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    Frederic Manns, noto biblista, professore emerito dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, rielabora, in chiave divulgativa e con uno avvincente stile narrativo, alcuni passi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Racconti integrati da interessanti annotazioni sugli usi di vita del tempo, sulle forme della spiritualità semitica e della cultura ellenistica, che trascinano il lettore dentro l’atmosfera in cui ha preso forma la Rivelazione. È morto a
    Gerusalemme il 22 dicembre 2021

    1. Il privilegio di una donna

    L’alba illuminava la città fortificata di Magdala che appariva con tutto il suo splendore agli occhi stanchi dei discepoli. Il Mare di Galilea scintillava come un vasto specchio al sole nascente. I monti della Gaulanitide si stagliavano dall’altra parte del lago.
    Gesù propose di fare una breve sosta dove era appena stata inaugurata una nuova sinagoga. Desiderava infatti proclamarvi la buona novella del Regno di Dio. Per non scandalizzare i discepoli, aveva evitato deliberatamente di passare per Tiberiade, città romana di recente costruzione sorta su un cimitero.
    Magdala era una città ricca, situata sulla Via Maris in riva al lago di Kineret. Ben diversa dal piccolo villaggio di Nazaret era celebre per la lavorazione del pesce: si trattava di una attività fiorente; infatti in quel punto del lago i pesci abbondavano. Localmente la città era nota con il nome di Migdal Nunia, la torre dei pesci.
    Il lago di Kineret, così chiamato per la sua forma che ricordava un’arpa, kinor in ebraico, si era meritato il nome di lago della vita. L’acqua che vi si immetteva proveniva da tre sorgenti e quando fuoriusciva era un fiume, il Giordano. La legge della vita consisteva a trasmettere ciò che si era ricevuto, gratuitamente, come suonando una melodia su un’arpa. Molto al di sopra del Kineret risplendeva la cima imbiancata del monte Hermon alla cui sinistra si levavano le verdi montagne del Libano. Kineret metteva Israele in comunicazione con il mondo dei pagani. La riva destra saliva verso la Decapoli dove i pagani erano numerosi come le locuste d’Egitto. Il pensiero greco tentava di mettere radici sotto i portici frequentati dai filosofi stoici. Là sorgevano centri importanti come Hippos e Gadara. Nel retroterra la piana era tutto un grande frutteto. I primi melograni e i primi datteri che arrivavano al mercato provenivano dalla zona.
    Il porto di Magdala era talmente cresciuto da attirare numerosi marinai provenienti dalla parte opposta del lago e non appartenenti al popolo eletto. Per le esigenze dei pagani i mercati locali disponevano di lussuosi accomodamenti. I costumi licenziosi dei marinai erano stati adottati rapidamente in città. Donne di malaffare erano attirate entro le mura come mosche sul miele.
    “Perché ci fermiamo in una città impura?” protestò Giovanni che fin dalla sua più tenera età conosceva il libro del Levitico. “Rimaniamo solo alcune ore”, rispose Gesù. “La mia missione consiste nell’annunciare il Regno di Dio, la tenerezza di Dio che si dà graziosamente”. D’estate la città ricordava la fornace dei tre fanciulli di cui parla il libro di Daniele. Spesso gli abitanti erano tormentati dall’insonnia.
    Simone ed Andrea, pescatori di professione che si erano messi in società con i figli di Zebedeo, trovarono imbarcazioni della loro compagnia che vuote ritornavano a Cafarnao. I marinai contenti di aver trovato un nuovo equipaggio di cui facevano parte i loro ex-compagni li invitarono a bordo di una nave.
    Uscendo dal molo di Magdala la barca di Simone fu bloccata da una lussuosa imbarcazione che rientrava nel porto. Le due barche sfiorarono la collisione. Simone cominciò a irritarsi. La barca di lusso era decorata da uno sfarzoso baldacchino, sul quale era mollemente adagiata una bella donna circondata di suonatori di flauto. Evidentemente questa donna non usciva mai senza una scorta. Gesù volgeva il suo sguardo verso il monte Hermon. Mentre conversava, la donna, scostando le tendine con le sue mani cariche di gioielli, sporse la testa del baldacchino e vide il rabbi di bianco vestito. Ordinò ai rematori di fermarsi mossa da curiosità. Gesù si voltò verso di lei, le disse: “Donna perché questo lusso? Perché sprecare i doni di Dio? Quando verrà lo sposo, con che accenderai la tua lampada?”
    Sentendo parlare dello sposo la donna ebbe un sussulto sulla lettiga e con un gesto nervoso si aggiustò le lunghe trecce che le ricadevano sul seno. Disse: “Maestro, le tue parole sono oscure. Di quale sposo parli?” Gesù rispose: “Il Signore ha posto in te un desiderio profondo: il bisogno di amare e di essere amata. Anche tu sei chiamata ad entrare nel mistero di una alleanza. Sei depravata, ma in te rimane un fondo che non può essere distrutto. L’immagine di Dio che è in te può essere offuscata, ma esiste ancora sotto un cumulo di pietre. Quella sorgente chiede solo di poter zampillare. Persino nella creatura più degradata esiste una infanzia indistruttibile che può rivivere. Il fondo del tuo cuore non è completamente avvolto di buio. Perché non lasci che la grazia si riversi nel ruscello inquinato?”
    La donna abbassò gli occhi ed evitò di incrociare lo sguardo del Maestro. Si domandava che cosa significasse “entrare a far parte dell’alleanza”. Con un gesto istintivo scivolò giù dai cuscini e tentò di avvicinarsi a Gesù. Lo supplicò con voce rotta: “Che cosa vuoi che faccia? Quando i demoni mi assalgono, non posso fare nulla di buono”.
    Gesù si mise in preghiera, poi ordinò ai demoni di lasciare questa donna. Sette demoni uscirono da lei. Un grido violento accompagnò la loro uscita. Sembrava rapido come un fulmine. Gesù le disse: “Donna la tua vocazione, adesso che sei liberata è di aprire il mondo all’era del cuore e della compassione. Per te si aprirà la porta del Regno di Dio quando avrai trovato la chiave”.
    La donna si avvicinò e tentò di baciare il bordo del mantello del maestro con le sue labbra. I discepoli furono sorpresi dal gesto che sembrava troppo intimo. Il maestro non protestò. Ella lasciò cadere ai suoi piedi una borsa piena di monete. Giovanni volse il capo per non vedere la scena.
    Dopo quell’incontro sull’acqua la donna licenziò i musici, vendette la sua casa insieme ai regali preziosi che aveva ricevuto dagli ammiratori e distribuì il suo denaro ai poveri. Si sbarazzò dei sandali d’oro che amava indossare. Liberata dagli spiriti maligni che la possedevano si mise al servizio del gruppo dei discepoli. Tutta la città parlò della sua conversione. I suoi ricchi ammiratori di un tempo non capivano, pensavano che avesse perso la testa. “Il troppo amore rende pazzi” ripetevano.
    Ora la barca di Simone scivolava sull’acqua, perché la donna aveva ordinato ai suoi rematori di lasciarla passare. “Maestro, disse Simone, ci devi spiegare il tuo atteggiamento stasera”. A destra si intravedevano i monti del Golan dove Gesù aveva guarito un indemoniato nel paese di Gergesa. Gli sguardi dei discepoli cercavano non il paese dei pagani, ma la terra benedetta d’Israele dove i demoni tentavano di entrare.
    Maria di Magdala ebbe il privilegio di vedere il Cristo risorto la mattina del primo giorno. Perché Gesù la mandò a portare agli apostoli il messaggio della risurrezione fu chiamata apostola apostolorum. Il privilegio di una donna!

    (L'Osservatore Romano 29 maggio 2021)

    2. "Lottò con l’angelo ed ebbe il sopravvento"

    Fuggendo dall’odio del fratello Esaù, Giacobbe lasciò la casa di suo padre per recarsi ad Haran, nella Mesopotamia dei suoi antenati. Partì da Bersabea, il pozzo del giuramento e della benedizione. Come straniero venne da Labano, e come straniero costruì lì la sua casa. A Haran trovò un altro pozzo ricoperto da una pesante pietra. Per spostarla, i pastori dovevano unire le loro forze. Basterà a Giacobbe vedere Rachele, la figlia di Labano, per trovare dentro di sé la forza per spostare la pietra.
    Alla fine di vent’anni — quattordici anni per poter sposare Lea e Rachele e sei anni a causa del bestiame — , incontrò angeli a Mahanaim. Camminando verso la terra della promessa aveva obbedito al Signore che gli disse: “Torna al tuo paese e al tuo luogo natale, io ti proteggerò”. Non aveva informato Labano che se ne sarebbe andato. All’improvviso la paura lo paralizzò. Aveva invitato suo fratello Esaù a trovarlo e sapeva che per persuadere qualcuno conveniva fargli dei regali. Si era sempre fidato della sua forza, della sua volontà e della sua astuta intelligenza, per ricevere la benedizione di suo padre, per unirsi a Rachele e persino per scappare da suo zio Labano. Ora era maturo per un diverso tipo di prove. Alla periferia di Canaan, camminando verso se stesso, si preparò a diventare Israele. Stranamente Dio lo aspettava al guado dello Iabbok.
    Aveva preso con sé le sue due mogli, Lea e Rachele, le sue serve, Bila e Zilpa, i suoi undici figli e le sue proprietà, ed ecco un ostacolo: un torrente. Gli ostacoli sono fatti per essere superati. Fece attraversare il torrente ai suoi; poi fece passare i suoi beni. Rimase solo dall’altra parte del torrente. La solitudine permette di ripensare al passato, di meditare su di esso e di coglierne il significato. E se questo viaggio fosse quello della morte...? Prima di affrontare suo fratello, Giacobbe doveva isolarsi. È solo che doveva affrontare l’avversario. Da solo e con le mani nude. Non si trattava solo di spostarsi da una località geografica all’altra, da una sponda all’altra dello Iabbok. Non si trattava solo di passare dalla notte al giorno. Si trattava di passare da un’identità all’altra: dall’uomo Giacobbe al veggente Israele. E questo nella notte più buia.
    Ecco un uomo che lottava con lui. Combatteva fino all’alba e si rifiutava, nonostante tutto, di lasciarlo andare finché questo sconosciuto non lo avesse benedetto. L’uomo e Dio litigavano molto spesso nella Bibbia, ma era raro che venissero a combattere corpo a corpo. Era quindi Dio che appariva all’improvviso sulle sponde dello Iabbok. Per non essere riconosciuto, aveva preso la forma di un uomo.
    Strani pensieri assalirono Giacobbe: Dio non si era forse arreso ad Abramo nella memorabile trattativa che ebbe luogo sul destino di Sodoma e Gomorra? Dio doveva benedirlo a tutti i costi, perché lo aveva maledetto per il modo fraudolento in cui aveva ottenuto la benedizione di Isacco. Dio doveva revocare la sentenza contro di lui e benedirlo.
    Altri pensieri gli vennero in mente: «Ho passato molto tempo ad immaginare stratagemmi per ingannare mio padre, mio fratello e mio suocero. È vero, sono stato ingannatore. Ho comprato la primogenitura di Esaù per un piatto di lenticchie, ho usurpato la benedizione promessa al mio fratello e ho rubato parte dei beni di mio suocero. Quando il mio fratello ulcerato mandò contro di me quattrocento uomini, tremai di paura e pregai Dio di risparmiarmi.
    «A Bethel avevo visto una scala che saliva fino ai cieli aperti e Dio mi aveva rivelato, attraverso questo sogno, il dono della terra di Canaan. Quando sono partito in esilio per sfuggire all’ira di mio fratello che mi aveva ceduto la primogenitura, ho avuto la gioia di incontrare a casa di mio zio Labano la pastorella Rachele. Anche se sono stato ingannato da Labano che prima mi ha dato Leah, ho accettato di lavorare sette anni per avere Rachele come moglie.
    «L’intera storia biblica è stata rovinata da quando Adamo fu cacciato dal paradiso, da quando Caino uccise suo fratello. Fino a poco fa ero in esilio. Quando queste separazioni diventeranno riparazioni?
    «L’astuzia dello sconosciuto, che mi ha lussato il femore, non si rivelò decisiva. Eppure è stato lui a chiedermi: “Come ti chiami?”. Non ho avuto difficoltà a rispondergli. È il vincitore che ha il diritto di chiedere al perdente il suo nome.
    «Non è stato contro un uomo che ho combattuto, ma contro Dio stesso. “Sì, ho visto Elohim faccia a faccia e il mio essere è stato aiutato”. In questa lotta notturna, il mio nome è stato cambiato: ora mi chiamo Israele. “Fammi sapere il tuo nome, per favore”, ho chiesto all’angelo. Ma lui ha risposto: “Perché chiedi il mio nome?” E lì mi ha benedetto.
    «La benedizione mi fu data dopo una lotta. Non c’era bisogno di trucchi o di inganni. “Non sarai più chiamato Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto contro Elohim”.
    «Un nuovo giorno sorge. Dalla lotta con l’angelo, sono uscito vittorioso, ma ferito. Zoppicavo ma ero raggiante di luce. Ogni passo mi ricorderà questa lotta con Dio, il quale ha lasciato il suo segno su di me. Stavo per incontrare e riconciliarmi con mio fratello Esaù. Ho capito che “vedere il suo volto è come vedere il volto di Dio”. Il divino si manifesta nell’umano. Questa fu la condizione per la riconciliazione. I regali inviati a mio fratello furono inutili.
    «Nel combattimento spirituale si forgia l’anima dell’uomo nuovo. Ciò accade con sofferenze. C’è un prezzo da pagare. Dopo la lotta con Dio la bellezza dell’alba che sorse fu incomparabile. La metamorfosi prodotta in me dall’incontro con Dio mi permetterà di avere un nuovo sguardo sul mio fratello. Penuel è ovviamente il volto di Dio, ma questo volto si rivela nel volto del fratello.
    «Volevo assolutamente avere questa benedizione, era pronto a continuare a lottare a lungo per ottenerla. È arrivata quando non me l’aspettavo. Quando si fece giorno l’angelo doveva andarsene. Per ricevere la benedizione, bisogna cercare, lottare, combattere con Dio. Non solo ho ereditato la benedizione, ma ho ereditato un colpo all’anca. Non si esce indenni da un contatto autentico con Dio.
    «L’imperfezione non è un ostacolo alla benedizione, al contrario, ricorda la debolezza e l’infinito bisogno che avevo del perdono. È nella mia debolezza che si realizzò la forza di Dio, ed è vero, è nella debolezza riconosciuta che si trovano le più grandi benedizioni di Dio».
    La luce irruppe nella notte. Le nostre notti oscure, Gesù le ha conosciute, le sentiva anche acutamente, e Dio non lo abbandonò da quando gli fu data la luce della risurrezione all’alba. Il grande Amore di Dio per l’uomo e la sua debolezza gli hanno fatto perdere la sua battaglia...

    (L'Osservatore Romano 5 giugno 2021)

    3. "Il suo nome era un programma: Dio è bontà"

    A Roma l’imperatore Tiberio regnava incontrastato. Il suo viso sottile, un po’ ossuto e dagli zigomi prominenti dava un’impressione di tristezza, rafforzata dalla bocca stretta e dalle labbra serrate. In una provincia lontana e poco nota, la Giudea, un uomo irsuto, dal viso scarno, vestito di pelli di cammello in perfetta aderenza alla tradizione inaugurata dal profeta Elia cominciava a far parlare di sé. Sul suo viso barbuto non compariva alcun segno di tristezza. I suoi occhi penetranti gli conferivano un’aria profetica. Nato miracolosamente da un padre anziano, il sacerdote Zaccaria e da una madre sterile, egli non predicava la ribellione contro Roma che occupava la Giudea, ma i suoi sermoni toccavano i cuori e attiravano folle di persone. Incitava ad una conversione intima più che al cambiamento di strutture politiche. Il suo nome, Giovanni, era un programma perché significava «Dio è bontà».
    Si era stabilito sulle rive del Giordano, dove la tradizione localizzava l’apostolato del profeta Elia. Ad alcuni chilometri a sud, in un centro di spiritualità, gli Esseni predicavano la predestinazione. Giovanni non condivideva la loro ideologia perché richiedeva la conversione, che suppone un minimo di libertà. Somministrava un battesimo di acqua per ricordare che l’alleanza nuova annunciata dai profeti richiedeva una purificazione: «Vi purificherò dalla vostre sozzure e vi darò un cuore nuovo».
    Giovanni, quando veniva interrogato dalle autorità religiose, rispondeva: «Io sono la voce di uno che grida nel deserto preparate la via del Signore». Annunciava la venuta del Regno di Dio che si sarebbe abbattuto sul mondo come un fulmine. Tutti lo chiamavano il Battista perché invitava tutti a tuffarsi nell’acqua per purificarsi nella penitenza.
    La speranza messianica si riaccese improvvisamente nei cuori degli Ebrei che mal sopportavano la presenza di Roma da tutti chiamata per prudenza Edom. Il richiamo del Battista suscitò un vasto movimento penitenziale in tutto Israele: da qualche decennio il paese era diviso su alcune questioni relative all’interpretazione della Scrittura. Il linguaggio crudo del profeta non sembrava adatto ad attirare le folle, eppure esse affluivano e non si meravigliavano quando il Battista urlava: «Razze di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente?».
    Tra quelli che accorrevano ad ascoltare il Battista si trovavano fianco a fianco gli esattori, considerati peccatori pubblici e i soldati. Anche Gesù, un tekton di Nazaret che aveva quasi trent’anni, partì dalla Galilea e si diresse verso il Giordano. Decise di mescolarsi alla folla di penitenti che si immergevano nell’acqua del fiume. Desiderava prendere parte al movimento di conversione del popolo e condividere la speranza di coloro che cercavano il cammino di una autentica liberazione spirituale.
    Quando il Battista lo riconobbe protestò: «Sono io che devo essere battezzato da te e tu vieni da me?». La risposta di Gesù era misteriosa: «Conviene che adempiamo ogni giustizia». Giovanni aveva davanti a sé non un discepolo venuto per ascoltarlo, anche se Gesù si fermò da lui per un po’ di tempo, ma un uomo da cui trasudava il mistero di Dio. Esclamò: «Viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di legare i lacci dei sandali». La grandezza del Messia era tale che Giovanni riteneva di non meritare l’onore di essere il suo più umile servo.
    Quando Gesù uscì dall’acqua ebbe una esperienza spirituale destinata a segnare la sua vita. Lo Spirito di Dio scese su di lui in forma corporea e rimase su di lui. Vide squarciarsi i cieli che da tempo non mandavano più profeti. Lo Spirito planava nuovamente sulle acque per annunciare una nuova Genesi.
    Nei giorni seguenti Gesù e Giovanni leggevano insieme le Scritture, in particolare il profeta Isaia che conteneva quattro carmi su un Servo di Dio che con la sua sofferenza doveva salvare il mondo. Gesù comprese rapidamente che sarebbe stato un maestro del deserto perché il silenzio lo attirava. Sarebbe stato il messaggero dell’amore di Dio presso il popolo. Una forza interiore lo spingeva a comunicare la propria esperienza agli altri.
    Un giorno vedendo passare Gesù dichiarò: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie i peccati del mondo». Si ricordava che Isaia nell’ultimo carme del Servo lo chiamava l’agnello condotto al macello.
    Che fosse Gesù l’agnello pasquale che avrebbe portato la vera libertà a Israele. Giovanni capì che la sua vocazione era di mettersi da parte per lasciar crescere Gesù. Egli era solo l’amico dello sposo, colui che doveva preparare tutto per le nozze dell’agnello. Alcuni discepoli di Giovanni lasciarono il loro maestro per seguire Gesù che partì per la Galilea e annunciava la venuta del Regno di Dio.
    I maestri farisei che vantavano il titolo di saggi avevano stabilito che l’ebreo di tredici anni doveva aderire ai comandamenti. Aveva studiato la scrittura da quando aveva cinque anni. A quindici anni doveva studiare la tradizione orale che il Talmud avrebbe trasmesso. All’età di diciotto anni era pronto per il matrimonio. Poiché la procreazione era il primo comandamento i sapienti disapprovavano il celibato che poteva nascondere una forma di egoismo. Curiosamente da qualche tempo era in aumento il numero dei celibi. I Farisei decisero che il celibato temporaneo era tollerato solo se l’amore della Legge superava l’amore di una ragazza. Giovanni, il figlio del sacerdote Zaccaria, aveva deciso di vivere dedicato totalmente a Dio. La tradizione narrava che in Egitto, quando gli Ebrei erano schiavi del Faraone, alcuni rifiutavano di sposarsi per evitare che i loro figli maschi fossero gettati nel Nilo. Ora che i Romani erano padroni del paese la storia sembrava ripetersi.
    Tutti avevano notato che il celibato non aveva inasprito Giovanni, né lo aveva reso introverso. Una nuova famiglia di discepoli rimaneva con lui e condivideva la sua vita, approfittando del suo insegnamento. Il profeta aveva un aspetto attraente nonostante il suo linguaggio franco e duro, linguaggio che gli costerà la vita. Ovvio, quindi, che critichi anche la condotta del re d’Israele, Erode Antipa, il figlio di Erode il Grande autore della strage degli innocenti, che viveva con la moglie del fratello Filippo, Erodiade, pur essendo il loro un matrimonio regolare e fecondo: una pratica contraria alla legge giudaica. Erode, dunque, imprigionò Giovanni nella fortezza di Macheronte, sul Mar Morto, ma non lo odiava: parlava con lui e quei discorsi lo turbavano. E poi temeva che ucciderlo, data la sua fama, potesse provocare una sommossa. Arrivò il compleanno di Erode e durante la festa, la figlia di Erodiade, Salomè, intraprese una danza in onore del re che ne restò ammaliato e le concesse di chiedergli qualunque cosa, fosse pure la metà del regno. E lei, consultatasi con la madre, chiese la testa di Giovanni. Erode non avrebbe voluto, ma non poteva rifiutare: ormai aveva fatto una promessa. Così il Battista morì, da martire. Non un martire della fede, ma un martire della verità. I discepoli di Giovanni, saputo del suo martirio, ne recuperarono il corpo per seppellirlo.

    (L'Osservatore Romano 12 giugno 2021)

    4. "Desideravo vederti e ho scoperto di essere visto in anticipo da te"

    Gesù con i suoi discepoli stava per entrare nell’oasi di Gerico, ricca di palme e alberi da frutto di ogni specie. «Un po’ di riposo non fa male prima di salire a Gerusalemme», disse. Mentre erano seduti i discepoli non potevano non ricordare le avventure di Giosuè e l’intervento miracoloso di Dio che aveva abbattuto le mura della città. Era la prima città conquistata dalle tribù ebraiche che ne sterminarono gli abitanti. «Dio che ha fatto miracoli continua a fare grandi cose, diceva Giovanni. La prostituta Rahab che aveva aperto le porte alle spie era stata considerata da tutti una santa, ma è permesso di dubitare», continuò l’apostolo. Dio scrive dritto con linee storte. Giovanni ricordò di aver sentito che il re Erode aveva costruito il suo palazzo d’inverno dove trascorreva una parte dell’anno. Il re viveva lì nel passato in compagnia del suo segretario Nicolao di Damasco e di sua sorella Salome. La città del profumo per le migliaia di essenze profumate che ne facevano una sorta di Paradiso, era stata regalata da Marco Antonio a Cleopatra come giardino personale e da lei ceduta ad Erode il Grande che vi costruì un palazzo e ne sfruttò economicamente molte essenze facendo produrre preziosi unguenti. Il balsamo di Gerico era molto pregiato. Ormai il Re era morto. Gesù ascoltava Giovanni e concluse: «Anna, la madre di Samuele, aveva ragione di dire: Rovescia i potenti dai troni».
    Gerico era anche la città della luna, il gioiello verde nel deserto adagiato sotto il livello del mare. Questo miracolo era dovuto al fatto che il profeta Eliseo aveva gettato un po’ di sale nella sorgente d’acqua puzzolente. Quando c’è acqua la vita esplode.
    La città delle palme portò anche in mente ai discepoli la festa dei tabernacoli che ogni anno ricordava la caduta di Gerico, simbolo della distruzione del male. Sette volte i pellegrini giravano intorno all’altare cantando Hoshanna e agitando le palme che tenevano nelle mani. Questo gesto voleva ripetere la presa della città e ricordare che il male è distrutto, ma è ancora presente nel mondo. Gerico era la figura del mondo presente dove il male si circonda con mura potenti. «Ci penseremo il prossimo autunno», dissero i discepoli. Questo messaggio venne illustrato concretamente nell’incontro che i discepoli stavano vivendo con Gesù.
    Gerico era occupata dai Romani. Visto che i Romani facevano strade e grandi costruzioni — basta pensare ai lavori del Tempio a Gerusalemme o a quelli dell’ippodromo di Gerico — facevano pagare le tasse a tutti gli abitanti. Ma avevano collaboratori tra gli Ebrei che erano esattori di tributi. A Gerico c’era un pubblicano, piccolo di statura di nome Zaccheo, esoso e detestato, che voleva vedere Gesù e per vederlo salì su un sicomoro. Perché un sicomoro in una terra dove c’erano tanti altri alberi? Il legno del sicomoro veniva usato per i sarcofagi. Intanto era un legno che pur essendo morbido non veniva attaccato dai tarli ed era di così lunga durata che si incontrava nelle antiche tombe egiziane. Ma soprattutto questo legno era considerato come il grembo della dea madre in cui veniva deposta la salma per il suo viaggio nell’aldilà. Quindi era il simbolo di una sorta di rigenerazione.
    Quando Gesù giunse sotto l’albero, si fermò e disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Gli apostoli, Pietro per primo, cominciarono a protestare. «Maestro non sai che Zaccheo è un capo dei pubblicani che fa soffrire il nostro popolo. Basta che hai chiamato Levi, uno di loro». Gesù rispose: «Pietro, bisogna andare in profondità: tu devi vedere un uomo dove gli altri vedono solo un delinquente. Bisogna cogliere innanzitutto in ogni uomo la sua condizione di essere umano, senza nutrire alcuna prevenzione. Quest’uomo si chiama Zakkai. Paradossalmente, il suo nome significa “puro, innocente”: ironia della sorte oppure un altro particolare che troverà fra poco la sua spiegazione. Svolge il mestiere impuro dell’ingiusto e odiato esattore delle tasse per conto dell’impero romano. È un peccatore pubblico, riconosciuto tale da tutti. Le persone emarginate e condannate sono nient’altro che il segno manifesto della condizione di ogni essere umano. I peccatori pubblici, sempre esposti al biasimo altrui, sono più facilmente indotti a un desiderio di cambiamento. Zaccheo, che non ha pace, è consapevole di essere peccatore e sa di avere bisogno del perdono: non ha meriti da vantare». Camminavano poi in silenzio fino alla dimora del pubblicano. Zaccheo apriva la strada.
    La sua casa era un piccolo palazzo. Una fontana d’acqua portava un po’ di freschezza in questa città calda. A tavola i servi di Zaccheo portarono brocche d’acqua per lavare i piedi degli ospiti. Dopo un istante arrivarono altri servi con cibi deliziosi e bevande squisite. Mangiarono in silenzio dopo aver reso grazie a Dio. Anche Zaccheo disse: «Baruk ata: Benedetto sei tu Signore». Dopo il pranzo e dopo aver gustato i datteri deliziosi e i frutti del sicomoro Zaccheo disse: «Maestro tu sai come è difficile la nostra situazione al momento presente. Il nostro paese occupato non ce la fa più. Se vogliamo vivere dobbiamo in qualche modo collaborare con questi stranieri che sono più forti di noi. Ogni giorno tasse nuove, una volta per il Tempio, una volta per una fortezza...
    «Maestro volevo vederti a tutti i costi. Sono salito su un sicomoro, perché tu stavi per passare di là. Ho voluto precederti per diventare un discepolo che ti segue e sta sempre dietro a te. Desideravo vederti e ho scoperto di essere visto in anticipo da te. Tu sei un profeta. Ecco Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto. Ero abituato a dare banchetti e ad accogliere persone in casa mia per fare affari. E qui sto per compiere l’affare della mia vita». Gesù concluse: «Anche tu sei un vero figlio di Abramo. Zaccheo il piccolo è diventato Zaccheo il grande. L’impuro è stato purificato. Oggi la salvezza è venuta per te».
    Giovanni guardava il maestro senza capire. Gesù fissandolo, citò un versetto del libro della Sapienza: «”Non guardi ai peccati degli uomini, aspettando la loro conversione” (Sap 11, 23). Il perdono offerto ha preceduto la conversione; non è stata la conversione che ha causato il perdono. Mettitelo in mente».
    Gesù ringraziò Zaccheo prima di riprendere la strada. Zaccheo voleva fare una offerta a Gesù per il gruppo dei discepoli. «Il Padre del cielo da il cibo agli uccelli e a tutti», rispose il maestro. Ma Giuda il tesoriere si avvicinò e prese la borsa che Zaccheo aveva preparato.
    Usciti dalla casa si sentivano i commenti da tutte le parti: «È entrato in casa di un peccatore». Gesù rispose: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». «Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori».
    Sant’Ambrogio meditando su questo testo scrisse: «Chi potrebbe disperare di sé dal momento che giunse alla fede anche Zaccheo, lui che traeva il suo guadagno dalla frode?» (Esposizione del vangelo secondo Luca 8, 86).

    (L'Osservatore Romano 19 giugno 2021)

    5. "Giairo, il capo della sinagoga"

    Nelle sinagoghe si raccontava la storia biblica aggiungendo dettagli non presenti nel testo per renderlo più vivace. La saggezza accumulata nei secoli non può essere cancellata con un tratto di matita
    Leggere la Bibbia attraverso i suoi personaggi è un metodo antico, almeno quanto la Bibbia stessa. Infatti, in uno dei testi sapienziali dell’Antico Testamento, il libro del Siracide, una lunga sezione viene dedicata agli “uomini illustri” della Bibbia (Sir 44-50). Anche nel Nuovo Testamento, il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei fa l’elogio degli antenati nella fede. Questo significa che la narrazione biblica non è un elenco di eventi, e nemmeno un catalogo di sentenze teologiche, ma un intreccio di storie di persone, con le loro relazioni, le loro decisioni e la loro vita. Nella Genesi il tempo del riposo di Dio è quello dell’avvento degli esseri pensanti e delle figure diversificate.
    Gesù era sempre il benvenuto a Cafarnao. Era capace di parlare semplicemente alla gente e sapeva mettersi alla portata di tutti. Le sue parabole riflettevano come in uno specchio la vita quotidiana. Quando parlava del Re che invitava al banchetto dato nel suo palazzo, tutti sapevano che il Re era Dio e che il palazzo era il Tempio dove tutti erano invitati. Le parole di Gesù erano accolte dalla gente semplice come la terra assorbe di notte la rugiada benefica.
    Era stato nominato capo della sinagoga un dignitario istruito e stimato di nome Giairo. L’esorcismo operato da Gesù nella sinagoga il giorno di shabat lo aveva sconvolto. «Quell’uomo ha un potere eccezionale», ripeteva tra sé. Dopo molte esitazioni andò a trovare il maestro e lo supplicava di recarsi in casa sua, perché la sua unica figlia stava lottando tra la vita e la morte. Era una soluzione disperata e sua moglie era fuori di sé. Di più il clima caldo della zona non aiutava a trovare la guarigione. Rendeva nervosi tutti. Il maestro accettò l’invito del capo della sinagoga. Le persone che si accalcavano attorno a lui formavano una vera e propria barriera, tale da rallentarne i passi. Gesù custodiva la calma.
    Mentre il capo della sinagoga parlava con Gesù e gli spiegava la situazione, un servitore, proveniente dalla sua casa, gli recò la ferale notizia: «È troppo tardi. Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro?».
    Quando Gesù udì queste parole, il suo viso si fece duro come la pietra. Guardò negli occhi il capo della sinagoga e gli disse: «Non temere, soltanto abbi fede». Giunto all’abitazione, il maestro prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Permise ai genitori della fanciulla di accompagnarlo. Disse al padre: «La bambina non è morta, ma dorme». Alcuni tra i presenti, sentendo queste parole, si fecero beffe di lui.
    Gesù ordinò di far uscire le prefiche che stavano già intonando le lamentazioni funebri. Quando fu nella stanza prese la mano della ragazza dodicenne e le ordinò: «Talitha qum: Fanciulla, alzati». Tra la sorpresa generale ella si levò e si mise a camminare. Gesù la rese a suo padre. Gli astanti furono colpiti da stupore, compresi gli scettici che avevano sbeffeggiato il maestro. Gesù invitò i genitori a dar da mangiare alla loro figliola per convincerli che era viva. Si allontanò chiedendo che la notizia di ciò che era accaduto non fosse divulgata in modo scandalistico.
    Queste raccomandazioni tuttavia non servirono a niente. La nuova si diffuse rapidamente in città: una forza straordinaria abitava nel rabbi di Nazaret che era addirittura capace di richiamare in vita i morti. Dio gli aveva affidato la chiave delle tombe come nel passato aveva fatto con il profeta Elia.
    Il capo della sinagoga non sapeva come ringraziare Gesù. Il maestro lo invitò a lodare Dio e a rileggere le Scritture che commentava ogni shabat, in modo particolare il profeta Osea: «Venite, ritorniamo all’Eterno, perché egli ha lacerato, ma ci guarirà; ha percosso, ma ci fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita, il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo alla sua presenza».
    Pietro, Giacomo e Giovanni si guardavano negli occhi: «Chi è questo? Da dove gli viene questa potenza?». Intanto dovevano proteggere il loro maestro che tutti volevano toccare ed avvicinare. Le loro domande li seguiranno fino a Naim, quando il maestro risuscitò il figlio di una vedova che portavano al cimitero, e quando a Betania il maestro richiamò alla vita l’amico Lazaro che da tre giorni stava nella tomba dicendo: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà».
    Tre personaggi furono richiamati dalla morte alla vita dalla parola del Maestro. Il primo era nella casa, il secondo sulla via del cimitero e il terzo nella tomba. Il profeta Daniele aveva annunciato la risurrezione finale per i giusti. Ma le sue parole non erano molto chiare. I Sadducei non credevano nella risurrezione dei morti. Giairo ci credeva. Chi aveva ragione? Esiste veramente un’altra vita?

    (L'Osservatore Romano 26 giugno 2021)

    6. "Giuseppe in Egitto"

    Con l’arrivo di Giuseppe in Egitto comincia un nuovo capitolo della storia di Israele. Due mondi si incontrano. Israele rimarrà segnato profondamente da questo incontro.
    Il versetto di Genesi 39, 1 merita attenzione: «Giuseppe fu fatto scendere in Egitto», dice il testo. Questo brano espresso al passivo significa che Giuseppe fu forzato di scendere in Egitto. La discesa significò una umiliazione perché fu venduto come schiavo. Il Midrash Tanhuma propone una lettura originale: «Non leggere “fu fatto scendere”, ma fece scendere suo padre e le tribù in Egitto». Giuseppe è quello che ha provocato l’esilio del suo popolo. In Genesi 46, 4 Dio rassicura Giacobbe che non voleva scendere in Egitto: «Io scenderò con te in Egitto e ti farò risalire». Di più Giuseppe fece scendere la Presenza di Dio legata alla terra d’Israele in Egitto. Un’ultima lettura viene proposta dal Talmud, Sota 13a: «Non leggere “Giuseppe fu fatto scendere”, ma fece scendere dal loro piedistallo gli astrologi del Faraone, perché fu più forte di loro. Faraone disse: Chi è Dio? Non conosco Dio e non libererò Israele (Es 5, 4) ma dovette accettare la realtà». Uno schiavo fu capace di dare un orientamento rigeneratore alla civiltà. Le divinità egiziane furono vinte. La mitologia lasciò il posto alla storia.
    Giuseppe divenne lo schiavo di Potifar che era un eunuco e comandante delle guardie, ma era incapace di risolvere i suoi problemi personali. Sua moglie gli dettava le sue volontà. Dio era con Giuseppe, perché Giuseppe era con Dio. Il carisma di Giuseppe gli venne dalla sua fedeltà ai valori della sua identità. Mise il suo talento al servizio della sua nuova patria. Potifar si rese conto rapidamente del valore di Giuseppe. «Così egli lasciò tutti i suoi averi nelle mani di Giuseppe e non gli domandava conto di nulla, se non del pane che mangiava», dice Genesi 39, 6. Per il Targum, la versione sinagogale della Bibbia, il pane è un eufemismo per parlare della sua moglie. La bellezza di Giuseppe diventerà fonte di inquietudine per lei. Perché questa tentazione? Secondo la tradizione, Giuseppe riferiva a suo padre le cattive usanze dei suoi fratelli riguardo alle loro serve. Per questo anche lui fu tentato in questo campo. Giuseppe rifiutò le tentazioni, perché non voleva peccare contro Dio. Secondo Genesi 39, 12-13 Giuseppe si mise in una situazione pericolosa, ma abbandonò la sua veste in mano alla seduttrice e scappò. Il suo vestito era il simbolo della sua identità. Ebbe la forza di resistere pensando a suo padre. La moglie di Potifar fascinata da Giuseppe, nel suo furore lo rigettò proiettando su di lui le proprie mancanze e chiese per sé l’innocenza della sua vittima. Calunniato, venduto, gettato in prigione, Giuseppe rimase silenzioso come il Servo di Isaia. Quell’uomo che aveva sognato che gli astri si prostravano davanti a lui, si ritrovò in prigione. Il suo successo presso Potifar si ripeterà nella prigione perché Dio era con lui. Interpreterà i sogni del panettiere e del coppiere che erano nei guai. Al coppiere annuncerà la sua liberazione, chiedendogli di ricordarsi di lui. Quattro volte parlerà della coppa, come se volesse accennare alle quattro coppe del Seder pasquale. Queste quattro coppe ricorderanno la condotta di Giuseppe che ha meritato la liberazione dall’Egitto.
    Poi ci fu il sogno del Faraone e la fine delle prove di Giuseppe. L’incubo del Faraone era il Nilo, la fonte della prosperità dell’Egitto. Alcuni elementi incontrollabili uscivano dal fiume: vacche magre che divorano le vacche grasse, poi spighe sane che furono inghiottite dalle spighe magre. Il destino economico del suo paese era in gioco. L’universo del Faraone sembrava crollare. Faraone era l’incarnazione della divinità, il segno visibile dell’armonia cosmica. Ogni perturbazione economica minacciava la struttura della società egiziana nelle sue fondamenta. Mentre Giuseppe sognava il cielo e la terra, Faraone sognava il Nilo. Giuseppe fu venduto a causa dei suoi sogni e divenne re a causa dei sogni del Faraone che lo liberò dalla fossa. Non fu Giuseppe ad interpretare i sogni del Faraone, ma Dio. «Quello che Dio fa lo mostra al Faraone». Più tardi un altro Faraone risponderà a Mosè: «Io non conosco Yhwh e non libererò Israele». Giuseppe non si accontentò di spiegare il sogno del Faraone, ma propose soluzioni pratiche per risolvere la crisi annunciata. Diventò consigliere economico. Governare significa prevenire. Poi venne elevato alla dignità regale: ricevette un nome egiziano e sposò la figlia del sacerdote di On. Il destino di Giuseppe venne capovolto.
    Finalmente Giuseppe grazie alla sua politica riuscì a salvare l’Egitto e Israele dalla carestia. Alcuni anni dopo la fame spinse i suoi fratelli, eccetto Beniamino, a cercare cibo in Egitto. Giuseppe, non riconosciuto, li fece incarcerare e, tenendo in ostaggio uno di loro chiese che tornassero a trovarlo insieme al loro fratello Beniamino. Giuseppe liberò tutti i fratelli, ma con un espediente fece accusare Beniamino per trattenerlo. Giuda si offrì al suo posto ricordando che il padre avrebbe potuto morire alla notizia della perdita di un altro figlio, tanto era stato il dolore per la scomparsa del primo figlio di Rachele. Giuseppe, vedendo il cambiamento dei fratelli, decise di perdonare e di accogliere i suoi fratelli insieme al vecchio padre Giacobbe.
    Il tema del libro della Genesi era di insegnare agli uomini a diventare fratelli. I fratelli nemici sono ora uniti da vincoli di reciproca solidarietà nella cura amorevole per il loro anziano padre. L’amore fraterno ha rimosso l’odio. L’operatore di questo miracolo fu Giuseppe. La storia si ripete: la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo.
    Melitone di Sardi nella sua lettura tipologica della Bibbia considera Giuseppe, venduto in Egitto dai suoi fratelli, come una prefigurazione di Cristo. Questa lettura messianica è radicata infatti nella tradizione della storia di Giuseppe. L’antagonismo tra Giuseppe e Giuda appare nel racconto di Genesi 37-50. Di più, certi circoli ebraici avevano sottolineato l’esagerata apertura ai pagani di Giuseppe che era un esperto di magia egizia e aveva sposato la figlia del sacerdote di On. Il destino di Giuseppe era segnato dalla vicinanza al mondo esterno non ebraico. Nascerà l’idea di due messia: il messia di Giuda e il messia di Giuseppe. Nella presentazione dei due messia, il figlio di Giuseppe cerca di realizzare il suo progetto aprendosi all’Egitto, simbolo delle nazioni, mentre Giuda, pensando al benessere della sua famiglia, diventa il modello del messia che irradia da Israele.
    I Vangeli conoscono l’idea dei due messia. Cercano di dimostrare che Gesù unisce in sé gli aspetti dei due messia. Nelle genealogie di Luca e Matteo, Gesù discende da Giuda e da Davide, ma suo padre si chiama Giuseppe. Gesù viene da Nazareth, situata nella Galilea delle genti, ma è nato a Betlemme, di Giudea, luogo di origine di Davide. In alcuni passaggi Gesù appare come una riabilitazione del messia figlio di Giuseppe, contro un messia figlio di Giuda. Nel racconto di Genesi Giuda spicca tra i dodici fratelli, nei Vangeli, è Giuda che viene emarginato tra i dodici. In Genesi 37, 27 Giuda propone di vendere Giuseppe; nei Vangeli, è anche Giuda che consegna Gesù per 30 sicli d’argento. In Genesi 37 la decisione di vendere Giuseppe è seguita da un pasto per i fratelli; nei Vangeli, è durante l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli che Giuda si rivela come un avversario di Gesù.
    Matteo, il Vangelo giudeo-cristiano, presenta Gesù che entra a Gerusalemme seduto su una asina e un puledro, simboli del Messia di Davide e del Messia di Giuseppe.

    (L'Osservatore Romano 3 luglio 2021)

    7. "Marta e Maria. Nella casa dell’amicizia"

    A Betania una casa aveva una reputazione strana. Vi abitavano due sorelle che non erano sposate. Il loro fratello anche lui era celibe. A chi lo criticava Lazaro rispondeva: Andate nel deserto di Giuda e vedrete quanti uomini non sono sposati. Il Regno di Dio è vicino.
    Un rabbi che entrava nella casa di due donne era sovranamente libero di andare dove lo portava il cuore. Però i Farisei non incoraggiavano gli uomini a parlare liberamente alle donne, nemmeno alla propria moglie. Parlare troppo alle donne allontanava dallo studio della Torah.
    Nella casa di Marta e Maria Gesù trovava quell’accoglienza e ospitalità che gli era stata rifiutata in Samaria.
    Marta e Maria avevano un carattere differente. Si completavano molto bene. Tutte e due aspettavano la visita di Gesù nella loro casa, che il maestro chiamava la casa dell’amicizia. “Passare dall’affanno di ciò che devo fare per Lui, allo stupore di ciò che Lui fa per me”, questo amava ripetere Marta dopo ogni visita del maestro. “Passare da Dio come dovere, a Dio come desiderio”, ripeteva Maria che amava sedersi ai piedi di Gesù per ascoltare le sue parole. Sapienza del cuore di donna, intuito che sceglie ciò che fa bene alla vita e regala pace, libertà, orizzonti e sogni: la Parola di Dio.
    Maria, che ben conosceva Gesù, sapeva ancora ascoltarlo stupefatta; sapeva incantarsi ancora, come fosse la prima volta. Il miracolo di Maria ancora una volta consisteva nel bere le sue parole e i suoi silenzi e contemplare i suoi occhi. Essa sapeva che Gesù non cercava servitori, ma amici; non cercava delle persone che facessero delle cose per lui, ma gente che gli lasciasse fare delle cose grandi. “Ha fatto grandi cose in me l’Onnipotente”, ripeteva anche lei. Il centro della fede è ciò che Dio fa per me, non ciò che io faccio per Dio.
    Maria dopo ogni visita di Gesù diceva alla sorella: “Il primo servizio da rendere a Dio è l’ascolto. È dall’ascolto che comincia la relazione, perché ti prende una sorta di contagio quando sei vicino a un maestro come Lui, un contagio di luce quando sei vicino alla luce”. Marta rispondeva: “Tu hai trovato un nido e un cuore in ascolto, hai un rabbi tutto per te, per te una donna, a cui nessuno insegnava”.
    A Maria doveva bruciare il cuore quel giorno. Da quel momento la sua vita era cambiata. Maria era diventata feconda, grembo dove si custodiva il seme della Parola, apostola: inviata a donare, ad ogni incontro, ciò che Gesù le aveva seminato nel cuore.
    “Marta, Marta tu ti affanni e ti agiti per troppe cose”, aveva detto Gesù, affettuosamente raddoppiando il nome, non contraddicendo il servizio ma l’affanno, non contestando il cuore generoso di Marta, ma l’agitazione.
    Era attento a un troppo che è in agguato, a un troppo che può sorgere e ingoiarti, troppo lavoro, troppi desideri, troppo correre. Prima importava la persona poi le cose. Sedersi ai piedi del maestro permetteva di imparare la cosa più importante: distinguere tra superfluo e necessario, tra illusorio e permanente, tra effimero ed eterno.
    Gesù non sopportava che Marta fosse impoverita in un ruolo di servizio marginale, che si perdesse nelle troppe faccende di casa: “Tu, le diceva Gesù, sei molto di più. Tu non sei le cose che fai; tu puoi stare con me in una relazione diversa, condividere non solo servizi, ma pensieri, sogni, emozioni, sapienza e conoscenza”.
    Gli atteggiamenti di Maria e di Marta erano complementari. Marta non poteva fare a meno di Maria, perché il suo servizio aveva un’unica sorgente che faceva grande il cuore. Maria non poteva fare a meno di Marta perché non c’era amore di Dio che non doveva tradursi in gesti concreti. L’amica e l’ancella erano due modi d’amare, entrambi necessari, i due poli di un unico comandamento: “Amerai il Signore tuo Dio e amerai il tuo prossimo”. Un’unica beatitudine contava: “Beati quelli che ascoltano la Parola, beati quelli che la mettono in pratica”. Le due sorelle si tenevano per mano, e quando nulla separerà l’uomo da Dio, allora nulla separerà l’uomo dal servizio all’uomo (Lc 10, 38-42). Due atteggiamenti sull’accoglienza di Gesù sono possibili, il servizio generoso per l’ospite gradito e di riguardo e l’ascolto attento alle parole del Signore. Marta svolgeva il ruolo tradizionale, ed è perfetta (Pr 30), della padrona di casa e della massaia, Maria, al contrario, inaugurava un ruolo nuovo ed essenziale per una donna: stare ai piedi del Maestro come una discepola (At 22, 3). In realtà Marta dava più importanza all’esteriorità che non all’ascolto di cui aveva perso il senso. Conseguentemente il senso del suo affannarsi: è preoccupata, ansiosa, tesa, incerta, impaziente, pungente. Marta è l’immagine di chi vive momenti di timore, di paura senza sapere più donare un sorriso e senza sapere quale sia esattamente la sua identità (o meglio, solo quella che le hanno appiccicata addosso). L’ascolto di Dio era per Maria la roccia della sua salvezza: «Tu, o Dio, roccia della mia salvezza» (Sal 89, 27). La lieta notizia che deriva dalla meditazione consiste nel fatto che Dio ha una Parola per me, e posso ascoltarla, nel silenzio e nella pace, da tale ascolto sono nutrita, cresco nella fede e mi realizzo come essere umano: “Questa parte migliore non ti sarà tolta”.
    Una teologia dell’umiltà di Dio corre trasversalmente alle sacre Scritture e ritaglia storie e personaggi che rinviano allo specchio umanissimo della fragilità. Tutti compaiono con caratteri umani, né perfetti, né perfettamente virtuosi. La Bibbia non narra la storia degli angeli, ma degli uomini.
    Senza la Bibbia finirebbero per sfuggire non solo le grandi e piccole opere della cultura letteraria occidentale, ma anche quelle artistiche e anche quelle musicali.
    La battaglia per la Bibbia e quella per la cultura potrebbero rivelarsi la stessa lotta: quella contro l’ignoranza e contro i fondamentalismi che ormai corrono agili nel nostro mondo. Un approccio critico ci insegna l’umiltà di fronte alla parola di Dio.

    (L'Osservatore Romano 10 luglio 2021)

    8. Mosè e il Faraone. Sulle rive del mare dei Giunchi

    Koraḥ e Dathan sapevano bene che il Faraone si sarebbe ostinato a non credere nella vittoria del Dio degli Ebrei. La morte del suo primogenito l’aveva costretto a lasciar partire gli Ebrei, ma si sarebbe presto pentito di quel momento di debolezza e avrebbe inviato spie alle loro calcagna. Sarebbero davvero tornati dopo tre giorni, come avevano giurato? Il Faraone era troppo vecchio e debole per guidare le truppe in battaglia. Ma bisognava vendicare l’onore dell’Egitto. Un sostituto del Faraone prese in mano la faccenda e l’esercito avanzava verso Baal-Zefon dove gli Egiziani sapevano che gli Ebrei attendevano un’occasione per passare.
    Verso sera, gli Ebrei scorsero nubi di polvere che si alzavano come fumo nel deserto e compresero presto che si trattava dei carri del Faraone lanciati al loro inseguimento. Tutto l’accampamento entrò in effervescenza. Tutti si spingevano nervosamente. Mosè, al centro dell’accampamento, restava calmo e fiducioso. Sapeva che gli Egiziani di sarebbero lanciati al loro inseguimento, ma che Dio, che era un guerriero valoroso, avrebbe loro mostrato il suo primato. Ma come sarebbe arrivato l’aiuto? Nell’accampamento, mani si alzavano contro di lui: «Sapevamo che sarebbe andata a finire così», urlava Dathan. «Forse perché non c’erano abbastanza sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto?». Koraḥ aggiunse: «Ti abbiamo detto: Serviamo gli Egiziani. Era meglio obbedire loro piuttosto che perire in pieno deserto. Dio ha perdonato dieci volte al Faraone e dieci volte egli lo ha rinnegato. Forse lo perdonerà l’undicesima volta?». Mosè si assunse le sue responsabilità, respinse Dathan e Koraḥ e gridò con voce forte: «Vedrete la salvezza del nostro Dio. Egli combatterà per noi. Mantenete la calma e attendete». Tornò la calma. Allora, Mosè si allontanò e si mise in ginocchio davanti alle onde che si gonfiavano e invocò Dio. La risposta arrivò rapidamente: «Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto. Io renderò ostinato il cuore degli Egiziani ed essi inseguiranno gli Israeliti».
    Il galoppo dei cavalli si avvicinava. Le nubi di polvere diventavano più dense. Una crescente oscurità non permetteva più agli Egiziani di vedere gli Ebrei. Il capo dell’esercito egiziano diede ordine di scendere a terra per la notte. Tuttavia, le stelle splendevano di una luce tale che il cielo ne era tutto illuminato.
    Mosè alzò il bastone sul mare. Un vento orientale cominciò a soffiare fortemente. Il luogo del passaggio era situato al livello dei laghi Amari, e comunicava col mar Rosso. Si era all’equinozio di primavera, al tempo dei grandi flussi e riflussi del mare. Il vento potente abbassò il livello dell’acqua in occasione di una bassa marea, e una sorta di via di terra, di pietra o sabbia emerse, circondata dall’acqua da ogni lato.
    Le acque si separarono e formarono due muraglie a destra e a sinistra. Si sarebbe detto che l’acqua fosse divenuta viscosa. Tra le due muraglie, il suolo era piatto. Le acque rimasero così per tutta la notte. Gli Israeliti contemplarono quello spettacolo gigantesco con terrore e compresero che qualcosa di miracoloso stava accadendo. Lo stesso Mosè contemplava e attendeva. Poi disse al popolo di avanzare nella palude profonda tra le due muraglie e si pose al bordo come una colonna di marmo per indicare in che modo gli Israeliti dovevano entrare. Erano degni del miracolo? Se non entravano è perché erano rimasti asserviti.
    Sulle rive del mare dei Giunchi si formarono quattro partiti. Uno diceva: «Scendiamo nel mare». L’altro diceva: «Ritorniamo in Egitto». Uno diceva: «Schieriamo contro di loro le formazioni di combattimento». L’altro diceva: «Lanciamo grida contro di loro per seminare confusione tra le loro schiere». Al partito che diceva: «Scendiamo nel mare», Mosè disse: «Non abbiate paura. Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi». Al partito che diceva: «Ritorniamo in Egitto», Mosè disse: «Non ritornate e non rivedrete mai più gli Egiziani». Al partito che diceva: «Schieriamo contro di loro le formazioni di combattimento», Mosè disse: «Non combattete, perché la vittoria verrà da Dio». Al partito che diceva: «Lanciamo grida contro di loro», Mosè disse: «Tacete. Rendete gloria a Dio ed esaltatelo».
    Ed ecco che il miracolo avvenne. Un uomo della tribù di Beniamino balzò dalla folla portando sua moglie e il suo bambino. Un secondo seguì, poi dieci, infine centinaia. Una nube si pose tra Israele e gli Egiziani: essa illuminava gli uni e sprofondava nelle tenebre gli altri. Mosè teneva in mano il bastone glorioso sul quale era inciso il nome di Dio e quello dei Patriarchi e delle matriarche. Il loro merito era presente e aveva reso possibile l’intervento di Dio. Giosuè attraversava pieno di stupore e trattenendo il respiro. Gli Egiziani che si risvegliarono videro lo spettacolo. Era Ra ad aver preparato per loro un passaggio in mezzo al mare, dicevano. Non esitarono un istante prima di entrare nelle acque. I volti dei cavalieri ardevano come torce. Mosè sentì di nuovo la voce di Dio: «Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri». Mosè stese la mano sul mare. I carri degli Egiziani si impantanavano e affondavano. Erano presi in trappola fra le due muraglie che stavano per inghiottirli. Mosè cadde in ginocchio e gridò: «Il Signore è un guerriero valoroso. I carri del Faraone sono stati inghiottiti nel mare». Dio si volse verso gli angeli che partecipavano al canto: «I miei figli egiziani che ho creato sono stati inghiottiti nel mare e voi cantate. Abbiate pazienza. Abramo liberato dalla fornace non ha cantato. Isacco liberato dal coltello non ha cantato. Giacobbe liberato dall’esilio non ha cantato». Gli angeli smisero allora di cantare.

    (L'Osservatore Romano 24 luglio 2021)

    9. La Dormizione di Maria a Gerusalemme

    Non tutti i mali vengono per nuocere. La tomba di Maria nella valle del Cedron era nota ed era venerata da secoli. Questa tomba tradizionale era ricoperta da gessi e rivestita da tendaggi secondo il gusto orientale. Era permesso di dubitare della sua autenticità. Nel 1972 dopo le piogge torrenziali che avevano inondato la valle del Cedron, Padre Bagatti, direttore dello Studium Biblicum Franciscanum, ha potuto fare un’esplorazione della tomba della Vergine sull’invito degli armeni e degli ortodossi. L’acqua che aveva inondato la Chiesa fece cadere il gesso che copriva la tomba di Maria e la roccia apparse. La sua altezza variava tra 1 metro 60 e 1 metro 80. La tomba aveva tutte le caratteristiche delle sepolture ad arcosolium del primo secolo. Questo monumento era stato separato delle tombe vicine ritagliando la roccia intorno nella collina. Le esplorazioni hanno permesso di trovare tracce delle sepolture distrutte dagli architetti bizantini al lato nord del monumento. Questi resti corrispondono alla forma delle tombe del primo secolo che si trovano nella valle del Cedron.
    L’archeologo deve sempre studiare le fonti letterarie contemporanee. Ora queste fonti letterarie sono costituite dagli apocrifi, perché la Scrittura basata sul Kerygma non parla della morte di Maria. Agli apocrifi va applicato il metodo storico-critico come a tutti i testi dell’antichità. L’apocrifo greco della Dormizione di Maria viene completato da alcuni frammenti in lingua siriaca. Questi frammenti, nel descrivere la tomba di Maria, parlano di un insieme sepolcrale di tre camere.
    Il transitus siriaco C pubblicato da W. Wright1 e il transitus D pubblicato da E. Wallis Buge2 ripetono che c’erano tre grotte: la terza in fondo alle altre due era doppia. Nessuno era stato deposto là prima.
    Gli scavi del Bagatti hanno permesso di confermare l’esattezza del transitus siriaco e delle tre grotte. A sinistra della tomba venerata, l’archeologo scoprì una stanza che faceva parte del complesso funebre e che fu tagliata per mettere in evidenza la terza grotta dove il corpo di Maria fu introdotto.
    È la parte più ritirata che ricevette su un banco di pietra il corpo di Maria. È soltanto più tardi, quando i cristiani della Gentilità prenderanno il santuario, che la tomba di Maria sarà isolata dalle sepolture vicine e circondata da una chiesa.
    Quando nel luglio 1973 le lastre di marmo che coprivano la tomba furono tolte si scoprì il banco roccioso che aveva conservato la sua superficie piana e unita. I buchi che vi si vedono sono stati scavati dai fedeli avidi di reliquie. I crociati intendevano proteggere il banco roccioso3.
    Per conoscere il Testamento di Maria abbiamo un apocrifo giudeo-cristiano che si trova nella biblioteca del Vaticano, Fondo greco 1982. Non è l’unico caso in cui gli apocrifi hanno ispirato i liturgisti. La festa della Natività di Maria celebrata l’8 settembre non si spiega senza il ricorso al Protovangelo di Giacomo. Esiste una versione etiopica dell’apocrifo della Dormizione che ha integrato passi interi di midrashim ebraici.
    Secondo la versione greca dell’apocrifo La Dormizione, Maria ricevette l’ordine di recarsi al Monte degli Ulivi dove l’angelo le affidò una palma e le annunciò che fra tre giorni avrebbe dovuto lasciare il corpo. Maria aveva chiesto al figlio di avvertirla prima della morte e di non mandare l’angelo della morte a farle “gustare la morte”. E così avvenne: l’angelo comparve a Maria annunciandole il prossimo trapasso mentre teneva in mano un ramo di palma. Nell’ora stabilita, mentre gli apostoli erano arrivati presso Maria portati da nubi di gloria, Pietro guidò la preghiera sviluppando il simbolo della lucerna perché la lucerna di Maria aveva riempito l’universo della luce di Cristo. Tutti i partecipanti accesero una lucerna a tre becchi e Pietro ne spiegò il simbolismo. Il corpo, l’anima e lo spirito devono rimanere accesi per permettere a ciascuno di entrare nella stanza delle nozze. Nel grembo della Vergine il Verbo fatto uomo ha dimorato dal momento del concepimento per opera dello Spirito fino alla nascita. Nella sua anima il Signore ha dimorato sempre, dal primo istante del concepimento di Maria. Non solo una parte, una particella dell’umano sarà salvata ma tutta l’umanità: spirito, anima e corpo.
    Verso l’ora terza Gesù venne in persona con una moltitudine di angeli per accogliere l’anima di Maria. Prima dell’arrivo del Signore un profumo intenso si diffuse nella casa di Maria e fece addormentare tutti eccetto le tre vergini presenti.
    Maria fece la sua ultima preghiera. «Ti benedico perché hai fatto quello che mi hai promesso. Non hai rattristato il mio spirito. Chi sono io per essere stata giudicata di tanta gloria? Detto questo, completò la sua vita terrena con il volto sorridente al Signore» (R 34).
    Allora Gesù le si avvicinò, diede un bacio a sua madre, come Dio aveva dato a Myriam, la sorella di Mosè nella tradizione giudaica, e prese la sua anima che affidò all’arcangelo Michele. L’anima, che gli artisti rappresenteranno sotto la forma di un bambino che Gesù teneva nelle sue braccia, fu portata subito nel cielo, mentre il corpo fu trasportato nella valle del Cedron dove rimase tre giorni. Maria non ebbe un privilegio superiore a quello del suo figlio. Dopo tre giorni gli angeli vennero a prendere il corpo di Maria che fu portato nel cielo e radunato all’anima sotto l’albero della vita. Anche se la definizione del dogma proclamato da Pio XII nel 1950 non parla esplicitamente di morte di Maria, l’apocrifo lo dice espressamente.
    I simboli ripresi nell’apocrifo greco (la palma, la lampada, il profumo, le nubi di gloria) sono illustrati nella festa ebraica di Sukkot che nel giudaismo annunciava la risurrezione dei corpi. La festa durava sette giorni. Questo dettaglio viene ripreso nell’apocrifo. Tre giorni prima Maria riceve l’annuncio della sua morte, per tre giorni gli apostoli rimangono a conversare e pregare assieme a lei. Infine, il quarto giorno, il Signore viene.
    Maria è la nuova Eva perché il suo corpo viene deposto sotto l’albero della vita (R 48). Ringrazia Gesù perché è stata giudicata degna del bacio della stanza nuziale. La Chiesa nuova Eva è prefigurata in Maria. La donna è stata creata per essere Madre: spirito, anima e corpo, tutto in lei è fatto per accogliere, trasmettere e custodire la vita. L’esperienza di Eva insegna che la vocazione femminile alla maternità è minacciata dal peccato e tuttavia, dopo il peccato è proprio la maternità che viene indicata alla donna come via di redenzione.
    Maria viene presentata come la nuova Myriam la sorella di Mosè, che rappresenta la gioia per le meraviglie che Dio compie nella storia. Infatti, dopo la liberazione al Mar Rosso, fu Myriam a intonare il canto di gioia del popolo d’Israele. Tutte le sue preghiere sono lodi e benedizioni.
    Maria è poi presentata come l’arca dell’alleanza. Nella sua preghiera ella ringrazia Gesù che ha voluto abitare in lei (R 10) e Gesù definisce sua madre come il suo soggiorno (R 36). Maria è l’arca della nuova e definitiva alleanza. Il sommo sacerdote Yefonia, invitato da Pietro, «portò testi dalla sacra scrittura e dai libri di Mosè, dove è scritto che Maria sarà chiamata Tempio di Dio e porta del cielo» (R 42).
    Partendo dall’Antico Testamento la Chiesa giudeo-cristiana ha potuto affermare rapidamente — con l’apocrifo greco siamo nel II secolo — che Maria come Enoch ed Elia non ha conosciuto la corruzione della tomba. È lei la nuova Myriam e la nuova arca dell’alleanza. Le linee rappresentate da Eva e Myriam trovano in Maria il loro compimento. Le figure femminile dell’Antico Testamento ricordano la forza morale e spirituale della donna. La Chiesa della gentilità ci metterà venti secoli prima di arrivare alla definizione dogmatica dell’assunzione di Maria.
    Negli apocrifi giudeo-cristiani — non negli apocrifi gnostici — ci sono notizie che non sono archeologiche ma che sono confermate dalle fonti giudaiche. Quindi gli apocrifi devono essere considerati come testi storici, anche se non canonici. La critica interna deve stabilire il loro ambiente vitale e la loro origine.
    Da ricordare infine che il cristianesimo nel bacino mediterraneo rimase per molto tempo di struttura giudaica. Anche se passò dall’ebraico al greco la mentalità non si ellenizzò e si continuò a pensare in categorie giudaiche. In questo contesto l’Assunzione di Maria in cielo rimane secondo l’espressione di san Paolo VI «la corona di tutti i misteri».

    (L'Osservatore Romano 12 agosto 2021)

    NOTE

    1) Journal of the sacred Literature of the NT, vol. 6, 3-32; e 7,35-51.
    2) Luzac’s semitic text and Translation series 1899, 4, 93-146; 5 , 97-160.
    3) B. Bagatti, M. Picirillo, A. Prodromo, New Discoveries at the Tomb of Virgin Mary in Getsemane, Jerusalem 2004/2

    10. Ezechiele: o quando le strutture crollano

    Ero sacerdote nel Tempio di Gerusalemme. Il mio nome, “Dio ti renda forte”, mi dava coraggio quando vedevo il nostro santuario scintillante sotto i raggi del sole. La partecipazione di numerosi pellegrini alle feste di Pasqua, Pentecoste e Succot mi riempiva di gioia. Ho vissuto ore indimenticabili in questo luogo santo.
    Come era stupendo il nostro sommo sacerdote quando usciva dal santuario dietro il velo. I leviti alzavano la voce e suonavano le trombe. Il popolo si prostrava la faccia a terra per ricevere la benedizione. Le minacce e gli avvertimenti del profeta Geremia non mi disturbavano oltre misura. Il tempio ci proteggeva. Ma un giorno accadde l’impensabile. Il nemico blasfemo mise il fuoco al nostro santuario e molti operai furono deportati a Babilonia. Come Dio poteva permettere questa prova per il suo popolo? La presenza di Dio abbandonò il nostro Tempio. Ma Dio seguiva il popolo nel suo esilio. Da Gerusalemme desolata carovane di detenuti prendevano la strada dell’esilio. Notabili, impiegati ed artigiani qualificati, dopo settimane di marcia, giunsero gli uni nella regione di Babilonia, gli altri in quella di Nippur, nel Sud. Una profonda tristezza si era abbattuta su tutti. Che cosa potevamo ancora sognare? È finita per noi ogni speranza; ecco ciò che rimuginavamo per giornate intere.
    La mano di Dio fu su di me ed egli mi chiamò ad essere suo profeta nella comunità di Tel Abib, vicino al fiume Chebar, il canale grande che scorreva a sud-est del fiume Eufrate. I lavori agricoli e l’innaffiamento occupavano molti di noi. La fatica ci faceva dimenticare la nostra sorte. Ma Nabucodonosor, il monarca, era anche un genio costruttore. Il suo mitico palazzo richiedeva manodopera. I giganteschi ziggurat, in mattoni smaltati e policromi, i templi decorati da leoni alati, ci lasciavano sbigottiti. Babilonia con la sua triplice difesa e le sue maestose torri ci impressionava.
    Otto porte davano accesso alla capitale. La più importante, dove passavano le processioni, era la porta di Isthar. Di qua partiva verso l’interno la via trionfale. Sulla riva sinistra emergeva il tempio del dio Marduk, con la sua ziggurat alta un centinaio di metri. A pochi passi di là si allargava il grande palazzo su terrazze che scendevano verso il fiume con i famosi giardini pensili. Queste meraviglie non riuscivano a far dimenticare la nostra condizione di schiavi. Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo.
    La paura paralizzava i nostri cuori. Ci avevano ribadito che il regno di Giuda poteva affrontare l’impero caldeo, che l’Egitto ci avrebbe aiutati, che Gerusalemme era inespugnabile a causa del Tempio. Il Dio dell’alleanza doveva difenderci. Avevamo creduto tutto questo. Avevamo fatto sogni stellati. Le stelle oggi erano cadute e la terra veniva a mancare sotto i nostri piedi. Tutti avevamo l’impressione di essere stati ingannati. E quando veniva la sera, l’angoscia ci prendeva alla gola.
    Alcuni mormoravano: «E giusto questo?». E ripetevano: «I padri hanno mangiato uve acerbe, i denti dei figli sono allegati. I nostri padri hanno peccato e non sono più; e noi portiamo il peso delle loro iniquità». Allora la mano del Signore fu su di me e mi disse queste parole: «Che sono queste lamentele: i padri hanno mangiato le uve acerbe e i denti dei figli sono allegati? Come è vero che io sono vivo, voi non ripeterete più questo proverbio. Un figlio non porterà più la colpa di suo padre, né un padre la colpa di suo figlio. E se il malvagio rinuncia a fare il male, anche lui vivrà, non deve morire. Ascoltate dunque: “Fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Perché voler morire? lo non godo della morte di nessuno. Convertitevi e vivrete”». Queste parole erano forti. Ero il primo ad esserne sorpreso. Sino a quel giorno non avevo aperto la bocca che per annunziare disgrazie: guerre, invasioni, deportazione. Quando il Signore mi aveva chiamato per rivelare il suo messaggio, mi aveva fatto mangiare un rotolo di pergamena, sul quale era scritto nel retro e nel verso: “Lamentazioni, gemiti e pianti”. Avevo divorato quel rotolo che era dolce come il miele. Da quel momento, non avevo avuto nella bocca che il sapore della sventura. Ed ora che tutto non era che rovine, gridavo ai miei fratelli: Perché voler morire? Dio non vuole la morte di nessuno; ci vuole tutti viventi, i giusti e i peccatori.
    Il cammino della conversione era indicato: anche se eravamo anziani eravamo invitati a rinascere. D’ora innanzi il fondamento della vita religiosa non era più il Tempio, né Gerusalemme, né i sacrifici; era il cuore, cioè quello che vi è di più personale in noi. Quando tutto è perso, resta il cuore. E di là la vita può ripartire.
    La responsabilità personale di ciascuno contava per la rinascita o per la decadenza. Niente era deciso una volta per sempre: “Se il malvagio rinuncia a tutti i peccati, deve vivere, non morrà”. Il rinnovo interiore del cuore e dello Spirito non dipendeva dalla nazione; esso si basava ormai su ciò che vi era di più intimo in ciascuno. Questo ritorno era un passo difficile. Cominciava con la distruzione della falsa idea che ciascuno si era fatta di sé stesso. Sembrava una discesa agli inferi. Bisognava riconoscere la sua nudità originale non per umiliarsi ma per guarirsi.
    Nei giorni di feste le statue di Babilonia erano portate in trionfo per la città. Il giorno più solenne era quello del Nuovo Anno. Tutto doveva entrare nell’ordine cosmico voluto dal dio Marduk. Danzatori e danzatrici eseguivano balletti su due file tra canti e ovazioni. Si recitava il Poema della Creazione e tutta la gente acclamava Marduk. Questo idolo era più forte che il nostro Dio? mi chiedevo. Molti dubbi nascevano nel mio cuore. Se almeno potessimo celebrare il nostro culto, offrire sacrifici al nostro Dio. Ma non avevamo più né altare né sacrificio.
    Ritornare al Dio vivente significava riscoprire il Dio misterioso. Nonostante le rovine del nostro Tempio, Dio regnava. Ma, di questo dominio, nessuna traccia esteriore era visibile.
    In questa confusione la mia supplica saliva ogni tanto verso il cielo: «Il mio sacrificio, è uno spirito spezzato; del cuore spezzato tu non hai disprezzo». In questo grido filtrava una luce. Era molto più di una semplice certezza. Era un incontro luminoso. Il Dio che era al disopra di tutto, che non era legato né al Tempio di Gerusalemme, né alla terra, ecco che si rivelava vicino al “cuore spezzato”. Questa verità zampillava dal dolore dell’esilio: Dio sta vicino al cuore spezzato. Era l’esperienza tragica che avevamo fatto dopo aver accettato di entrare nel silenzio di Dio. Farsi un “cuore nuovo”, era un invito a ritrovare lo slancio della vita. Senza il ritorno alla dimensione d’interiorità, nessun dialogo con Dio era possibile. Quello che era accaduto non era stato una maledizione, ma una opportunità per ritrovare la verità della relazione con Dio attraverso una lunga via crucis. Dio era capace di fare rivivere i morti.

    (L'Osservatore Romano 4 settembre 2021)

    11. Giosuè figlio di Nun

    Non si può fare a meno di vedere la vita di Gesù come una rielaborazione della persona di Giosuè. Giosuè e Gesù hanno lo stesso nome in ebraico e letteralmente l’opera di Gesù può essere paragonata a quella di Giosuè, erede di Mosè, che fa entrare nella Terra Promessa dopo la traversata del Giordano.
    Giosuè è definito come servo di Mosè in Es 24, 13 e Dt 1, 38. Fu Mosè a cambiargli il suo nome Osea in Giosuè che significa “Dio salva” (Num 13, 16). Nato in Egitto durante il periodo di schiavitù egli è testimone di un’epoca chiave della storia d’Israele. Appena usciti dall’Egitto, gli Ebrei devono affrontare Amalek che si oppone a loro. Mosè prega sulle alture con le braccia aperte. Aronne e Hur sostengono le sue braccia. Finalmente Giosuè trionfa su Amalek il suo nemico (Es 17, 9-14). Accompagna poi Mosè sul Sinai quando quest’ultimo riceve le tavole della Torah (Es 24, 13). Aronne e gli anziani restano presso il popolo. Giosuè partecipa poi come rappresentante della sua tribù all’esplorazione della Terra Santa e con Caleb dà un giudizio favorevole per l’occupazione di Canaan (Num 14, 6). Saranno gli unici di quella generazione ad entrare nella Terra promessa.
    Succede a Mosè come capo della comunità. Attraversa il Giordano mentre le acque si dividono in due, erige un monumento a Gilgal, circoncide gli Israeliti (Gs 5, 2-9), prende Gerico, le cui mura crollano dopo che i sacerdoti l’hanno circondata sette volte con l’arca. Conquista poi la città di Ai. Offre un sacrificio sul monte Ebal, di fronte al Garizim (Gs 8, 30-35), conclude un’alleanza con i Gabaoniti e viene in loro aiuto. Uccide cinque re amorrei, prima di conquistare le città meridionali e settentrionali di Canaan. Quindi divide il paese tra le tribù. La sua carriera si conclude con la convocazione di una grande assemblea a Sichem dove riunisce tutte le tribù che insieme scelgono come Dio Yhwh. «Eliminate gli dèi che i vostri padri servirono al di là del fiume e in Egitto, e servite solo il Signore. Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete ora chi volete servire... Per me e la mia famiglia, è il Signore che vogliamo servire» (Gs 24, 14). Muore all’età di 110 anni. Ben Sira 46, 1-6 lo celebra in questi termini: «Giosuè figlio di Nun era un potente guerriero e succedette a Mosè come profeta. Giustificando il nome che portava, si mostrò un grande salvatore degli eletti del Signore: castigando i nemici sollevati contro di lui, portò Israele nella sua eredità. Com’era glorioso quando alzava le braccia per brandire la spada contro le città».
    Per molti lettori della Bibbia, le guerre del Signore celebrate con la vittoria data da Dio costituiscono un problema. Come spiegare le guerre volute da Dio con il loro seguito di violenza? Per J. Soller l’invenzione del monoteismo sarebbe la causa delle guerre di conquista. Queste sue idee si diffondono sempre di più. È vero che il libro di Giosuè non appartiene alla Torah. Il fatto di essere un libro profetico non giustifica la violenza per la conquista di Canaan. Sottolinea soltanto che la terra è un dono di Dio.
    I Padri della Chiesa, proponendo una lettura allegorica del libro, si resero conto ben presto che queste guerre non facevano altro che prefigurare la vita cristiana che è una lotta continua.
    In una omelia famosa, Origene commenta il racconto della presa di Gerico (Omelia su Giosuè 7, 1-2). La città che Giosuè sta per conquistare è il simbolo del mondo idolatrico, i cui bastioni di illusione crolleranno davanti alle trombe del Vangelo proclamato da Gesù-Giosuè.
    Origene non ha inventato l’interpretazione spirituale della presa di Gerico. Nella liturgia ebraica della Festa delle tende, la caduta di Gerico simboleggiava la distruzione del male. Secondo il Talmud, la settuplice processione intorno all’altare del Tempio di Gerusalemme al canto dello Hoshanna imitava la presa di Gerico. I partecipanti alla cerimonia portavano le palme in mano. Ora Gerico è conosciuta come la città delle palme. Origene commenta: «Gerico è la figura del mondo presente. Vediamo la forza dei suoi bastioni distrutti dalle trombe dei sacerdoti, perché le potenti fortificazioni che servivano a questo mondo di mura, sono il culto degli idoli. Quando venne Gesù, la cui venuta Giosuè simboleggiava, mandò i suoi sacerdoti, gli apostoli portando le trombe tese, cioè raccontando l’insegnamento della sua predicazione. Quando i sacerdoti suonavano le trombe per abbattere le mura di Gerico, anche tutto il popolo gridava forte. Queste grida significavano l’unione dei cuori e delle anime. Se questa unione avveniva tra due o tre discepoli di Cristo, tutto ciò che chiedevano nel nome del Salvatore era concesso loro dal Padre che è nei cieli».
    Con l’arrivo di Gesù crollano le mura di Gerico. Ma il male non sembra vinto, poiché è ancora presente nel mondo. Ciascuno porta in sé la Gerico dei propri idoli. È con le trombe sacerdotali della dottrina e con il clamore del popolo unito che questa Gerico interiore crollerà. Finché tutti i popoli non sono entrati nella Chiesa, le potenze del male hanno potere. L’episodio di Giosuè che ferma il sole a Gabaon, permette a Origene di spiegare il ritardo della parusia (Omelia 11, 3): «Finché non crescano le chiese dalle varie nazioni e venga la pienezza dei Gentili, affinché tutto Israele sia finalmente salvato, il giorno si prolunga, il sole non tramonta mai, ma sempre sorge il “Sole di giustizia” che riversa la luce della verità nel cuore di chi crede».
    Il prolungarsi della missione ritarda l’arrivo del giorno in cui il male sarà completamente distrutto. Tutte le nazioni sono chiamare ad entrare nella Chiesa. Un doppio movimento caratterizza la storia: la crescita progressiva del Regno e l’espansione delle forze del male. Le due potenze sono impegnate in una lotta fino al giorno in cui il nuovo Giosuè deciderà di intervenire.

    (L'Osservatore Romano 11 settembre 2021)

    12. L’arma della maldicenza usata contro le donne

    Siamo a Babilonia tra gli esiliati. Alle prove generali si aggiungono quelle personali. Susanna, moglie di Gioacchino, viene accusata di adulterio da due vecchioni. La storia è un gioiello narrativo. Si legge di un tratto. Fa parte degli episodi della giovinezza del profeta Daniele. Il testo greco che riferisce l’episodio ci è pervenuto in due versioni: la prima, ritenuta la più antica, si trova in un codice della LXX ed è aggiunta come capitolo supplementare al libro. Negli altri codici viene presa dalla versione di Teodozione, un proselito ebreo di Efeso, autore di una revisione della Bibbia greca. Il racconto fu considerato come parte della letteratura di Daniele e inserito all’inizio del suo Libro in molti manoscritti greci dell’Antico Testamento. Nella Vulgata Girolamo lo posizionò alla fine del testo ebraico di Daniele, notando che non era presente nella Bibbia ebraica.
    Va detto che il nome di Susanna ha già il destino nella sua radice: Nomen Omen. Deriva dall’ebraico shushan, che significa giglio, vale a dire il simbolo della purezza. Tra l’altro questo fiore è caro al Cantico dei Cantici. Anche il nome di Daniele contiene tutto un programma. Significa: “El è mio giudice”.
    Il consenso dei primi cristiani si fece rapidamente per considerare il testo come canonico. L’eccezione che conferma la regola fu Giulio Africano. Origene afferma nell’Epistola ad Africanum che fu “nascosto” dagli Ebrei e nel Commentarium in Mattheum, che il testo era stato recepito dalle Chiese cristiane. La vicenda capitata a Susanna sottolinea che la vera salvezza è quella dell’anima che bisogna perseguire anche con il sacrificio della vita (Hom. in Gen 15, 2).
    La storia è ben nota: Susanna, una giovane donna di rara bellezza e timorata di Dio, viene concupita da due vecchioni lussuriosi che frequentano la casa di suo marito, un ebreo facoltoso. I due riescono ad introdursi nel suo giardino sorprendendo sua moglie mentre faceva il bagno. Per aggiungere un elemento tragicomico si ricorda che i vecchioni erano stati eletti giudici dalla comunità. Infiammati di lussuria, minacciavano di accusare la donna: l’avrebbero sorpresa con un giovane amante. Al rifiuto di Susanna di concedersi a loro l’accusano di adulterio, un reato che era punito di morte senza appello. Per la sfrenata voglia passionale la calunnia era il mezzo più efficace per indurre la donna a compiere atti immorali.
    Portata davanti al tribunale Susanna viene riconosciuta colpevole e condannata ad essere lapidata. A questo punto si fa avanti il giovane Daniele che smascherò i vecchioni falsi accusatori: «Mentre Susanna era condotta a morte, il Signore suscitò il santo spirito di un giovanetto, chiamato Daniele, il quale si mise a gridare: “Io sono innocente del sangue di lei”. Tutti si voltarono verso di lui dicendo: “Che vuoi dire con le tue parole?”. Allora Daniele, stando in mezzo a loro, disse: “Siete così stolti, Israeliti? Avete condannato a morte una figlia d’Israele senza indagare la verità. Tornate al tribunale, perché costoro hanno deposto il falso contro di lei”» (Dan 13, 45-49). L’intervento del giovane Daniele, interrogando separatamente i due vecchioni — i quali, caduti in contraddizione, svelano la loro menzogna — riuscirà a dimostrare l’innocenza di Susanna. Daniele diventerà mediatore di salvezza per la donna. Questa operazione divenne l’inizio del suo percorso pubblico di profeta. La sua fama cresceva fra il popolo (Dan 13, 45) nonostante la sua giovane età. Si può dare fiducia ai giovani. La loro sapienza è capace di distinguere i veri testimoni dai falsi.
    Il valore morale del racconto concluso con l’assoluzione di Susanna e la lapidazione dei due iniqui testimoni ne fece argomento di riflessione per i cristiani. Per i Padri questa storia fornisce l’occasione di elogiare la fede solida nelle avversità. Cipriano vede in Susanna la figura della Chiesa di Cartagine accusata dagli scismatici (Ep 43, 4). Anche Ippolito di Roma identifica Susanna con la Chiesa, Gioacchino con Cristo e i vecchioni con i persecutori della Chiesa (Com. in Dan 1, 12). «Nel senso evangelico — scrisse Ippolito — Susanna disprezzò coloro che potevano uccidere il corpo, in modo che potesse salvare la sua anima dalla morte». Nel suo trattato Contro le eresie IV , 26,2, Ireneo di Lione commenta la preghiera di Susanna: «O Dio eterno, Tu che conosci i segreti e conosci tutte le cose prima che avvengano». Si affida all’apparenza ingannevole dei due giudici per lodare i presbiteri esemplari e condannare coloro che si separano dalla successione apostolica, che sono «eretici con uno spirito falso, o scismatici pieni di orgoglio e superbia, o anche ipocriti che agiscono solo per profitto e vana gloria».
    A partire dal Rinascimento la storia di Susanna divenne il simbolo delle virtù e della fedeltà coniugale che si addicono alle giovani spose. Il contrasto intrigante tra eros e santità viene sottolineato spesso. Il carattere edificante e il lieto fine del racconto hanno fatto sì che anche numerosi artisti la riproducessero. La storia di Susanna e i vecchioni si misura con il tema della calunnia e del premio che il Signore dà a chi persevera nel bene, nonostante le accuse e i falsi giudizi che lo mettono gravemente alla prova. La vicenda è anche esaltazione della purezza matrimoniale, della fedeltà e della castità. Al tempo stesso, intende sradicare maldicenze e calunnie, diffuse in tutte le società. L’innocenza della donna è riconosciuta e la calunnia dei vecchioni è punita. È storia di tutti i tempi e anche di oggi: tante innocenti non hanno la sorte di Susanna, ma sono giudicate ingiustamente, calunniate nella loro identità, condannate ed uccise anche dal comune giudizio. Ma c’è di più: la vicenda di Susanna divenne anche un simbolo di Gesù accusato e condannato ingiustamente. Come Susanna non proferiva una sola parola per difendersi, Gesù durante la sua passione taceva.
    Nell’epoca della secolarizzazione o della dissacrazione del sacro, nell’epoca delle diffamazioni lanciate contro la Chiesa da veri e falsi testimoni, la storia di Susanna rimane di una grande attualità. Non c’è motivo di saltarla nella lettura continua della Scrittura.

    (L'Osservatore Romano, 3 ottobre 2021)

    13. Hulda la profetessa

    Tutti i pellegrini che visitano la spianata del Tempio a Gerusalemme hanno familiarità con le Porte di Hulda che danno accesso al santuario. La memoria di una profetessa è legata al luogo sacro.
    Non sono molte le donne chiamate profetesse nell’Antico Testamento. Accanto a Miryam, sorella di Mosè (Es 15, 20), che fa ballare le donne uscite dall’Egitto, e Debora (Gdc 4, 4) moglie di Lapidot, che pronuncia un canto in onore di Giaele che ha ucciso il generale dei Cananei di nome Sisara, abbiamo solo Hulda che merita questo qualificativo (2Re 22, 14). Hulda vive sotto il regno del re Giosia. Il re devoto è rimasto nella memoria collettiva del popolo, in contrasto con i re che lo avevano preceduto, dei quali si dice «egli fece ciò che era male agli occhi del Signore» (2Cr 33, 2.22). Fin dall’inizio del suo regno, Giosia decide di fare ciò che è giusto agli occhi del Signore (2Cr 34, 2). Purifica la terra dagli idoli eretti dai suoi predecessori. Demolisce, abbatte, rompe gli altari e le colonne idolatriche in tutta la terra d’Israele. Dopo di ciò, è importante per lui riparare la casa del Signore, il Tempio. È durante i lavori nel tempio che il sommo sacerdote Hilkija trova il libro della legge del Signore. Rendendosi conto dell’importanza di questo libro, lo invia al re. Shaphan, lo scriba, non sembra essere della stessa opinione. È solo dopo aver riferito sullo stato di avanzamento dei lavori di riparazione del tempio che dice: Hilkija mi ha dato un libro. Il re Giosia gli chiede di leggerlo. Sentendo le parole della legge di Dio, il re è costernato, si strappa le vesti in segno di profonda umiliazione.
    Giosia si rende conto che tutto ciò che ha fatto finora non ha alcun valore di fronte al peccato d’Israele. I suoi padri non hanno osservato la parola del Signore di fare secondo tutto ciò che è scritto in questo libro. La sua angoscia è grande: «Va’, consulta il Signore per me e per il resto del mio popolo», grida.
    Non è da Hilkija, anche se sommo sacerdote, che si cerca la parola del Signore. La sua condizione spirituale non lo qualifica per questo servizio. Anche il profeta Sofonia che vive in quel tempo (Sof 1, 1) non è consultato, nemmeno il profeta Geremia. Si rivolgono a Hulda, la profetessa, che Dio ha preparato per questo servizio.
    Chi è Hulda? Hulda significa “donnola”. La donnola è un animale piccolo e molto discreto che vive di notte. Il suo comportamento è caratteristico. Spesso si siede sulle zampe posteriori e si alza per osservare ciò che lo circonda, girando la testa da entrambi i lati. Hulda ha ricevuto il suo nome perché è stata discreta, non si è fatta avanti. Era sempre attenta a discernere in tutto ciò che vede qual è la mente di Dio, come Dio le parla.
    Anche suo marito chiamato Shallum (“retribuzione”) ha un nome simbolico. È il guardarobiere del palazzo reale (2Re 22, 14) ed è per questo motivo che Hulda è nota al re. La sua è un’attività regolare, forse non molto gratificante né molto varia, ma sempre al servizio degli altri. L’esercizio della sua professione testimonia la sua lealtà e probità.
    Vive a Gerusalemme, nel cuore del Paese. Partecipa ai dolori e alle gioie di tutti come residente di questo luogo. Il suo interesse per il popolo è evidente. Non occupa una posizione di rilievo, abita nel secondo quartiere della città (2Cr 34, 22).
    In sintesi, Hulda si presenta discreta, sempre in ascolto, attenta a discernere come il Signore vuole parlarle, a comprendere la mente di Dio. Cerca la sua approvazione in tutto ciò che fa. Possiede una forza interiore che la caratterizza come una donna degna e virtuosa. La sua bellezza non risiede nel suo aspetto esteriore, ma nello splendore di colei che vive nascosta nel suo cuore. La sua umile professione la mette al servizio degli altri, che le danno totale fiducia.
    Quando Hilkija e il popolo le spiegano la situazione, Hulda, la profetessa, afferra immediatamente la mente di Dio e dice loro senza aspettare un attimo: «Così dice Dio». Lei sa che risposta dare. Non chiede un periodo di riflessione di qualche giorno, e nemmeno una notte, dà spontaneamente la risposta del Signore. È pronta a comunicare la risposta di Dio alla situazione di crisi vissuta in quel momento. L’attenzione e l’ascolto del pensiero di Dio in ogni momento, la disponibilità a comunicarlo in una situazione critica la caratterizzano. Annuncia in modo perentorio il castigo divino, visto che il popolo non mette in pratica quello che è scritto nel libro, probabilmente il centro del libro del Deuteronomio. Poi annuncia al Re che non avrebbe visto la sciagura conoscendo la sua pietà.
    La profetessa e il profeta che hanno ricevuto lo Spirito di Dio non sono quelli che annunciano eventi futuri. Sono in grado di leggere e interpretare i segni dei tempi. I profeti non sono affatto indovini, né cortigiani. Parlano in nome di Dio.
    Nel trattato Megilla 14a del Talmud di Babilonia si afferma che il re Giosia prevedeva che Geremia non avrebbe provato alcun risentimento per essere stato posposto a una persona della sua famiglia. Il motivo per il quale Giosia manda i suoi ufficiali a lei, è perché, essendo donna, è più sensibile alla sofferenza per ciò che il Signore ha compiuto. L’obbedienza dei capi maschi alla parola di Dio trasmessa da una donna ha innescato quello che è forse il più grande risveglio nella storia d’Israele (2Re 22, 14 - 23, 25).

    (L'Osservatore Romano, 23 ottobre 2021)

    14. Amos, il cantore della giustizia sociale

    Siamo a Bethel, la città dove Giacobbe ebbe la sua visione della scala sulla quale gli angeli salivano e scendevano dal cielo. Non siamo più nel periodo di massimo splendore dei re Davide e Salomone. In effetti, l’ex regno di Israele è ora diviso. Tuttavia, nel regno del Nord (chiamato “Israele” in opposizione a “Giuda”, il regno del Sud), tutto va bene: Israele sta approfittando della debolezza dei suoi vicini per conquistare la Transgiordania. Economicamente, le terre del Nord sono più fertili di quelle del Sud. Inoltre, lo sviluppo dei rapporti commerciali con le città fenicie permette l’emergere di una prospera classe media. Samaria, la capitale, è diventata una città ricca ed elegante.
    Sul piano religioso, l’antico santuario di Bethel riprende vita a scapito di Gerusalemme. Diventa un importante centro di pellegrinaggi. Il culto del vitello d’oro viene ripristinato (2Re 12, 25-33), ma in seguito è introdotto anche il culto di Baal. Tutto va bene, tranne la situazione sociale che genera un gran numero di poveri ed esclusi. Si vende il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali (Am 2, 6).
    Intorno all’anno 760 a.C. Geroboamo II estende i suoi confini in Samaria (2 Re 14, 23-29). Un ampio controllo delle vie commerciali determina uno sviluppo economico. Intanto l’aristocrazia che approfitta di questa situazione bada solamente a vivere nel lusso. Chi non si arricchisce diventa povero. In tutto il paese, l’idolatria, la decadenza morale e le ingiustizie crescono di pari passo. La legge viene violentata.
    Bethel è un santuario reale di un culto scismatico rappresentativo della politica di Geroboamo II . Amasia è il sacerdote ufficiale e non gli mancano i sussidi. Amos da parte sua vi giunge per una chiamata pressante di Dio. Non può resistere alla vocazione anche se egli non è un sacerdote, né un profeta “di professione” (7, 14), ma un mandriano e un coltivatore. Non è però un ignorante perché conosce la storia dei paesi vicini.
    Viene da Tecoa, una città situata a sud di Gerusalemme. È un uomo di campagna che non ama la città ed è diffidente nei confronti dei cittadini. Viene dal regno di Giuda. L’ingiustizia non è solo un fatto definibile grazie in particolare al diritto e alla legge. Segna anche l’impotenza della legge, di ogni legge. Ecco perché, tra il diritto esistente, e l’atto di ingiustizia, il profeta è sempre necessario.
    Amos delinea le condizioni sociali e religiose del popolo di Dio: oppressione, violenza e rapina sono le conseguenze del degrado di una società senza giustizia dove viene praticata una religione vuota che non ha niente a che fare con Dio. Per tutto ciò, il giudizio deve abbattersi sul popolo e un nemico deve assalire il paese, deportando i prigionieri legati con degli uncini passati attraverso le labbra.
    Tre visioni di distruzione sono date al profeta. I simboli agricoli vi abbondano (cap. 7).
    La prima mette in scena locuste e cavallette che divorano le piante, mentre la seconda rappresenta un fuoco che divampa nelle campagne. Il profeta deve farsi mediatore. Per questo egli intercede e il giudizio di Dio viene sospeso.
    In un’altra visione il profeta vede un filo a piombo. Israele è come un muro inclinato che sta per crollare. Due volte Dio ascolta la preghiera di Amos, ma per la mancanza di pentimento del popolo Dio deve dare corso alla sua giustizia. Queste minacce non piacciono al sacerdote responsabile del santuario. Egli accusa il profeta di congiura contro il regno. Amasia con tono arrogante gli intima di ritornare nel suo paese per guadagnarsi la vita. Ma il coraggio del profeta prevale sulle accuse. Nella sua risposta Amos afferma di non essere un profeta pagato per profetizzare: «Non ero profeta né figlio di profeta». Ad Amasia annuncia che sua moglie si prostituirà nella città e che i suoi figli cadranno di spada. I rapporti tra sacerdote e profeta sono tesi.
    Ancora il profeta invita il popolo alla conversione (cap. 8): egli vede un cesto di frutti maturi. Il paese è pronto per la rovina, dovuta all’avidità, al commercio disonesto e alla violenta crudeltà esercitata verso i poveri.
    L’ultima visione è quella di un altare da demolire. Lascia intendere che il tempo del giudizio sta per arrivare inevitabilmente (cap. 9). Segue un segno di ricostruzione futura. Le ultime parole del profeta annunciano un restauro d’Israele, un ritorno alla terra dopo l’esilio.
    Il messaggio di Amos è chiaro: Dio è il maestro del mondo. I delitti e la malvagità, dovunque avvengano, sono odiati da Lui e sottoposti al suo giudizio (1, 3 - 2, 3).
    Appartenere al suo popolo è un privilegio, ma ciò non esclude dalla giustizia (3, 2). L’alleanza che Dio ha stipulato con il suo popolo ha una dimensione verticale e orizzontale. Amare Dio significa rispettare il povero. Il Decalogo deve orientare il discorso legislativo. L’ingiustizia è negazione del diritto.
    Essere profeta significa interpretare a tempo e fuori tempo il presente alla luce dell’alleanza, aiutare la gente a prendere coscienza dell’appartenenza al popolo del patto. Il prete Amasia è soltanto un funzionario del culto nel santuario reale. Pensa soltanto a sé e non al gregge. In questo contesto emerge la consapevolezza del ministero profetico come dovere di proclamare la parola, che non può essere taciuta: «Il Signore Dio ha parlato: chi non profeterà?» (3, 8). Egli si scaglia contro l’ingiustizia che domina i rapporti umani, sia all’interno d’Israele che nelle relazioni internazionali. Il vivere nell’iniquità rende irrisorie le celebrazioni religiose, che non sono un incontro con Dio, ma una manifestazione di egoismo (2, 8). Per sradicare la falsa sicurezza d’Israele, Amos contesta le interpretazioni deformate che dell’elezione si davano, come se si trattasse di una garanzia dalla fedeltà e dalla giustizia.
    Dio prende Amos mentre segue il bestiame e lo fa pastore di Israele come aveva fatto con Mosè e Davide. Diventa uno strumento di rivelazione nelle mani di Dio. I pastori che curano il gregge hanno fatto in gran parte la storia di Israele cominciando da Abele.
    San Basilio di Cesarea il fondatore del cristianesimo sociale e della Basiliade, l’ospizio per i poveri, gli anziani e gli orfani in Cappadocia è un vero discepolo di Amos. Egli sottolinea che i beni della terra provengono da Dio, sono sua proprietà e gli uomini ne sono solo “gli amministratori”, non i padroni che possono farne ciò che vogliono (Basilio, Hom. VI de avarizia, 2). Ha capito l’importanza della prima beatitudine di Gesù, il difensore dei piccoli: Beati i poveri, perché saliranno sulla scala di Giacobbe.

    (L'Osservatore Romano, 30 ottobre 2021)

    15. Nabot e la sua vigna, eredità dei padri

    I drammi non mancano nella Bibbia. Omicidi per motivi economici e politici, perpetrati in un’apparente legalità, con falsi processi sono noti. Il caso di Nabot illustra questa affermazione.
    Nabot è proprietario di una vigna che ha ereditato dai suoi padri. Tutta la vicenda narrata in 1 Re 21 torna intorno a questo bene che egli considera come l’eredità dei padri, e costituisce un po’ la sua identità. Per il Re Acab questa vigna vicina al suo palazzo ha soltanto un valore utilitario ed economico. Re di Samaria, egli possiede un palazzo in Samaria. Ma possiede un altro palazzo in Izreèl, vicino alla vigna di Nabot. Ciò significa che si tratta di una delle regge che gli appartengono. Il contrasto tra l’unica vigna posseduta da Nabot, e uno dei tanti palazzi, posseduti da Acab risalta direttamente. Il problema maggiore sottostante è quello che è presente nell’intero ciclo di Elia: l’idolatria. Il confronto oppone il Signore, il Dio di Elia, e Baal, il falso dio di Gezabele, la moglie del re Acab.
    Acab vuole acquistare la vigna di Nabot per trasformarla in un orto. Desidera ampliare il giardino già esistente nel suo palazzo, comprando il terreno vicino. Per Acab la vigna viene valutata per il suo valore economico. La risposta di Nabot si colloca su un livello diverso, in una prospettiva religiosa. Si tratta dell’eredità dei padri e ai suoi occhi vale il principio di Num 36, 7: «Nessuna eredità tra gli israeliti potrà passare da una tribù all’altra». La terra appartiene a Dio; è lui il vero proprietario. La dà ai figli di Israele come proprietà da custodire e da trasmettere in eredità.
    Acab riferisce alla moglie Gezabele quanto è accaduto: «Ho detto a Nabot di Izreèl: Cedimi la tua vigna per denaro o, se preferisci, te la cambierò con un’altra vigna. Egli mi ha risposto: Non cederò la mia vigna».
    Acab è amareggiato e irritato al punto da non poter agire. Completamente diversa è la reazione di Gezabele, una donna decisa. Sa ciò che vuole e come raggiungere il suo scopo. Non si limita allo sdegno, come il marito, ma agisce con grande fermezza: «Te la darò io la vigna di Nabot di Izreèl». Per Gezabele il re ha un potere illimitato. Di nuovo torna a manifestarsi l’idolatria. Il potere stesso diviene un idolo e prende il posto di Dio, si sostituisce a Dio.
    Gezabele con la sua furbizia prepara un falso processo. Usa la forza, ma con astuzia e abilità politica. Proclamando un digiuno ella crea tra gli abitanti della città un senso di preoccupazione, di tensione, e di timore: è accaduto qualcosa di grave, ma non si sa bene cosa. La situazione è drammatica. Come uscirne? Nabot viene così condannato e lapidato. Quattro comandamenti del Decalogo sono stati trasgrediti in questo falso processo: «Non desiderare la roba d’altri»; «Non dire falsa testimonianza»; «Non rubare»; «Non uccidere». Ma tutto questo è frutto dell’idolatria. Nabot, il piccolo, è stato eliminato. Acab, il potente, ha ottenuto ciò che desiderava. Finalmente Dio entra in scena attraverso Elia, il suo profeta che difende il senso della giustizia.
    Ad orchestrare il crimine contro Nabot è stata Gezabele. Acab ha lasciato fare, è stato connivente, ma con un ruolo più passivo rispetto alla determinazione della moglie. Non importa, la parola di Dio viene rivolta ad Acab, perché Acab è il re; è lui che avrebbe dovuto, come luogotenente di Dio, garantire il diritto nel suo popolo. Per Gezabele e la sua visione idolatrica, il re è colui che ha il potere e deve esercitarlo. Nella visione biblica il re è colui che in nome di Dio si fa carico dei poveri e dei loro diritti conculcati, che non tollera l’usurpazione e che esercita il suo potere non per affermare la propria forza e la propria potenza, ma per difendere coloro che subiscono violenza dei più forti.
    La parola di Dio per Acab è molto dura, gli annuncia un castigo tragico: «Nel punto ove leccarono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue». Ricorda quella del profeta Natan mandato a Davide quando, per onorare un ospite, il re prese l’unica pecorella di un povero (2 Sam 12, 1-14).
    Il problema del rapporto tra ricchezza e fede cristiana si presenta molto presto alla Chiesa delle origini. Clemente di Alessandria scrisse una omelia, Quale ricco si salverà?, per rispondere ai dubbi e alle domande che i ricchi cristiani gli ponevano sulla possibilità di conciliare ricchezza e fede, avendo presenti le parole di Gesù nell’episodio del ricco in Mc 10, 17-31. Egli sostiene che «ogni sostanza che ciascuno trattiene per sé come fosse un bene privato e non mette in comune con chi si trova nel bisogno, diventa qualcosa di iniquo» (Q.d.s. 31).
    Ambrogio di Milano inizia così il racconto del povero Nabot assassinato dal re Acab per impadronirsi della sua vigna, nella quale vuole fare un orto (De Nabuthae I.1): «La storia di Nabot è antica nel tempo, ma nella realtà è storia di tutti i giorni. Quale ricco, infatti, non desidera ogni giorno con avidità i beni altrui? Chi è mai contento di quel che ha?». L’episodio descrive l’avidità del re Acab, che tutto possiede e che vuole anche il piccolo terreno di Nabot. Ma questi non può cederlo, perché è eredità santa dei padri, avuta in dono da Dio. Di qui il falso processo — Nabot è accusato di aver bestemmiato Dio e il re — e la lapidazione del povero.
    Ambrogio attualizza il testo e lo riferisce agli opulenti latifondisti della città di Milano. Acab e Nabot sono personaggi della storia di ogni tempo e di ogni luogo, dove il potere diventa prepotenza, e la giustizia è corrotta. Nella storia sono presenti tutti quelli che non si accontentano di ciò che hanno e vogliono godere sempre di più a scapito dei poveri. Ma la parola di Dio ha una forza inattesa, un valore perenne e risuona attuale ogni volta che si commette un’ingiustizia a scapito degli ultimi, dei miseri e degli sfruttati. Il profeta Amos ricorderà anche lui che l’alleanza ha una dimensione orizzontale e verticale. Non si può onorare Dio se non si rispetta il povero. Gesù nella stessa logica dice: «Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».

    (L'Osservatore Romano, 6 novembre 2021)

    16. Samuele e il prezzo dell’intercessione

    Figlio di Elkana e Anna, Samuele appartiene alla tribù di Efraim. Elkana ha un’altra moglie chiamata Penina che gli ha dato figli, mentre Anna non ha figli. La sterilità è considerata come una maledizione. Ella si reca presso il santuario di Silo dove è custodita l’arca dell’alleanza e prega in cuor suo. Ne ottiene un figlio che chiama Samuele e che consacra al Signore lasciandolo vivere presso Eli nel Tempio di Silo (1 Sam 1-2).
    Prima di ritornare a casa, Anna piena di gioia ringrazia Dio perché il suo potere abbassa i superbi e solleva i deboli e gli indifesi. Egli dà alla sterile la fecondità, mentre la ricca di figli è sfiorita (2, 1-10). Maria la madre di Gesù conosce il cantico di Anna e lo cita nel suo Magnificat.
    Nel santuario di Silo, nonostante la presenza del giusto sacerdote Eli, vivono i suoi due figli Ofni e Fines, che sono perversi e abusano delle donne che prestano servizio all’ingresso della tenda del convegno (1 Sam 2, 22). Di più non sono onesti nella ripartizione delle porzioni degli animali offerti. Gli piace approfittare della loro situazione e mangiare molta carne.
    Samuele cresce nel Tempio e già da piccolo porta la veste sacerdotale. Sua madre si reca al tempio ogni anno portandogli in dono una piccola veste, quasi per assicurarlo della sua presenza. Anche Maria ogni anno fa il pellegrinaggio al Tempio benché non fosse un obbligo per le donne.
    La parola di Dio in quell’epoca è rara, però Dio si manifesta al fanciullo. Per tre volte lo chiama di notte. Samuele pensa che il suo maestro Eli lo chiami. È il sacerdote ad istruirlo come rispondere se viene chiamato di nuovo: «Parla Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1 Sam 3).
    Alla quarta chiamata, Dio nominandolo suo profeta, gli predice la punizione di Eli, per la debolezza dimostrata verso i figli degeneri. Al mattino Samuele rivela la profezia ad Eli, il quale da quel momento diventa un suo discepolo e dice: «Egli è il Signore. Faccia ciò che è bene ai suoi occhi».
    «Il giovane Samuele cresceva davanti al Signore e agli uomini» (2, 26) — ritornello che Lc 2, 52 riprende per Gesù —, ma «Samuele non aveva ancora conosciuto il Signore e la parola del Signore non gli era ancora stata rivelata» (3, 7). Da ragazzo che ascolta, Samuele diventa uomo che parla: «Tutto Israele seppe che Samuele era stato costituito profeta del Signore» (3, 20). Come nuovo Mosè, Samuele è liberatore dell’oppressione filistea e intercessore presso Dio per chiedere la vittoria (1 Sam 7, 2-14).
    Alcuni anni dopo Israele deve affrontare l’invasione dei Filistei. Gli ebrei subiscono una prima sconfitta ad Afek e poi una seconda più grave. I figli del sacerdote sono uccisi in guerra e l’arca dell’Alleanza portata nella battaglia come pegno della protezione divina è catturata dai Filistei e messa nel Tempio di Dagon. Ogni giorno la statua di Dagon giace con la faccia a terra davanti all’arca.
    Eli è rimasto nel santuario di Silo. La notizia della perdita dell’arca lo fa cadere per il dolore dal seggio. Si fracassa il cranio e muore. La città di Silo viene poi distrutta, avverandosi del tutto la profezia di Samuele.
    L’arca in mano dei Filistei causa loro molte sventure. Non c’è altra soluzione che di restituirla agli ebrei; ma non essendoci più il santuario, l’arca è tenuta per venti anni in vari posti. Al tempo del re Davide è riportata a Gerusalemme da Kyriat Yearim.
    Samuele in questo periodo svolge il suo ministero profetico riportando gli israeliti al culto di Yhwh. Li raduna a Masfa e con preghiere, digiuni e confessioni dei peccati, li prepara alla guerra contro gli oppressori.
    I filistei attaccano di nuovo Israele ma sono sconfitti e cacciati fino a Bet-Kar. Da allora non entrano più in Israele fino a quando Samuele è giudice.
    Dopo la distruzione di Silo Samuele si trasferisce a Rama, suo paese natale. Ogni anno gira per il territorio d’Israele giudicando nelle vertenze e presiedendo adunanze.
    I propri figli Ioel e Abijah non seguono le sue orme causando un malgoverno e la minaccia di nuova invasione filistea. Il popolo chiede a Samuele di rinunciare alla carica e di nominare un re, per marciare alla testa dei soldati.
    Dopo alcune reticenze è convinto da Dio, a cui si è rivolto con la preghiera. Samuele consacra re Saul. Due tradizioni sono note. Nella prima l’unzione avviene in tre momenti: prima in privato a Rama, poi con il sorteggio a Masfa e finalmente a Galgala dove viene presentato al popolo. Samuele scrive il codice del diritto del Re, quindi si dimette da giudice.
    Un’altra tradizione vuole che Samuele ha incontrato a Rama Saul che cercava le asine di suo padre e gli ha conferito l’unzione (1 Sam 9-10). «Samuele, amato dal suo Signore, di cui fu profeta, istituì la monarchia e consacrò i principi del suo popolo», riconosce il Siracide 46, 13.
    Il profeta si reca da Saul dopo la grande battaglia contro gli Amaleciti per rimproverarlo di non aver adempiuto lo sterminio totale di quel popolo e di aver invece salvata la vita al Agag loro re. Di più ha preso per bottino tutti gli armenti migliori. Poi Samuele informa Saul che il Signore lo ha ripudiato come re. Passa la notte a pregare (1 Sam 15, 11), come lo fa Gesù in Lc 6, 12.
    Su indicazione di Dio, Samuele si reca poi da Iesse il betlemita. Arrivato a Betlemme fa condurre davanti a sé i sette figli di Iesse, ma nessuno di loro gli viene indicato da Dio come il futuro re. C’è un ottavo figlio, Davide, il più piccolo che pascola le pecore. Fattolo venire, Samuele riconosce in lui il prescelto e con il corno dell’olio, alla presenza dei fratelli, lo consacra re d’Israele, poi ritorna a Rama. Samuele muore verso i novanta anni tra il compianto di tutti gli israeliti e viene seppellito nella sua proprietà di Rama.
    Nello sviluppo della storia ebraica, Samuele rappresenta il periodo di transizione dall’ordinamento dei giudici a quello monarchico, e l’inizio della divisione dell’autorità religiosa-sacerdotale da quella laico-politica.
    Samuele ha appreso dalla propria madre Anna come «stare davanti al Signore» e dal sacerdote Eli come ascoltare la parola di Dio. Più tardi, anch’egli conosce il prezzo dell’intercessione: «Quanto a me, non sia mai che io pecchi contro il Signore, tralasciando di supplicare per voi e di indicarvi la via buona e retta» (1 Sam 12, 23). Gesù ha imparato dalla propria madre a pregare e diventa l’intercessore per eccellenza. È normale che Samuele sia chiamato dai Padri della Chiesa typus Christi a partire da san Cipriano (PL 4, 689).

    (L'Osservatore Romano 13 novembre 2021)

    17. "Gabriele e le sue missioni"

    Il razionalismo moderno ha voluto ricondurre gli arcangeli a semplici personificazioni di realtà psicologiche. La tradizione biblica non ha ritenuto giusto imporre un limite alla potenza creatrice di Dio. Essa afferma tranquillamente che Dio è in grado di creare degli esseri spirituali senza dover consultare l’uomo.
    Secondo la tradizione apocalittica quattro sono gli arcangeli che circondano il trono di Dio. Sono chiamati gli angeli della presenza: i loro nomi sono Gabriele, Michele, Raffaele ed Uriele. Durante l’avvento ci soffermiamo solo sulla figura di Gabriele, che è menzionato nella liturgia. Il suo nome significa “Dio è la mia forza”. Come tutti gli esseri di questo mondo, la prima reazione di chi li vede è di essere spaventato. Gabriele inizia sempre una sua missione rassicurando il suo interlocutore: «Non temere».
    Egli è l’Arcangelo della Buona Novella, il messaggero di Dio. Nella tradizione sinagogale Gabriele è inviato da Dio in Egitto quando i Faraoni maltrattano gli ebrei: «Una donna incinta pestava l’argilla per farne mattoni. Perse il suo bambino e questo fu calpestato con l’argilla. Gabriele discese e ne fece un mattone, lo trasportò in cielo e lo dispose come predella sotto lo sgabello del Signore del mondo. Allora Dio decise di intervenire per liberare il suo popolo».
    Gabriele viene nominato poi nel libro del profeta Daniele. Lo vediamo nel ruolo di interprete di testi. Daniele si sta interrogando disperatamente su una parola del profeta Geremia sui settant’anni dovuti alle rovine di Gerusalemme (Ger 25, 11-12):
    «Vidi che il numero degli anni di cui il Signore aveva parlato al profeta Geremia e durante i quali Gerusalemme doveva essere in rovina, era di settant’anni» (Dn 1, 2). I settant’ anni di Ger 25, 12 sono riferiti alla supremazia babilonese. Gabriele appare a Daniele all’ora dell’offerta della sera (Dn 9, 21). Spiega che i settant’anni di Geremia si riferiscono a settanta settimane (Dn 9, 24). Dopo le 70 settimane la visione e la profezia sono sigillate.
    Non c’è più bisogno di un’altra rivelazione. Poi Dio unge il Santo dei Santi, cioè manda il suo Messia. Il Tempio viene unto con la presenza del Messia (Ml 3, 1-2; cfr. Mt 12, 6).
    Nel vangelo dell’infanzia di Luca questa profezia viene ripresa. Ci sono settanta settimane prima che il Messia entri nel Tempio. Vengono menzionati i sei mesi della gravidanza di Elisabetta, i nove mesi della gravidanza di Maria, poi i quaranta giorni prima della presentazione al Tempio. In tutto corrispondono a 450 giorni, più 40 giorno prima della presentazione al Tempio. Il totale è 490 giorni. Ora 490 giorni sono 70 settimane prima che il Messia entri nel santuario. Per Luca la profezia di Daniele si è adempiuta con la nascita di Gesù.
    L’angelo Gabriele appare prima a Zaccaria nel Tempio, poi a Maria nella sua casa. A Zaccaria Gabriele comunica la nascita del figlio Giovanni (Lc 1, 8-20). «Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni», gli viene annunciato. Zaccaria, incredulo, chiede spiegazioni, non ritenendo possibile il lieto evento a causa della sua vecchiaia e dell’età avanzata della moglie. La risposta dell’Arcangelo offre ulteriori dettagli sulla sua identità: «Io sono Gabriele, che sto innanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio».
    Sei mesi dopo, quando Gabriele saluta Maria a Nazaret dice: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te... Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo» (Lc 1, 26-38). Quello dell’Arcangelo Gabriele a Maria è l’annuncio più noto della storia. La tradizione della Chiesa identifica nell’annuncio dell’Arcangelo alla Vergine, e nella docile accoglienza di Lei del volere divino, il momento in cui Dio ha assunto la natura umana: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14). A Maria, Gabriele, rivela anche: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio». Nel Vangelo di Luca si legge «fu mandato»; l’Arcangelo Gabriele è dunque il messaggero di Dio, incaricato di spiegare alla «vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe» il modo in cui Dio si vuole incarnare. Evocare la figura dell’Arcangelo Gabriele significa ricordare tutta la storia della salvezza nella sua dimensione passata e presente. Dio è il maestro di questa storia.
    Gregorio Magno commenta la scena dell’annunciazione nelle sue Omelie sui Vangeli: «Non è un angelo qualunque, ma l’Arcangelo Gabriele che viene inviato alla Vergine Maria. In effetti, toccava al più grande degli angeli venire ad annunciare il più grande degli eventi. La Scrittura gli dà un nome speciale e significativo, si chiama Gabriele, che significa forza di Dio. Fu dunque per forza di Dio che gli fu riservato di annunciare la nascita del Dio degli eserciti, dei forti nei combattimenti che vennero a trionfare sulle potenze dell’aria».

    (L'Osservatore Romano 20 novembre 2021)

    18. Il profeta Isaia. Dio è fedele alla sua parola

    Il razionalismo moderno ha voluto ricondurre gli arcangeli a semplici personificazioni di realtà psicologiche. La tradizione biblica non ha ritenuto giusto imporre un limite alla potenza creatrice di Dio. Essa afferma tranquillamente che Dio è in grado di creare degli esseri spirituali senza dover consultare l’uomo.
    Secondo la tradizione apocalittica quattro sono gli arcangeli che circondano il trono di Dio. Sono chiamati gli angeli della presenza: i loro nomi sono Gabriele, Michele, Raffaele ed Uriele. Durante l’avvento ci soffermiamo solo sulla figura di Gabriele, che è menzionato nella liturgia. Il suo nome significa “Dio è la mia forza”. Come tutti gli esseri di questo mondo, la prima reazione di chi li vede è di essere spaventato. Gabriele inizia sempre una sua missione rassicurando il suo interlocutore: «Non temere».
    Egli è l’Arcangelo della Buona Novella, il messaggero di Dio. Nella tradizione sinagogale Gabriele è inviato da Dio in Egitto quando i Faraoni maltrattano gli ebrei: «Una donna incinta pestava l’argilla per farne mattoni. Perse il suo bambino e questo fu calpestato con l’argilla. Gabriele discese e ne fece un mattone, lo trasportò in cielo e lo dispose come predella sotto lo sgabello del Signore del mondo. Allora Dio decise di intervenire per liberare il suo popolo».
    Gabriele viene nominato poi nel libro del profeta Daniele. Lo vediamo nel ruolo di interprete di testi. Daniele si sta interrogando disperatamente su una parola del profeta Geremia sui settant’anni dovuti alle rovine di Gerusalemme (Ger 25, 11-12):
    «Vidi che il numero degli anni di cui il Signore aveva parlato al profeta Geremia e durante i quali Gerusalemme doveva essere in rovina, era di settant’anni» (Dn 1, 2). I settant’ anni di Ger 25, 12 sono riferiti alla supremazia babilonese. Gabriele appare a Daniele all’ora dell’offerta della sera (Dn 9, 21). Spiega che i settant’anni di Geremia si riferiscono a settanta settimane (Dn 9, 24). Dopo le 70 settimane la visione e la profezia sono sigillate.
    Non c’è più bisogno di un’altra rivelazione. Poi Dio unge il Santo dei Santi, cioè manda il suo Messia. Il Tempio viene unto con la presenza del Messia (Ml 3, 1-2; cfr. Mt 12, 6).
    Nel vangelo dell’infanzia di Luca questa profezia viene ripresa. Ci sono settanta settimane prima che il Messia entri nel Tempio. Vengono menzionati i sei mesi della gravidanza di Elisabetta, i nove mesi della gravidanza di Maria, poi i quaranta giorni prima della presentazione al Tempio. In tutto corrispondono a 450 giorni, più 40 giorno prima della presentazione al Tempio. Il totale è 490 giorni. Ora 490 giorni sono 70 settimane prima che il Messia entri nel santuario. Per Luca la profezia di Daniele si è adempiuta con la nascita di Gesù.
    L’angelo Gabriele appare prima a Zaccaria nel Tempio, poi a Maria nella sua casa. A Zaccaria Gabriele comunica la nascita del figlio Giovanni (Lc 1, 8-20). «Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni», gli viene annunciato. Zaccaria, incredulo, chiede spiegazioni, non ritenendo possibile il lieto evento a causa della sua vecchiaia e dell’età avanzata della moglie. La risposta dell’Arcangelo offre ulteriori dettagli sulla sua identità: «Io sono Gabriele, che sto innanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio».
    Sei mesi dopo, quando Gabriele saluta Maria a Nazaret dice: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te... Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo» (Lc 1, 26-38). Quello dell’Arcangelo Gabriele a Maria è l’annuncio più noto della storia. La tradizione della Chiesa identifica nell’annuncio dell’Arcangelo alla Vergine, e nella docile accoglienza di Lei del volere divino, il momento in cui Dio ha assunto la natura umana: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14). A Maria, Gabriele, rivela anche: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio». Nel Vangelo di Luca si legge «fu mandato»; l’Arcangelo Gabriele è dunque il messaggero di Dio, incaricato di spiegare alla «vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe» il modo in cui Dio si vuole incarnare. Evocare la figura dell’Arcangelo Gabriele significa ricordare tutta la storia della salvezza nella sua dimensione passata e presente. Dio è il maestro di questa storia.
    Gregorio Magno commenta la scena dell’annunciazione nelle sue Omelie sui Vangeli: «Non è un angelo qualunque, ma l’Arcangelo Gabriele che viene inviato alla Vergine Maria. In effetti, toccava al più grande degli angeli venire ad annunciare il più grande degli eventi. La Scrittura gli dà un nome speciale e significativo, si chiama Gabriele, che significa forza di Dio. Fu dunque per forza di Dio che gli fu riservato di annunciare la nascita del Dio degli eserciti, dei forti nei combattimenti che vennero a trionfare sulle potenze dell’aria».

    (L'Osservatore Romano 27 novembre 2021)

    19. Giuseppe, il santo silenzioso

    La Bibbia conosce due personaggi che portavano il nome di Giuseppe figlio di Giacobbe, il primo è vissuto in Egitto al tempo dei Faraoni e ha salvato l’Egitto e Israele dalla carestia, il secondo è vissuto in Israele al tempo di Erode il Grande. Entrambi sono noti per i loro sogni e hanno avuto un ruolo provvidenziale nella storia della salvezza. Entrambi furono ospiti in Egitto. San Bernardo nel suo trattato Super missus est, 2 riprende questo parallelismo: «Il primo ha messo in riserva il grano non per sé, ma per il popolo; il secondo ha ricevuto la custodia del pane del cielo non solo per il popolo, ma anche per sé». C. Péguy, nel suo libro, Le mystère des saints innocents (Paris 1912, 122) scrive: «Si tratta di una storia unica, ma fu rappresentata due volte: una volta nel giudaismo, la seconda volta nel cristianesimo». Forse una terza dimensione nascosta è presente in questa storia. Alla fine dei tempi un grido di gioia sarà ascoltato nelle tende di Giacobbe: Giuseppe tuo figlio è vivo e governa la terra d’Egitto. E chiaro che la Bibbia utilizza la tipologia sottolineando che il Nuovo Testamento porta a compimento l’Antico. La continuità tra i due Testamenti non può essere dimenticata. Ci fermeremo qui solo al secondo personaggio che la Bibbia chiama un uomo giusto.
    Il contesto della sua vita era la Galilea e in particolare la città di Sepphoris dove lavorava come falegname (tekton). Molti archeologi sono arrivati a questa conclusione, R. A. Batey in modo particolare. Lo storico Flavio Giuseppe Flavio menziona per la prima volta la capitale della Galilea sotto il regno di Alexandro Gianneo e la considera come la «perla della Galilea». La città divenne la capitale della Galilea nel 55 prima di Cristo, dopo l’intervento in Giudea del governatore della Siria Aulo Gabinio. Dopo la morte di Erode il Grande nel 4 a. C. Sepphoris fu la sede della rivolta guidata da Giuda il Galileo. Fu assediata e bruciata dal generale romano Varo, poi nuovamente distrutta dal nabateo Areta IV . Erode Antipa rifondò la città sotto il nome di Autocratoris, ne fece la sede della sua tetrarchia. La città godette dello status di città dal 67-68 sotto il nome di Irenopolis. Che Sepphoris non conservi nessun ricordo del culto di san Giuseppe non è strano: il culto a san Giuseppe comincia soltanto nel Medio Evo.
    Alcuni esegeti pretendono che non si possa scrivere né una vita di Gesù né una vita di Giuseppe. È vero fino a un certo punto, ma è permesso di mettere i testi della scrittura nel loro contesto. Una scelta si impone: il contesto giudaico o ellenistico. Per chi vive in Terra Santa è chiaro che i Vangeli scritti in greco riflettono una mentalità semitica. Bisogna mettere il testo dei Vangeli nel loro contesto storico ebraico. Dopo la critica letteraria è permessa la critica storica. Gli apocrifi hanno cercato di colmare i silenzi della Scrittura, ma lo facevano per difendere le loro idee teologiche che spesso erano eterodosse. Non ci servono molto. Bisogna accettare il silenzio della Scrittura, sapendo che nella meditazione si trova l’ispirazione.
    Bisogna rimettere la figura di Giuseppe all’interno del giudaismo ellenizzato del primo secolo che le fonti rabbiniche e l’archeologia ci permettono di conoscere. Luca e Matteo hanno inaugurato una riflessione teologica che rilegge la vocazione di Myriam e di Giuseppe. Ma queste due riflessioni teologiche riposano su una realtà storica che non si può negare. Luca e Matteo non si contraddicono, ma si completano. Non si tratta di scrivere una armonia evangelica al modo di Tatiano, ma piuttosto di fare una lettura polifonica dei testi. Il Vangelo dell’infanzia ci viene presentato da Matteo in maniera drammatica. Gesù nasce ed Erode ordina l’uccisione di tutti i bambini di Betlemme, la famiglia deve fuggire il Egitto. Il racconto di Luca presenta un’atmosfera differente. Gesù nasce e non solo la famiglia non fugge, ma addirittura va nella tana del lupo: va a Gerusalemme, al Tempio a presentare Gesù. Perché queste differenze? Il messaggio che gli evangelisti presentano è identico, e si può sintetizzare in una parola: l’amore universale di Dio. Le forme e le formule con le quali questo messaggio viene trasmesso sono differenze che dipendono e dallo stile letterario e dal piano teologico dell’evangelista. Mentre Matteo si rivolge a una comunità dei giudei, Luca ha un respiro diverso. Quando Luca ricorda che «il loro posto non era nella sala comune» (kataluma 2, 7) pensa alla disposizione delle case antiche che avevano una grande sala sotto la quale le bestie erano alloggiate perché riscaldavano la casa. Una mangiatoia aveva lì il suo posto. Una donna incinta non poteva stare nella sala comune per motivi di purità rituale. Doveva ritirarsi per quaranta giorni per non dare fastidio a tutti quelli che abitavano nella casa. I Vangeli pur contenendo elementi storici non sono una cronaca, ma una teologia. Fanno appello al genere letterario del midrash cristiano. Il midrash, rilettura teologica della Scrittura, suppone una base storica, altrimenti non sarebbe più un midrash, ma una pura fantasia. Passare da Matteo a Luca è possibile in un tentativo di lettura storica. Le informazioni riguardanti Myriam derivano da ricordi di prima mano della stessa madre di Gesù, ancora presente tra gli apostoli quando Luca svolse la propria raccolta di informazioni. Mentre il racconto di Matteo si rifà a elementi più pubblici (Erode, la strage degli innocenti, i Magi) ma anche a un nucleo di testimoni più ampio. L’umiltà di Giuseppe è degna dell’umiltà di Myriam.
    Il carattere virginale del matrimonio di Giuseppe e di Myriam custodisce il suo significato in un mondo dove le esigenze della sessualità sono messe in rilievo in modo tale da far dimenticare l’esigenza della comunione degli spiriti e dei cuori. L’agapê di Dio ha assunto la realtà dell’amore coniugale donandogli un senso nuovo. La contemplazione del mistero del Figlio di Dio fu per Giuseppe e Myriam il centro dell’esistenza coniugale. La preoccupazione del Regno di Dio è stata capace di integrare le forze dell’affettività.
    La vita di Giuseppe era centrata sul servizio di Myriam e del suo figlio Gesù. La sua grandezza, il primo formatore di Gesù, è di rimandare a Cristo. Non conosciamo una sua parola. È il santo del silenzio. Il giudaismo non è ortodossia, ma ortoprassi. L’albero si riconosce dai frutti che dà.

    (L'Osservatore Romano 4 dicembre 2021)

    20. Betlemme, la casa del pane

    Certi luoghi hanno un destino storico. Sono stati benedetti dal cielo. Non si finisce mai di approfondire il loro messaggio. È il caso di Betlemme, la città di Davide e del figlio di Davide. Il ciclo dei Patriarchi menziona Betlemme come luogo della morte di Rachele, la moglie di Giacobbe. Gn 35, 19 ricorda che, durante il viaggio da Bethel a Efrata, per la moglie prediletta di Giacobbe giunse il tempo di partorire. Il parto si rivelò difficile. Poco dopo aver dato alla luce il figlio Beniamino, «Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme». Dopo aver eretto una stele sulla sua tomba Giacobbe piantò la tenda al di là di Migdal Eder (Gn 35, 21). Questa ultima menzione geografica è stata oggetto di una interpretazione messianica nella Sinagoga. «Giacobbe piantò la tenda al di là della torre del gregge, luogo da cui il Re Messia deve manifestarsi alla fine dei tempi». Per l’autore di questa tradizione targumica la storia del popolo israeliano è quella di un grande pellegrinaggio: il popolo è in cammino, in cerca della sua patria. Quando il Messia il pastore del suo popolo pianterà la sua tenda tra gli uomini, troverà la vera dimora. Betlemme viene chiamata anche “Efrata” che significa “fruttuosa, fertile, feconda”. Giuseppe il Patriarca, figura del Messia, è chiamato germoglio fecondo (Gn 49, 22).
    Il Libro dei Giudici menziona parecchie volte Betlemme. L’episodio più famoso è senza dubbio l’idillio di Rut e Booz. La parte finale del Libro di Rut è nota perché viene ripresa nella genealogia di Gesù: «Salmon generò Booz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse, Iesse generò David». Da notare che l’antenata di Davide è una moabita.
    Il Libro di Rut racconta la vicenda di una famiglia ebrea del tempo dei Giudici. A causa di una carestia, Elime-lech, sua moglie Noemi e i loro due figli lasciarono Betlemme per andare nella campagna di Moab. Dopo la morte del marito e dei figli, a Noemi non rimase altro che tornare a casa. Allora una delle due nuore, Rut, la moabita, decise di accompagnare la suocera nel viaggio verso un paese straniero. Vicino alla città di Betlemme si trovava il campo di Booz, un lontano parente del marito di Noemi. Quando Rut si recò in questo campo per spigolare dietro ai mietitori, Booz si informò su di lei e le venne in soccorso. Poco dopo, Booz decise di sposare la moabita Rut. Ma egli doveva prima riscattare il campo messo in vendita da Noemi. Gli anziani della città, benedicendo la coppia di sposi, fecero a Booz questo augurio: «Procurati ricchezza in Efrata, fatti un nome in Betlemme» (Rt 4, 11).
    Il Libro di Rut incomincia parlando di una carestia. I predicatori delle Sinagoghe ricordavano dieci carestie di cui l’umanità ha sofferto: «La decima non sarà una carestia ordinaria. Gli uomini non avranno fame di pane né sete di acqua. Avranno fame della parola di Dio».
    Rut 3, 15 contiene un’altra tradizione messianica. Riferisce l’incontro di Booz con Rut nei campi. Il giorno seguente Booz, non volendo che Rut partisse come era venuta, le diede sei misure d’orzo che caricò sulle sue spalle ed ella tornò a Betlemme. L’interpretazione sinagogale delle sei misure d’orzo vi scopre una portata simbolica. Rut vede in quelle sei misure un annuncio dei sei giusti che sarebbero discesi da lei: «Questi giusti sono Davide, Daniele e i suoi compagni e il Re Messia».
    Betlemme è celebre per aver dato i natali a Davide. Rut la moabita è considerata come l’antenata di Davide.
    1 Sam 16, 12 descrivendo Davide fulvo aggiunge: «Era bello». La Bibbia greca precisa: «Era bello davanti al Signore». 2 Sam 23 ha conservato le ultime parole di Davide dove il Targum vede una allusione all’era messianica: «Il forte d’Israele che domina tutti i figli degli uomini. Egli giudica con verità. Egli ha deciso di nominare un Re. È il Messia che sorgerà e governerà nel timore del Signore».
    Il Vangelo di Matteo 2, 1-6 si rifà alla profezia di Michea 5, 1 per giustificare la nascita di Gesù a Betlemme. Questa profezia ha una forte risonanza messianica nella liturgia giudaica: «E tu Betlemme di Efrata tu eri troppo piccola per essere tra le migliaia della casa di Giuda. Da te uscirà il Re Messia per esercitare il dominio su Israele». Non si dirà mai abbastanza l’importanza di leggere il testo nel suo contesto giudaico.
    A sud di Betlemme il Re Erode fece costruire una grande fortezza che doveva custodire la sua tomba. La logica biblica si verifica una volta di più: rovescia i potenti dai troni, esalta gli umili.
    Evocare Betlemme significa ricordare la patria del Messia e dei suoi antenati. Dio è fedele alla parola giurata a Davide. Girolamo la chiama la casa del pane che viene dato a chi ha fame della parola.
    Nel mondo biblico il pane è l’alimento essenziale per la vita. Elargendo miracolosamente il pane per mezzo del profeta Eliseo e del suo stesso Figlio, Dio si rivela come colui che vuole che l’uomo viva nella verità piena della sua natura corporea e spirituale: «Dacci oggi i nostro pane quotidiano», ripete la preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli.
    Nell’uomo, oltre alla fame fisica e corporea, è presente un’altra fame, il desiderio di un altro pane: «Dobbiamo essere affamati di Dio: dobbiamo mendicare pregando alla porta della sua presenza, ed egli darà il cibo agli affamati» (Sant’Agostino, En. in Ps., 145, 16).
    Replicando alla tentazione del diavolo nel deserto, Gesù, citando Dt 8, 3 dice: «Non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4).
    L’uomo ha fame e sete di Dio; meglio: l’uomo è fame e sete di Dio. «Il pane che io darà è la mia carne per la vita del mondo», dice Gesù a Cafarnao dopo aver moltiplicato il pane (Gv 6, 51). E fino a quando non soddisfa questa fame e sete, l’uomo non ha pace. «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Sant’Agostino, Conf. 1, 1).
    Betlemme è veramente la casa del pane che viene per salvare l’umanità dalla fame. La sua gloria maggiore fu quella d’aver dato i natali a Gesù e di essere con tutti i suoi dintorni vibrante dei ricordi degli ineffabili misteri in essa compiutisi.

    (L'Osservatore Romano 11 dicembre 2021)

    21. O Sapienza

    «Nel giudaismo ellenistico Sophia corrisponde alla Shekinah, “la Gloria di Dio”, una figura che ha un ruolo chiave nella cosmologia cabalistica come espressione dell’aspetto femminile di Dio. Come la Sophia gnostica, la Shekinah riveste un duplice ruolo, siede a fianco di Dio, ma viene anche esiliata nel mondo della materia» (M. Eliade). Non si tratta qui di una persona, ma di una personificazione. Raffigurare un concetto astratto con caratteristiche umane è ammesso in diverse letterature. Proprio perché proviene da Dio, in qualche testo la sapienza è personificata e posta accanto a Dio. Essa è generata prima della creazione e predica nelle piazze invitando tutti al suo banchetto: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra… Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso,… io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8, 22-31). La personificazione della sapienza è una figura poetica che testimonia il divino senza identificarsi con Dio. La Sapienza appare in Pr 8, 1-36 come unica mediatrice tra l’unico Dio e l’umanità: la sua parola unifica la parola del cosmo che come la Sapienza dà testimonianza del Creatore. Essa stessa si presenta come colei che presiede alla creazione, come la forza creativa che fa della creazione un’opera che Dio considera una «cosa molto buona» (Gen 1, 31). La reciprocità che Dio stabilisce con l’opera delle sue mani riflette il rapporto ludico che intercorre tra Dio e la Sapienza. Pr 8 descrive la relazione tra Sapienza e sapiente come amore reciproco (Pr 8, 17.21), gioia donata e ricevuta. La Sapienza è descritta come fonte di vita (Pr 8, 35) ed i suoi ascoltatori sono invitati come figli a prestare ascolto al suo insegnamento. Pr 8, 32b.34 contiene due beatitudini legate all’ascolto del suo insegnamento.
    In Sap 7, 22 l’elogio della sapienza sottolinea che in essa c’è un spirito santo, unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante, senza macchia, terso, inoffensivo, amante del bene, acuto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, senza affanni, onnipotente, onniveggente e che pervade tutti gli spiriti intelligenti, puri, sottilissimi. Quest’elogio della Sapienza che è partecipe dell’intimità di Dio (Sap 8, 3), che possiede la sua onnipotenza e collabora con la sua opera creatrice (Sap 8, 4) annuncia la teologia dello Spirito Santo. Ventuno attributi stanno a significare la sua perfezione. Importante sottolineare che nella Sapienza è presente un spirito.
    In Sir 24, 3-6 la Sapienza si presenta come uscita dalla bocca di Dio, la sua Parola: «Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e come nube ho ricoperto la terra. Io ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi. Ho percorso da sola il giro del cielo, ho passeggiato nelle profondità degli abissi (Sap 1-6)». Il libro abbraccia una visione del passato di Israele al quale si richiama la parte finale del libro (Sap 10-19). In essa l’escatologia si collega alla storia attraverso il ruolo del cosmo. Al centro del libro sta certamente l’elogio della sapienza (Sap 7-9), mediatrice tra Dio e l’uomo.
    Si può dire che il libro della Sapienza è caratterizzato da uno stile midrashico. L’autore si pone infatti come ponte di incontro della sapienza giudaica all’interno del mondo culturale dell’ellenismo. La celebrazione della sapienza non loda una virtù umana, ma chiede a Dio la sapienza divina. Lo sfondo del libro rimane sempre la Scrittura ebraica, riletta e riproposta dall’autore attraverso la cultura ellenistica. L’autore colora il genere letterario dell’elogio con quello del midrash, un modo di procedere tipico della letteratura giudaica.
    Nella prima parte del libro (Sap 1-6) l’autore tiene presente gli interrogativi di Giobbe e di Qohelet. Rileggendo Gen 1-3 e meditando sulla giustizia di Dio, l’autore nel giudizio finale prospetta l’incorruttibilità per i giusti e una triste sorte per gli empi. Giobbe 28, 12-28 poneva la domanda: «Ma la saggezza, dove trovarla?... L’abisso dice: “Non è in me”; il mare dice: “Non sta da me”... Da dove viene dunque la saggezza?... Quando Dio diede una legge alla pioggia e tracciò la strada al lampo dei tuoni, allora la vide e la rivelò, la stabilì e anche l’investigò. E disse all’uomo: “Ecco, temere il Signore, questa è saggezza”».
    La Sapienza parlando di sé pone il lettore dinanzi all’ineffabile mistero di Dio. Mediatrice tra Dio e l’uomo, essa parla in prima persona esprimendo un’autorità superiore a quella dei profeti i quali non parlavano in prima persona, con un’autorità propria, ma nel nome di Dio.

    (L'Osservatore Romano 18 dicembre 2021)

    22. La stella

    «Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” (...) Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia» (Matteo 2, 1-12).
    Tre volte viene menzionata la stella nel racconto della nascita di Gesù. A Natale una stella non può mancare in nessun presepe. Secondo la tradizione è stata proprio questa stella a guidare i Re Magi verso il luogo che ospitava il bambino Gesù e per questo in genere durante la preparazione del presepe la si sistema in cima alla capanna e si attende il 6 gennaio, l’Epifania, per aggiungere le statuine dei Magi. La stella è da sempre circondata da un alone di mistero che riguarda tanto la sua natura quanto la sua effettiva esistenza. Partendo dal Vangelo di Matteo vediamo il significato della stella.
    Per i profeti la stella era il simbolo del messia e quindi dell’arrivo di Gesù. Si fa riferimento in questo caso alla profezia di Balaam che viene menzionata in Numeri 24, 17: «Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spezza le tempie di Moab e il cranio dei figli di Set».
    La stella che spunta da Giacobbe sarebbe appunto la stella del Messia, anzi il Messia, la stella di Betlemme. La versione sinagogale non ha dubbi: «Un Re deve alzarsi dalla casa di Giacobbe, un liberatore e un capo dalla casa di Israele». Matteo ha inserito il riferimento all’astro per sottolineare questa corrispondenza in particolare per i lettori di cultura ebraica.
    Israele uscito dall’Egitto ha raggiunto le steppe di Moab in Trans-giordania e semina il panico tra i moabiti e ammoniti. Costoro decidono di ricorrere non tanto alle armi quanto piuttosto alla magia. Il re Balak di Moab interpella appunto Balaam perché, con le sue maledizioni, riesca ad arrestare questa orda di invasori. Ma ecco la grande sorpresa: con tutta la sua scienza, il mago non riesce ad emettere se non benedizioni, divenendo paradossalmente un “profeta” di Israele, malgrado sé stesso, il suo desiderio e l’attesa del suo committente, il re moabita. Il racconto dei capitoli 22-24 del libro dei Numeri è vivace e rivela anche qualche spunto curioso, come quello dell’asina che parla la quale si schiera, anch’essa, dalla parte degli Ebrei (22, 22-35). Lo sguardo del mago-profeta si allunga verso un futuro ancora nebuloso e lontano e là egli intravede due segni, una stella e uno scettro, due simboli regali.
    Questa lettura simbolica non esclude le ipotesi storiche proposte dagli scienziati che sono sempre più numerose. La lettura letterale di un testo permette anche una lettura spirituale, perché la scrittura ha 70 sensi. Il simbolismo senza abbandonare la storia mira ad aprire le porte dell’intuizione sull’al di là della storia. L’ipotesi che la stella di Betlemme fosse una cometa, o qualcosa di simile, risale a Origene, che non si basa su tradizioni precedenti, ma suppone che si sia trattato di una nuova “stella”, cioè di un evento eccezionale, probabilmente allo scopo di non deviare dal rifiuto della pratica astrologica, consueto anche fra i cristiani. Origene cita il perduto trattato Sulle comete, scritto dal precettore di Nerone, Cheremone, secondo il quale era prassi accettata che l’apparizione di comete o nuovi astri segnalasse la nascita di importanti personaggi ed era quindi plausibile che i Magi si fossero messi in viaggio al suo apparire.
    Il simbolismo della stella ha anche altre valenze. Il profeta Isaia nel predire la distruzione di Babilonia sfida i consiglieri astrologi che osservavano le stelle a salvare la città condannata: «Tu Babilonia ti sei stancata della moltitudine dei tuoi consiglieri. Stiano in piedi ora e ti salvino gli adoratori dei cieli, quelli che osservano le stelle» (Isaia 47, 13).
    Una profezia di Daniele, 8 descrive il piccolo “corno” di una futura potenza mondiale nell’atto di calpestare alcune stelle appartenenti «all’esercito dei cieli» e avanzare contro il Principe dell’esercito e il suo santuario (ibidem 8, 9-13); mentre in Daniele, 12, mediante una similitudine, coloro che «hanno perspicacia» e portano altri alla giustizia sono raffigurati nel «tempo della fine» luminosi «come le stelle».
    Nel sogno di Giuseppe il patriarca i genitori sono rappresentati dal sole e dalla luna e gli undici fratelli da undici stelle (Genesi 37, 9). Giobbe 38, 7 fa un parallelo fra le stelle del mattino che gioiscono in coro e tutti gli angeli (angeloi) figli di Dio. L’identificazione delle stelle con gli angeli traspare in molti testi biblici o nella letteratura giudaica. Perciò diversi padri della Chiesa fra cui Giovanni Crisostomo non videro alcuna contraddizione nel fatto che una stella, cioè un angelo, scendesse in terra a guidare i Magi sino alla casa di Giuseppe, secondo la narrazione popolare in analogia alla guida data a Israele durante l’esodo (Esodo 14, 19). Alla Chiesa di Tiatira Gesù promette di dare la stella del mattino a chi è rimasto fedele durante la tribolazione (Apocalisse 2, 28). Infine i sette angeli della Chiesa sono simboleggiati da sette stelle nelle mani di Dio (Apocalisse 2, 1).
    L’oscurarsi delle stelle è una figura che ricorre in avvertimenti profetici di disastri del giudizio di Dio (Isaia 13, 10; Ezechiele 32, 7). Segni nel sole, nella luna e nelle stelle sono stati predetti come evidenza del tempo della fine (Luca 21, 25). Al simbolo della stella è associato anche quello della luce messianica e della gioia. Il tema della luce compare in molte altre profezie tradizionalmente applicate al Messia, fra cui quella di Isaia 60, 1-6. Infine nel Salmo 71 si prediceva che al Messia sarebbe stato donato «oro d’Arabia» e che «i re degli Arabi e di Saba» gli avrebbero «offerto tributi». Ed ecco l’adorazione dei Magi, che con il loro oro legittimano Gesù in base ai simboli biblici.
    Il Nuovo Testamento dà la realtà di quanto annunciato nell’Antico, latet patet (è nascosto - è apparente), diceva sant’Agostino. L’Antico contiene il Nuovo, il Nuovo illumina l’Antico.

    (L'Osservatore Romano 23 dicembre 2021)

    23. In fretta incontro allo Sposo

    A fine novembre Gerusalemme concede ancora qualche giornata quasi estiva. Dal terrazzo del convento della Flagellazione la vista regala emozioni: ad est il monte degli ulivi, su a nord il Santo Sepolcro, e proprio davanti al naso la cupola d’oro della moschea della Roccia nella spianata del Tempio. Convincere padre Frederic a salire in terrazza a raccontarsi non è stato facile. Un pedinamento durato mesi «la mia vita non ha nulla di speciale, a chi può interessare? Sono solo un innamorato della Parola».
    L’umiltà più profonda con cui esercitava la sua grande sapienza è stata la vera cifra dell’esistenza di Frederic Manns.
    Intervista di Roberto Cetera

    «Ma, padre Manns, da un anno ormai i lettori dell’Osservatore Romano godono dei suoi “Racconti della domenica”; in tanti ci hanno chiesto di poterla conoscere meglio». Alla fine, quando gli ho riferito che anche Papa Francesco è tra i suoi lettori affezionati, ci ha dedicato un paio d’ore su quella bella terrazza, sorseggiando caffè italiano. Il racconto di una vita che riascoltato oggi, solo qualche settimana dopo, ha il sapore di un testamento, che a chi scrive dà onore e tremore. Più volte nel nostro incontro ricorre il tema dell’“incontro con lo Sposo”. «Sono molto contento di quello che il Signore mi ha donato in questa vita. Era in gran parte inaspettato e imprevedibile. Non avrei mai immaginato di passare gran parte della mia vita qui, nella sua terra. Il Signore agisce sempre sorprendendoci. Spero di aver fatto bene. Ora non mi resta che l’incontro con lo Sposo». Mi chiedo oggi se in quelle parole (scioccamente da me subito confutate con scongiuri) non ci fosse il sentire di una fine vicinissima, per quanto allora del tutto imprevedibile. D’altronde «Sai per quanto mi sforzi di essere razionale, Gerusalemme induce sensibilità ulteriori e inspiegabili. Succedono cose incredibili da queste parti. Quante conversioni improvvise, quante coincidenze inspiegabili, quanti avvenimenti sorprendenti e provvidenziali ho visto in questi 40 anni qui. È come se ci fosse un magnetismo, un’energia sconosciuta sotto queste pietre bianche. È come se questa terra abbia trattenuto un po’ dell’energia trasformante del Risorto che la camminava. C’è un filo diretto con la Gerusalemme celeste. Per questo io dico sempre che Gerusalemme non va solo vista e calpestata, ma soprattutto “sentita”. Io la “sento” ad ogni frazione del giorno. Mi dà una gioia incredibile vivere qui. Non potrei immaginarmi altrove. Pregare e celebrare l’ Eucaristia qui è veramente un anticipo dell’incontro sponsale. Mi credi?».

    Da quanti anni vive qui padre Frederic?
    «Da tanti. Sono venuto qui la prima volta nel 1972, quando sono stato ammesso al dottorato. Ero francescano già da più di 10 anni, e ordinato da 3. Vengo da quella parte della Francia che è però vicinissima alla Germania, forse è per questo che mi sono sempre sentito cittadino del mondo. Nacqui in tempo di guerra in Croazia: tempi duri, qualcuno della mia famiglia era stato coinvolto nel regime di Vichy. I miei poi tornarono con me giovanetto a vivere a Strasburgo. Mi piaceva studiare: a 18 anni avevo completato i miei studi in Filosofia, e 4 anni più tardi presi la prima laurea in lettere classiche, amavo il greco antico. Poi nel 1961 feci la mia professione tra i frati minori e cominciai i miei studi teologici. L’attrazione per la parola di Dio era forte così nel ’70 mi trovai a Roma per studiare all’Istituto Biblico per due anni. Poi venni qui e continuai».
    E cosa studiava in particolare?
    «Mi affascinava conoscere in particolare l’ambiente culturale e religioso in cui era vissuto Gesù; vede, se noi pensiamo al cristianesimo non come un’idea ma come un incontro vivo con una persona, dobbiamo conoscere da vicino quella Persona, dove viveva, come viveva». Lo studio dell’ambiente giudaico del primo secolo (soprattutto alla luce del Vangelo di Giovanni, e della vita delle prime comunità cristiane), costituirà negli anni a seguire il fil rouge della ricerca di padre Manns, e a cui dedicherà molti dei suoi libri. Attraverso essi inaugurerà un suo stile personale di grande successo: la ri-narrazione di brani della Scrittura, in linguaggio piano e a tutti accessibile, fuori della lettura stereotipata convenzionale. Una ri-narrazione arricchita da pennellate descrittive dell’atmosfera culturale e rituale e dalle midrash del tempo. Apparentemente più semplice, nella sostanza più ricca.

    «Manns non racconta la Bibbia, te la fa vivere. I personaggi di cui scrive li rende vivi, te li fa incontrare», ci confidò Papa Francesco dopo aver letto “I racconti della domenica” sull’Osservatore. «Il tema dell’ambiente giudaico del primo secolo — prosegue padre Frederic nel racconto — mi appassionava tanto che decisi di continuare gli studi all’università ebraica di Gerusalemme». Uno stile di scrittura che aveva però un origine e un scopo prettamente pastorali: «Ero stato chiamato a “raccontare” le Scritture ad un movimento ecclesiale che aggrega soprattutto persone provenienti dalla fragilità e spesso prive di alcuna conoscenza della Bibbia. Capii subito che la via migliore per fargli conoscere la Parola di Dio era di presentarla nella sua quotidianità, e quindi di calarla nella loro quotidianità: i Vangeli sono una rassegna di disgraziati bisognosi di salvezza, come lo siamo anche oggi tutti noi». Combinare scientificità e divulgazione era il paradigma del suo lavoro. «Non potevo concepire il mio ruolo semplicemente come “studioso”. Vede, il popolo di Dio è ricco di devozione e pietà religiosa, e spesso anche di carità, ma la Parola di Dio è ancora tanto sconosciuta nella sua ricchezza. Ed è la Parola di Dio, non solo i buoni sentimenti, ciò che cambia le persone nel profondo. Ho accompagnato migliaia di pellegrini in Terra Santa, per me era un’attività essenziale alla mia vocazione. Mi nutrivo delle loro osservazioni, semplici ed intuitive. E insieme ci nutrivamo della Parola di Dio. Con molti di loro sono in contatto epistolare anche dopo anni; quante storie sorprendenti le potrei raccontare dei pellegrini... Il viaggio in Terra Santa è sempre un’occasione per ripensare la propria intera vita, un punto di sospensione della propria esistenza. Un po’ come io ora sto facendo ora con lei (ride). Le ho già detto c’è qualcosa di magnetico sotto questi sassi, succedono cose incredibili in questo posto. Qui lo Spirito parla più che altrove».

    Nel 1996 padre Manns divenne direttore dello Studio Biblicum Franciscanum, che sotto la sua direzione venne riconosciuto al rango di Facoltà. E nel frattempo, oltre all’insegnamento, continuava a scrivere libri, a collaborare ad altre università, a predicare e confessare, a guidare pellegrinaggi, ad insegnare nei seminari di mezzo mondo, cioè ad «amministrare le fragranti parole di Gesù» per dirla come il Custode di Terra Santa Francesco Patton. E a pregare. «Quando all’alba andavo a preparare la chiesa, racconta un sacrista del convento della Flagellazione, lo trovavo che era già lì, chissà da quanto tempo, a pregare».

    Come fa padre Manns a svolgere tutte queste attività ancora oggi?
    «Mi motiva la constatazione che l’Uomo ha fame di Dio. Della Sua Parola. Siamo tutti affamati a mendicare alla sua porta. Finché posso farò di tutto per ricevere e ridonare questo pane. Spero poi di morire qui, dove la Gerusalemme terrena e quella celeste si incontrano. Ma ora devo fare, per andare in fretta incontro allo Sposo».

    (L'Osservatore Romano 30 dicembre 2021)

    24. Il Battesimo di Gesù. Nell’acqua e nello Spirito

    Nella Bibbia l’acqua è simbolo dello Spirito di Dio. All’inizio e alla fine della Bibbia (Genesi 1, 2; Apocalisse 22, 17) l’acqua assolve una funzione decisiva. Essa costituisce l’elemento capitale della creazione e della ricreazione. Il filosofo Talete diceva: L’acqua è la sostanza da cui traggono origine tutte le cose. Isaia promette che «in fine in noi sarà infuso uno Spirito dall’alto. Allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva» (32, 15-20). I tempi nuovi saranno contrassegnati dal dono dello Spirito dall’alto. Non esiste vita senza acqua e spirito.
    Ezechiele (36, 25-27) dopo l’esperienza purificatrice dell’esilio annuncia l’alleanza nuova in questi termini: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati, vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi…». Acqua e Spirito vengono associati. Tutti e due purificano e fanno rinascere.
    Isaia (44, 3), dopo la presentazione del nuovo esodo come nuova creazione, invita Giacobbe a non temere: «Io verserò acqua sul suolo assettato, torrenti sul terreno arido. Verserò il mio Spirito sulla tua discendenza, la mia benedizione sui tuoi posteri». L’acqua e lo Spirito versati sul popolo lo rianimano.
    Zaccaria (12, 10) promette che Dio farà una nuova creazione infondendo un atteggiamento di conversione. Dio si dichiara toccato dalla morte inflitta al suo inviato: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno Spirito di grazia e di consolazione, guarderanno a me che hanno trafitto…». Zaccaria (13, 1) riprende il simbolismo dell’acqua: «In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità». Il dono della sorgente che purifica è la conseguenza della morte violenta del personaggio misterioso che evoca il servo di Dio di Isaia 53.
    In fine il Salmo 51, 9-14 orchestra lo stesso tema: «Lavami e sarò più bianco della neve… Crea in me un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi della tua presenza e non privarmi del tuo santo Spirito». Lo Spirito rappresenta qui la forza vivificante di Dio. Dio ricrea il peccatore dandogli un cuore puro. L’acqua invece ha una funzione purificatrice come in Geremia 4, 14 e in Malachia 3, 2-3. La visione del Salmo 51 è teologica e morale e ha come meta la rigenerazione integrale del peccatore purificato. La purificazione è il primo momento di un’azione divina che ha come secondo momento la ri-creazione dell’uomo. «Laudato si’, mi Signore, per sor’Acqua, la quale è multo utile et umile et preziosa et casta» cantava Francesco d’Assisi.
    Nella cosmologia biblica le acque rivelano un duplice volto, fecondatore e distruttore. Nel diluvio e nel passaggio del mar Rosso appare la valenza distruttrice. Dio che domina le masse acquatiche esercita attraverso di esse il suo potere di giudizio che si attua nella distruzione del mondo antico e dell’umanità peccatrice. D’altro canto, dal grembo delle acque e dall’arca di Noè che galleggia su di esse esce la nuova umanità con la quale Dio stabilisce un’alleanza di pace con tutta l’umanità.
    In Esodo 14-15 nella narrazione del passaggio d’Israele tra le acque del mare viene illustrata la distruzione del Faraone e del suo esercito con un vento forte. Il passaggio del fiume Giordano effettuato sotto la guida di Giosuè è considerato quale vera e propria presa di possesso della Terra Promessa. Senz’acqua non fiorisce la terra, né l’anima senza lacrime. Si rinasce a vita nuova nella fonte battesimale. Il bagno rituale di Qumran era una preparazione al battesimo. L’acqua è in fine un simbolo messianico ed escatologico. Ezechiele 47 nella sua descrizione del Tempio nuovo annuncia che l’acqua uscirà dalla soglia del santuario dal lato destro, penetrerà nelle acque salate del mar Morto e le farà pullulare di pesci. Gli alberi che crescono lungo questo fiume diventeranno medicinali e daranno frutti ogni mese. Giovanni 19 mostra la realizzazione di questo oracolo nella morte di Gesù.
    La ricchezza dell’archetipo dell’acqua appare immediatamente. L’acqua è un simbolo della vita. Gesù paragona la sua parola e il suo insegnamento ad una fontana di acque vive: «L’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 14).
    Nel Nuovo Testamento il Giordano è il fiume sacro per eccellenza, le cui acque simboleggiano la purificazione spirituale e il dono della vita operate dal battesimo (Mt 3, 6). Il battesimo di Gesù nel fiume Giordano è la risposta di Dio alle attese messianiche del Battista e del popolo ebraico. Gesù riceve il battesimo come fosse uno dei tanti penitenti e solo dopo viene riconosciuto dal Padre come figlio di Dio. Il Vangelo di Giovanni sottolinea la testimonianza del Battista: «Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui» (Giovanni 1, 32). Lo Spirito è sceso su Gesù ed è rimasto sempre con lui.
    Ambrogio di Milano rileggendo la Bibbia costata che tutte le unioni dei Patriarchi furono sigillate presso le acque: «Eleazar, servo di Isacco, fece sposare Rebecca vicino all’acqua del pozzo; Giacobbe fece lo stesso per Rachele e Mosè per Sefora. Erano tutti i tipi di nostro Signore, che si fidanzò con la sua Chiesa nelle acque del Giordano».

    (L'Osservatore Romano 8 gennaio 2022)

    25. Le nozze di Cana. Il terzo giorno

    Gesù è invitato alle nozze. Nessun ebreo religioso può rifiutare un invito di questo genere, poiché la presenza al matrimonio permette di compiere un’opera di misericordia. È Dio che ha unito Adamo ed Eva preparando loro uno splendido baldacchino. Siccome l’imitazione di Dio è la norma suprema del comportamento ogni buon ebreo deve rallegrarsi con coloro che conoscono la gioia. Questa gioia umana diventa il trampolino alla rivelazione di Gesù che dà il vino buono.
    I Vangeli sinottici ricordano l’insegnamento di Gesù sul Regno che è simile a un festino nuziale che un re prepara per il suo figlio. Sanno che Gesù si è presentato come lo sposo (Mc 2, 18-20) che ha parlato di vino nuovo (Mc 2, 22). Giovanni orchestra questi temi ricordando che storia e simbolo si completano.
    La realtà storica non può essere messa in dubbio. Le nozze vengono celebrate il terzo giorno dopo il sabato come lo vuole la tradizione giudaica (T. Ketubot 1, 1). Questo dettaglio prepara il terreno per la lettura teologica del giorno della risurrezione. La presenza di giare di pietra è un dato storico, visto che la pietra non trasmette le impurità. In fine la madre di Gesù viene menzionata. Quando una donna si sposa in Oriente cambia il suo nome. Non è più chiamata Maria, ma la madre di Gesù. Cantico dei Cantici 3, 11 ricorda che la madre di Salomone ha avuto il privilegio di deporre il diadema sulla testa del figlio. Nelle nozze del re messia, Maria sua madre è presentata accanto al suo figlio.
    I riti nuziali nell’ambiente giudaico durano almeno una settimana e comunque finché c’è vino. Insomma la festa di nozze finisce quando finisce il vino.
    Chi medita la scrittura sa che il vino è associato alla restaurazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Amos 9, 13 ha annunciato che il vino sarebbe colato in abbondanza quando questa alleanza sarebbe stata ristabilita. Osea 14, 8 ha dichiarato che la sua qualità sarebbe stata superiore al vino del Libano. Isaia 55, 1 non esita a proclamare che questo vino sarebbe dato gratuitamente a tutti. Ripetendo «Non hanno più vino» Giovanni suggerisce che il vino annunciato dai profeti non è ancora stato servito. E Gesù che sta per darlo. Lo dà quando la sua ora è venuta. Non respinge la domanda di sua madre, ma le ricorda che il segno che sta per operare deve essere letto alla luce di questa ora.
    Giovanni riprende l’espressione «Fate quello che vi darà» dalla storia biblica di Giuseppe che aveva preservato la vita degli ebrei e degli egiziani, di Israele e dei pagani. Il dono del vino deve essere letto alla luce della storia della salvezza. Gesù è il nuovo Giuseppe che viene a invitare al banchetto del regno, Israele e le nazioni.
    Le sei giare di pietra rimandano ai sei giorni della creazione. Come il sabato segue questi sei giorni, così Gesù sta per inaugurare il sabato definitivo che chiude la prima settimana dell’apostolato di Gesù. Le giare servono alla purificazione dei Giudei. Questo rito dipende dalla Legge di Mosè. La legge deve cedere il passo alla grazia e alla verità di Gesù.
    L’acqua si è rivelata impotente di fronte all’impurità del popolo. Il vino si rivela efficace per purificare la vita di coloro che ne bevono.
    La tradizione sinagogale suppone che Dio dopo aver creato la vigna avesse messo il vino in riserva per i giorni del Messia. Uno dei segni che deve permettere di riconoscere il Messia è il fatto che avrebbe portato questo vino messo in riserva fin dall’inizio della creazione. Venuto a ristabilire il legame d’amore tra Dio e il suo popolo, Gesù prepara un matrimonio di cui quello di Cana è soltanto un’annuncio.
    Prima di evocare il segno di Cana, Giovanni menziona la scala di Giacobbe che rivela la croce di Cristo. Nella tradizione giudaica la scala di Giacobbe simboleggia i gradini del Sinai che Mosè ha salito per ricevere la Legge il terzo giorno. La gloria di Dio si è manifestata a lui. Anche il segno di Cana è una rivelazione della gloria di Dio. Come Mosè è disceso dal monte, Gesù i suoi discendono per andare a Cafarnao. Se questo parallelismo è voluto, Gesù è presentato come nuovo Mosè che esige l’obbedienza. Maria, la madre di Gesù, presente al primo segno e anche sotto la croce intercede in favore del nuovo popolo di Dio. È la nuova Eva chiamata «Donna». Contribuisce alla nascita della fede dei discepoli e alla costituzione del nucleo della prima comunità.
    A Cana Gesù opera l’inizio (archè) dei segni. Alla croce tutto è compiuto (tetelestai). Dall’archè si passa al tèlos. Il segno di Cana significa che nel suo Figlio Dio ha cominciato ad operare la salvezza del mondo. Il segno è in relazione con la Pasqua, la sua ora. Ha una duplice valenza: eucaristica e matrimoniale. La nuzialità degli sposi manifesta il mistero pasquale e lo prolunga nella vita.
    Tutti sono invitati alle nozze del Regno. Il vino buono che Gesù produce con la sua parola annuncia lo Spirito che egli dà con la sua morte. L’attesa ansiosa di Israele base delle osservanze rituali di purificazioni fa posto ormai alla gioia dei tempi messianici. La porta del cielo che si è chiusa si apre al momento della glorificazione di Cristo quando la sua ora è venuta. Il Dio annunciato da Gesù è il Dio della festa, il Dio che agisce perché il banchetto possa continuare.

    (L'Osservatore Romano 15 gennaio 2022)


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