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     Una giovane

    di nome Maria 

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    Dante Gabriel Rossetti, Annunciazione


    Forse la più diffusa tra le rappresentazioni sociali del giovane è quella che lo vuole sempre attivo, lanciato in una folle corsa attraverso il mondo, mai fermo a riflettere o a “perdere tempo”; il giovane non contempla, non subisce, non è mai passivo: agisce. Chi critica la sfrontatezza dei giovani a volte ne condivide però la ragion d’essere: vista l’arroganza, la protervia e la prepotenza di molti quarantenni viene da pensare che molte critiche ai giovani e alla loro presunzione non siano dettate da senso morale ma dalla percezione di avere di fronte un pericoloso concorrente nella lotta per la vita. Una specie di darwinismo sociale perverso si è impadronito degli adulti e di rimando anche dei giovani: si finge di disprezzare l’iperattivismo dei giovani ma quando si vede un ventenne (soprattutto maschio, anche se sempre più queste caratteristiche sono poco apprezzate anche nelle ragazze) che riflette, non agisce, ammorbidisce il suo rapporto con il mondo si assume un atteggiamento che sta a metà strada tra il preoccupato e l’indignato: non si aspetterà mica che il pane gli voli in bocca da solo? Molti adulti condividono segretamente –mentre se ne difendono- l’arroganza dei giovani lucidamente descritti da Adorno (forse perché non è che lo specchio della loro stessa arroganza): 

    che, nella società repressiva, la libertà e la sfrontatezza finiscano per fare tutt’uno, è provato dai gesti noncuranti dei giovani, che chiedono con aria strafottente “quanto costa il mondo” (…) Per sottolineare che non dipendono da nessuno e che quindi non sono tenuti a dar prova di rispetto, affondano le mani nelle tasche dei pantaloni. Ma i gomiti che,così facendo, sporgono in fuori, sono già pronti a urtare senza riguardi chiunque tagli loro il cammino[1] 

    L’aggressività del giovane e il suo attivismo esasperato è una delle maschere che assume oggi lo spirito di concorrenza e di competitività sfrenata che sembra permeare di sé ogni rapporto umano; occorre essere competitivi, considerare sempre gli altri e le altre come avversari e soprattutto non avere mai un momento di pausa, di riflessione, di distacco. L’arroganza e la prepotenza che i giovani in questo modo manifestano è un tratto adulto del loro carattere: 

    ci troviamo di fronte a una sedicente giovane generazione che, in tutti i suoi moti e impulsi, è intollerabilmente più adulta di quel che i genitori non siano mai stati: che ha rinunciato prima di qualunque conflitto e che trae da questa rinuncia la sua forza: ostinata, autoritaria e irriducibile [2] 

    Ma si tratta comunque di una partita persa: il giovane sa di essere escluso dal gioco del potere e sfoga il suo attivismo prepotente sui più deboli, mettendo in atto quello che gli studiosi della società totalitaria definiscono principio del ciclista: come il ciclista gregario, che sa di non poter mai vincere la gara, viene insultato dal direttore sportivo sull’ammiraglia e, non potendo reagire, si sfoga calcando il passo sui pedali, così coloro che sono trattati con durezza dai superiori o comunque dalla materialità della vita trovavano nelle loro vittime la possibilità di sfogare i loro istinti repressi[3].

    Ma la vera bellezza del giovane sta nel suo essere passivo; il giovane è un vaso che attende di essere riempito, una cavità che si presenta al mondo nella sua nudità e ingenuità. Non si tratta qui di ignorare le istanze positive che il giovane può dare al mondo ma di intenderle come successive a un atteggiamento di passività e di ascolto. “Stai zitto tu che sei ancora giovane!”: una frase da adulti arroganti, ma anche un suggerimento implicito certo al di là dell’intenzione di chi la pronuncia: abbi il coraggio di tacere perché il tacere, in attesa degli eventi, in attesa di essere attraversato dal mondo. È la vera forza dei giovani. Nella società della chiacchiera catodica non c’è quasi trasmissione televisiva che non meta un microfono sotto il naso di un giovane chiedendogli il suo parere su tutto, salvo poi ovviamente disinteressarsene; ma è ben raro che si conceda al giovane il tempo per aspettare, riflettere, lasciarsi andare per un momento alle ondate del mondo per saperle poi governare. Il giovane ha il tempo a disposizione per essere passivo; e questo tempo non va sprecato, nemmeno se si è assediati dagli ipocriti inviti adulti all’attivismo a tutti i costi

    Questa disponibilità a lasciarsi attraversare dal mondo è del resto la stessa della giovane palestinese Myriam che si dona all’annuncio inatteso e che si lascia attraversare dalla notizia sapendo che non le farà male: una capacità che si possiede se si è fatti di cristallo, se si è cioè in grado di farsi colpire e attraversare dalla luce rifrangendola senza trattenerla e senza esserne feriti: 

    E’ cristallo Maria, il Figlio luce di cielo:

    per questo può attraversarla tutta pur senza aprirla [4] 

    Il giovane è allora chiamato ad essere madre; la gioventù sprecata è quella che non si lascia fecondare dalle idee, dalle esperienze, dal mondo, e l’imperativo realmente urgente per i giovani è non rimanere vuoti; ma per non rimanere vuoti occorre sentirsi vuoti, presentare la propria cavità al mondo. Il vuoto ha senso solo se viene esibito senza paura; allora la passività è ricettività e ricezione, è capacitò di riempirsi di senso: 

    La verginità vale, però dev’esser madre

    Oppure è come un campo dalla terra infruttuosa [5] 

    Il giovane recettivo accoglie il poter-essere-riempito proprio del carattere femminile, meglio materno; non ha paura di essere accusato di passività perché sa che solo la passività permette al mondo di fecondarci: 

    “Donna è la parola più nobile che si possa attribuire all’anima, molto più nobile che vergine. Che l’uomo accolga in sé Dio è bene e in questo accogliere è vergine. Ma che Dio divenga in lui fecondo è meglio” [altrimenti] “la sua verginità non gli serve a niente perché, essendo vergine, non è divenuto donna” [6] 

    Ogni volta che un giovane incontra un adulto significativo, l’esperienza che gli accade è proprio questo fare spazio dentro di sé, questo lasciare spazio all’altro che sarà poi cruciale nell’esperienza amorosa. E’ la fiducia nel mondo e nell’adulto che permette questa apertura esistenziale. L’uomo è un essere aperto, anche zoologicamente: l’acquisizione della posizione eretta ha permesso l’esibizione del ventre e dei genitali, in una posizione che è difficile da mantenere perché espone le parti intime e delicate del corpo a possibili attacchi; ma l’uomo è questo, e la sua apertura costitutiva non si lascia sopraffare dalla paura. In questo l’ingenuità giovanile, il fatto che i giovani “si lascino condizionare” come spesso si dice, la loro disponibilità a seguire l’adulto nonostante tutto è davvero un tratto ingenuo, nel senso etimologico di “originario”; forse il giovane che osa aprirsi al mondo e che lascia spazio perché il mondo lo penetri è quanto di più vicino all’umano possiamo concepire. L‘uomo è concavo: 

    “dobbiamo formare una capanna, estenderci in modo che Dio possa operare molto in noi” [7] 

    Il ricavo di questa apertura è enorme: conosciamo tutti il senso di pienezza e di novità che si prova alla fine di una esperienza importante; ci si sente come gravidi. Non si tratta della sazietà, una sensazione tutto sommato fine a se stessa, ma proprio dell’idea di gravidanza, come se quanto è stato depositato nel nostro intimo dall’esperienza compiuta non si esaurisse in sé ma fosse solo l’inizio di una nuova storia, di una nuova vita: 

    “A un uomo sembrò in sogno – ma era un sogno ad occhi aperti- di diventare gravido del nulla come la donna di un bambino e in questo nulla nacque Dio; era il frutto del nulla, Dio viene generato nel nulla [8] 

    E non ha molto senso, dopo esperienze così arricchenti, dopo che la cavità che abbiamo coraggiosamente mostrato al mondo si è riempita, preoccuparsi eccessivamente del contenuto con cui essa è stata riempita: come ogni madre sa, anche qui occorre lasciar-fare, lasciar-accadere lasciar-maturare. Quante volte abbiamo sentito padri preoccupati chiedere ai giovani “quale guadagno avessero” oppure “a che cosa portasse” l’esperienza che stavano facendo. Ma per il giovane che si affida al mondo, conta maggiormente il fatto di lasciarsi attraversare e penetrare che il contenuto di questa penetrazione; ciò che ci attraversa, come per Myriam di Nazareth, è mistero: 

    L’esser davvero vuoto è come un nobile vaso

    Che dentro ha nettare; ha e non sa che cosa [9] 

    In questo modo, lasciando spazio al mondo, il giovane impara tra l’altro una qualità che lo guiderà nel futuro rapporto con le persone, gli animali, le piante: l’ esperienza del con-patire, nel senso del patire-insieme dell’essere-insieme-passivi, un modo di posizionarsi nei confronti del mondo che sprofonda il giovane nelle cose del presente e del futuro e che lo rende in grado di decifrarne i segreti o le tendenze latenti. Si tratta di un atteggiamento di attesa, che non forza gli eventi ma li lascia avvenire. Una posizione nei confronti della realtà che può essere esemplificata dall’esperienza dell’ascolto della musica, che tanta parte ha ancora oggi nella crescita dei giovani. Siamo però convinti che oggi la musica non si ascolti; la si balla, la si usa come colonna sonora, la si considera una specie di tappeto sonoro su cui poggiare le conversazioni, ma non la si ascolta realmente perché l’ascolto della musica prevede una dimensione passiva, di sospensione dell’azione, di disponibilità ad essere sorpresi e per certi versi anche aggrediti, tutte dimensioni alle quali i giovani vengono educati a tenersi ben lontani. La danza è una possibile risposta alla musica, ma è appunto un risposta attiva (o semi-passiva) del soggetto, non può essere il primo approccio alla musica. “Finché l’orecchio vibrava in armonia con i suoni della natura o con una musica costruita anch’essa in armonia con le strutture interne all’uomo, costui non si distruggeva. La frenesia assordante delle città,la pseudo-musica a base di frastuono che non è altro che la disintegrazione del suono (...) tutto questo insieme concorre a far proliferare le piante mortali del nostro essere”;[10] ci sentiamo di integrare e parzialmente correggere la de Souzenelle affermando che certe esperienze musicali al limite tra musica e rumore o comunque in equilibrio sull’abisso della dissonanza (pensiamo al primo Hindemith, ma soprattutto a Schoenberg, Berg, Webern; e al lascito che queste esperienze hanno avuto nel campo della musica apparentemente più commerciale, da “Atom Heart Mother” dei Pink Floyd a “The Black Rider” di Tom Waits) sono fortemente educative anche e soprattutto come mimesi della società, come riproduzione –ma sublimata e criticata, dunque capita- della civiltà che ottunde il silenzio. Nella dissonanza è poi celato un altro segreto, un ordine ulteriore che va al di là dell’ordine del contrappunto, ed è solo a un ascolto esperto e attento che questo segreto si svela.

    Il giovane che sa essere recettivo è allora il giovane che sa porsi in ascolto mettendo così in campo un’esperienza di vita e di verità tanto antica quanto desueta: dire che una cosa è vera perché l’abbiamo sentita dire significa far rientrare la propria affermazione in un regime di verità completamente differente da quello della spiegazione scientifica; la parola di verità che si sente, la verità che si esprime nella parola sono quelle divine; l’ascolto della parola divina sta, per le civiltà giudaico-cristiane alla base di ogni successivo ascolto e di ogni successiva ricerca di verità. Archetipo di questa concezione dell’ascolto è il risuonare della parola divina all’orecchio dei primi uomini; ma gli uomini e le donne possono ascoltare anche i suoni e i rumori della natura; anzi, è proprio nell’ascolto, inizialmente muto e rispettoso, dei suoni naturali che l’uomo e la donna possono davvero farsi interpreti della natura, articolando nel loro il suo muto linguaggio Anche certi suoni prodotti dall’uomo e dalla donna, come il suono delle campane, non sono che tentativi di articolare in un linguaggio umano e artificiale certi suoni naturali. La musica deve la sua levità e la sua nobiltà alla dialettica mai del tutto risolta tra suono naturale e suono “culturale”. La sensibilità che i giovani spesso dimostrano nei confronti della natura è figlia proprio di questa qualità dell’ascolto: “E' una verità metafisica che ogni natura prenderebbe a lamentarsi se le fosse data la parola (...) essa piangerebbe sulla lingua stessa. L'incapacità di parlare è il grande dolore della natura (e per redimerla è la vita e la lingua dell'uomo nella natura)”[11] Ma essere capaci di cogliere il suono della natura e articolarlo in lamento significa anzitutto affinare ed allenare il proprio udito all’ascolto del lamento; che esso si esprima con il grido lacerante o con l’impercettibile sussurro[12], si tratta sempre di articolare in parole comprensibili il rantolo del moribondo o del sofferente.

    E infine la disponibilità del giovane all’attesa, all’ascolto, alla passività, alla recettività significa anche disponibilità ad essere educato, a intrattenere rapporti umani che siano improntati in senso pedagogico; perché l’educazione del giovane è anche caratterizzata da un momento in cui egli/ella è passivo e recettivo, nonostante le parodie attuali di quello straordinario paradigma di ricerca che era l’attivismo, che non aveva certo in mente, come risultato dell’educazione, il manager isterico e superimpegnato di oggi. L’educazione è fidarsi e affidarsi a qualcuno, lasciarsi penetrare e impregnare dalle esperienze che costui ci permette di fare, come un Padre della Chiesa afferma, in un discorso significativamente indirizzato Ai giovani a proposito delle letture pagane: 

    come i tintori, che prima preparano con certi trattamenti una stoffa atta a ricevere la tinta, poi vi applicano il colore, o purpureo o di altro genere, così anche noi, se si vuole che l’idea del bene resti in noi indelebile, dopo esserci dedicati appunto a questi studi profani capiremo allora i misteri delle sacre dottrine [13] 

    Se, come spesso gli adulti lamentano, i giovani non ci ascoltano, forse è perché abbiamo poco da dir loro, o non ci importa nulla che stiano ad ascoltarci. I giovani invece possono essere educati proprio perché sono costitutivamente concavi, presentando all’adulto un vuoto da riempire. Non perché i giovani siano vuoti, ma perché esibiscono davanti a noi quella parte cava che è nostro dovere riempire. Pretendere che il nostro sia solo un meccanico riempimento significa ricadere nella concezione depositaria dell’educazione che Paulo Freire giustamente demolì[14]; il nostro atteggiamento è semmai quello di chi pone delicatamente un uovo in un nido, sperando che gli accada qualcosa che ormai non dipende più da noi; con la delicatezza dell’uomo che feconda una donna, con la fragilità della rugiada che si posa sui fiori: 

    Per indicare l’educazione gli Egizi raffigurano il cielo stillante rugiada, volendo dire con questo che, come la rugiada cadendo si posa su tutte le piante e addolcisce quelle la cui natura può essere addolcita, mentre su quelle per propria natura insensibili non può agire allo stesso modo, così anche l’educazione è comune a tutti gli uomini e chi ha una buona disposizione la riceve come rugiada mentre chi manca della predisposizione naturale non può farlo [15] 

    E la costellazione rugiada-fecondità ci riporta al nostro punto di partenza, alla giovane palestinese che rilasciò attraversare da un annuncio inaudito: 

    La dolce rugiada della Trinità senza inizio
    Cadde dalla fonte dell’Eterna divinità
    Nel fiore dell’ancella eletta [16]  

    Anche ai nostri giovani occorre dire che questo attraversamento è possibile. Che non occorre aver paura, ma aspettare fiduciosa la parola che potrà far vivere una nuova vita. Che non devono temere alcun male da questa lieve, tenera penetrazione; come nulla soffrì la giovanissima Myriam, quando con stupore si accorse del lieve passaggio del figlio di Dio: 

    Gesù attraversò il tuo corpo come la rugiada passa attraverso il fiore[17]

     

    (da Raffaele Mantegazza, Tra il marzo e il giugno della vita. Pedagogia della gioventù, Elledici 2011, pp. 54-62.

    Il capitolo a cui questo articolo si riferisce è intitolato: MYRIAM: GIOVENTÙ RECETTIVA)



    [1] Theodor W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa. Torino, Einaudi, 1979, pag. 124

    [2] Ivi, pag. 12

    [3] Si tratta del meccanismo per cui alcuni membri di comunità vittime di odio razziale o xenofobo ribaltano quello stesso odio su altre comunità percepite come “inferiori” (questo ruolo è interpretato in Italia dai rom, in Germania dai Turchi ecc.) Questo meccanismo è stato egregiamente esemplificato nella novella di James Joyce La contropartita, in Gente di Dublino. Milano, Garzanti, 1982

    [4] Angelus Silesius, Il pellegrino cherubino, Cinisello, Paoline, 1989, pag. 242

    [5] Ivi pag. 244

    [6] Meister Eckhart, I Sermoni, Cinisello, Paoline, 1999, pag, 100

    [7] Ivi, pag, 510

    [8] Ivi, pag. 493

    [9] Angelus Silesius, op,. cit, pag, 209

    [10]Annick de Souzenelle, Il simbolismo del corpo umano. Dall’albero di vita allo schema corporeo, Brescia, servitium, 2000, pag. 306

    [11] Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo in Angelus Novus, Milano, Einaudi, 1962, pag. 63

    [12] Cfr. Giuseppe Ungaretti, Non gridate più: “Hanno l’impercettibile sussurro/non fanno più rumore/del crescere dell’erba/muta dove non passa l’uomo”

    [13] Basilio di Cesarea, Ai giovani, Bologna, Dehoniane, 2006 pag. 87

    [14] Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi Torino, Ega, 2004

    [15] Orapollo, I geroglifici, Milano, Rizzoli, 2003, pag. 137

    [16] Mechtihild von Magdeburg, La luce fluente della divinità, Firenze, Giunti, 1991, pag,. 40

    [17] Ivi, pag. 51


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