi; e da noi vuole sol­tanto accoglienza.
    Maria è esattamente questo spazio aperto, questa disponibilità radicale, questa invocazione esistenziale che rende Dio presente tra noi. Senza la verginità di Maria, Gesù di Nazaret non sarebbe più Dio. Altro che dogma insignificante o marginale! Si inizia a sperare da qui.
    La conclusione? Potrei invitare all'imitazione del «Fiat». Preferisco ancora una volta limitarmi allo stupo­re e alla gratitudine. Maria è fiore e frutto. Ciò che è impossibile a noi: se vogliamo il frutto, dobbiamo vede­re i petali del fiore cadere ad uno ad uno, mestamente. In lei, no. Cosa sa mai fare Dio!... Vergine e Madre...

    Maria, la Madre...

    Anni fa, quando i ragazzotti volevano ostentare una certa spregiudicatezza, parlando dei genitori, li chiama­vano «matusa», e se dovevano dire che telefonavano alla mamma, si esprimevano così: gettono la vecchia. Era la moda. Ed erano ragazzotti, i quali poi sapevano trovare le parole più tenere quando dovevano chiedere il vaglia mensile o si trovavano in difficoltà senza nes­suno a cui rivolgersi...
    Che scherzi sa mai fare la paura - la vergogna - di ammettere un sentimento!
    Ricordo, di contro, un lembo di poesia che dalle ele­mentari mi è rimasto attaccato alla memoria. Non so se sia sublime. So che m'è sembrato vero. Diceva: «Una mamma è come un albero grande / che tutti i suoi doni ti dà; / per quanti gliene domandi, / sempre uno ne tro­verà: / ti dà il frutto, il fior, la foglia, / di tutto per te si spoglia; / anche i rami si taglierà. / Una mamma è come il mare: / non c'è tesoro che non nasconda; / continua­mente, con l'onda / ti accarezza e ti viene a baciare...». Eccetera.
    Commozione un po' bolsa? Tenerume?...
    Mah. Forse si capisce che cosa è una mamma quan­do la si è persa o la si ha lontana. E comunque, moren­do, la si invoca col Signore perché si spera di reincon­trarla: «Ricorderai d'avermi atteso tanto / e avrai negli occhi un rapido sospiro...». È un altro verso di poesia non dimenticata.
    Torniamo alla prosa - e chissà se ci riesce. Potrem­mo dire che la mamma è la persona che, in casa, si alza per prima e va a riposare per ultima; è colei che anche quando dorme ha sempre il fondo del cuore che vigila, pronto a cogliere ogni sussurro; è colei che ci fa trovare tutto pronto, senza chiasso o sbandiera- menti di generosità: la tavola per il pranzo e per la cena, la biancheria pulita il mattino, la casa linda e composta; è colei che sa vedere d'istinto le piccole cose che mancano e ricorda e prevede; è colei che rie­sce a leggerci dentro anche i pensieri più segreti, al di là delle nostre maschere; è colei che ci crede sempre innocenti, o è sempre pronta a perdonarci; è colei che non ci rinfaccerà mai: «Con tutto quello che ho fatto per te»..., poiché sa che le potremmo rispondere: «E chi te lo ha chiesto?», e sarebbe inchiodata al suo dovere di dare senza attendersi un grazie. Una mam­ma dà, non pretende.
    Poteva mancare questa nota di dolcezza nel Cristia­nesimo? «Ecco, Tu concepirai nel grembo e partori­rai un figlio, e gli porrai il nome: Gesù». «Ecco la ser­va del Signore; mi accada secondo la tua parola». Anche Dio ha voluto avere la gioia e la benedizione d'una madre. E se l'è portata - liberissimamente - fin al Calvario. «A te una spada trapasserà l'anima e così saranno rivelati i pensieri di molti cuori»... Altro che tenerume: qui c'è lo strazio di vedere agonizzare e morire un figlio innocente. I dolori della maternità affondano fino a questo abisso. Ed è così che Maria diviene la madre di tutti i credenti: «Figlio, ecco tua madre...».
    Forse, senza questa figura femminile accanto alla culla e alla croce, il Cristianesimo sarebbe stato disu­mano. Come la vita.
    C'è di che ringraziare Dio per averci interpretato così nei nostri desideri più profondi. Anche se, per cogliere questi valori, occorre un poco avere l'animo di bambini. Sono i ragazzotti fragili e apparentemente emancipati, che «gettonano la vecchia»... Sto dicendo che non si comprende più la funzione di Maria nella vita personale ed ecclesiale, se non si ha in cuore la capacità di commuoversi.
    Ricordo una preghiera che iniziava così: «Santa Ma­ria, Madre di Dio, conservami un cuore di fanciullo, puro e limpido come acqua di sorgente...». E prosegui­va chiedendo il coraggio di dimenticarsi e di donarsi agli altri come lei.
    Già, perché una madre non è soltanto un dono: è anche un impegno. E non si pensi ad un'esistenza cri­stiana tesa, inasprita, arrabbiata. Si può essere impe­gnati fino allo spasimo e conservare nell'intimo una pace inimmaginabile, se c'è il calore d'una mamma ac­canto.
    Tra le varie Madonne che conosco, ce ne sono due che prediligo: una è a Firenze e si chiama «Madonna del sorriso»; l'altra è alle Frattocchie, presso Roma, e si chiama «Madonna dell'equilibrio». Dite voi se non ne abbiamo bisogno... Io sognerei anche una Madonna dell'umorismo: bisognerebbe inventarla. È un'idea.

    L'Assunta, un anticipo e una speranza

    L'Assunta.
    Non è facile parlare della Madonna. Si rischia sem­pre l'ingenuità. Ma bisogna rischiarla questa ingenuità quando si parla della mamma: anche se si hanno qua­rant'anni suonati o si sta morendo. Ricordo il ritornel­lo d'una canzone che insiste: Come potrò dire a mia ma­dre che ho paura?
    L'Assunta, dunque.
    Stiamo al dogma: al termine della propria vita terre­na, per singolare privilegio, Maria è stata assunta in cielo in anima e corpo, unendosi così in modo partico­larissimo al suo Figlio glorioso.
    Non vale ripetere che il cielo non è altrove, lontano, facendo dell'Assunzione una sorta di salita ad un fan­tomatico ultimo piano con uno strano ascensore. Il cie­lo è il mistero nascosto tra noi. Maria è presente.
    Ebbene, se le cose stanno così, buttiamo avanti in modo deciso l'interrogativo che abbiamo dentro: l'As­sunta che cosa dice a noi, uomini d'oggi? O, in modo ancor più netto: in che cosa ci tocca, in che cosa ci coinvolge questo dogma apparentemente tanto astrat­to? Maria è in cielo anche nel corpo. E sia. Ma noi?
    Ecco, c'è da vergognarsi a porre le domande così. Ma riflettiamo un istante senza il sussiego di uomini adulti (occorre essere un po' bambini per capire que­ste faccende).
    L'Assunta dice a noi che nella gloria, con Cristo, è entrata Maria, nostra Madre. Nella gloria è entrata non solo la mente, ma il cuore, la sensibilità, la premura di una madre; di una madre che ci conosce, che ci se­gue, che trepida e intercede per noi: non come ci può conoscere un registro d'anagrafe o un calcolatore elet­tronico, ma come una madre, appunto, che è attenta alle minuzie che formano la nostra vita, indovina i pensieri quando ci vede rabbuiati, tace quando intui­sce che abbiamo bisogno di soffrire, condivide le gioie quasi nascondendosi, e prima che usciamo, si premu­ra di controllare se abbiamo le scarpe lucide ai piedi e il fazzoletto pulito in tasca... Una madre conosce così: col cuore; e si sa che le cose più importanti sono invi­sibili agli occhi...
    E di contro: una madre la si conosce così. Un bimbo richiesto di descrivere la mamma, non si sognerebbe mai di rispondere che ella è nome comune di persona singolare femminile. Ci direbbe che è la più bella e la più buona del mondo, e allargherebbe le braccia per dire che le vuol bene così.
    E poi l'Assunta ci è motivo di speranza e anticipo di ciò che saremo.
    Il suo destino è il nostro futuro.
    Anima e corpo. Ciò significa che anche la pesantez­za e l'opacità del nostro corpo saranno riscattate: non è intuizione da poco, quando si osserva o si esperimenta il disfacimento della malattia e della morte; o quando si avverte che il corpo è ostacolo e schermo invece di essere parola tersa detta all'altro e intenzionalità d'amo­re manifestata...
    Anima e corpo. Ciò significa che ha un senso il po­st ro faticare quotidiano e il nostro riposo: il vivere tra i fornelli di cucina o gli altiforni delle fonderie, tra pannolini e biberon o tra scartoffie d'ufficio o tra libri o nel chiasso di un'officina o in una vacanza con ami­ci... Tutto viene recuperato e trasfigurato alle soglie del­l'aldilà.
    Non c'è lembo d'esistenza che va messo in parentesi perché inutile: tranne il peccato. Ce lo assicura l'Assun­ta: questo ideale d'umanità che è reale come e assai più delle nostre incombenze più immediate.
    C'è di che stupirsi. C'è di che impegnarsi. C'è di che ringraziare Maria perché precede e dà senso ai nostri sforzi; o semplicemente perché è lei; perché esiste... Cambia un po' tutto. Davvero.

    (Sandro Maggiolini, Scommettere su Dio, Piemme 1995, pp.56-68)


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