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    Marta e Maria: un'unica

    circolarità di amore

    Elisa Zamboni


     

    MARTA, MARTA!

    Mi sono basata sulle suggestioni e sui suggerimenti che, attraverso la lettera del vostro vescovo e attraverso il documento che la Conferenza episcopale italiana ha preparato per questa seconda fase del Sinodo che la chiesa italiana sta vivendo, vi sono arrivati. “I cantieri di Betania” e “Camminare insieme per servire la vita dove la vita accade”. Da entrambi i testi avete l’invito a rivolgere lo sguardo a un’icona particolare contenuta nella narrazione evangelica. Un’originale del Vangelo secondo Luca, l’immagine di due sorelle che accolgono Gesù. Marta e Maria, due donne, sorelle, che accolgono.
    Marta e Maria sono due personaggi del vangelo che forse già conosciamo, sono “famose” tra i personaggi biblici, credo però che abbiano ancora tanto da comunicare alle nostre vite di uomini e donne, battezzati, discepoli e discepole del Signore. Per questo vi propongo un piccolo percorso in due momenti: un primo momento, soffermandoci sulla prima delle due sorelle, e successivamente sulla seconda, nella relazione tra loro e con l’ospite che accolgono.
    “Mentre erano in cammino” (v. 38). In genere si parla di Marta e Maria riferendoci a questa pericope evangelica propria dell’evangelista Luca, ma non dobbiamo scordare che incontriamo le due sorelle anche nella redazione del Vangelo secondo Giovanni, in un contesto diverso, e in quel caso veniamo a conoscenza che le due sorelle non sono sole, c’è anche un terzo fratello, Lazzaro (cf. Gv 11,1-41). Mi limito qui alla pericope lucana. Gesù è quindi sulla strada, come per gran parte della sua vita, egli è “l’uomo che cammina”, scrive Christian Bobin.

    Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato [1].

    Gesù è in cammino con qualcuno, non è solo, su una strada che egli ha scelto di percorrere, “egli ha preso la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” (Lc 9,51), ci dice l’evangelista Luca nel capitolo precedente, è il momento in cui Gesù sceglie e si avvia con risolutezza verso la città in cui si compiranno gli eventi della salvezza con la sua passione e morte. Gesù cammina ed entra nei villaggi, e invia e invita i suoi discepoli di ieri e di oggi a “entrare nei villaggi”. E in questo suo camminare viene accolto, come vedremo accadrà nel nostro brano, o non accolto, come accade nel villaggio dei samaritani (cf. Lc 9,53): questo spaventa i suoi discepoli, e spesso spaventa noi, perchè la non accoglienza riservata a Gesù è il destino che egli annuncia anche a chi sceglie di seguirlo.
    Oltre a collocare il nostro brano in stretta connessione con il contesto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, questo primo versetto richiama anche il contesto ecclesiale in cui stiamo vivendo, quello di un sinodo, che è cammino, è un “camminare con”, un essere sulla strada. Papa Francesco, nel discorso di apertura del sinodo ha approprio ricordato che il sinodo è un essere su “tante strade diverse, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, guidati dallo Spirito che ci darà la grazia di andare avanti insieme” [2].
    Ma in questo cammino avviene qualcosa di strano: se il cammino è compiuto “con”: Gesù è assieme ai discepoli, essi poi non avranno alcun ruolo, è infatti uno solo che entra nel villaggio, Gesù rimane solo.
    Se c’è continuità nel camminare di Gesù, oggi Gesù scegli, puntualmente, di entrare in questo villaggio.
    Non ci viene detto perché ma Gesù entra, senza annunciarsi, giunge nelle nostre comunità.
    Se infatti procediamo un po’ nella lettura leggiamo che “una donna di nome Marta lo ospitò” (v. 38).
    Non si dice che Marta lo accolga in casa, in realtà qui Luca non ci dice né che si tratta di Betania e tantomeno che si tratta di una casa, si parla invece del suo gesto, del suo atteggiamento ospitale. Quasi a voler intendere che Marta lo accoglie direttamente in sé, è lei, con il suo corpo, con il suo cuore, con la sua mente che si fa casa per questo viandante, che in questo modo diventa ospite. A cambiare la situazione di Gesù infatti non è tanto e solo la novità del suo entrare ma il fatto che qualcuno lo accolga.
    Con l’accoglienza possiamo trasformare, accogliere ha il potere di modificare l’essere dell’altro, la sua esistenza di migrante può divenire un’esistenza che si ferma, che si radica e trova uno spazio proprio.
    Perché, in fondo, non è questo che ciascuno di noi cerca? Un suo spazio, un luogo in cui poter essere? In cammino su questa strada con la meta precisa, Gerusalemme, ora Gesù fa un’interruzione e si lascia fermare, ora la sua meta è il gratuito incontro con le due donne protagoniste della nostra pericope. Ha un effetto novità, di cambiamento questo suo entrare in un villaggio, ma possiamo davvero considerarla una deviazione per Gesù? Non è forse proprio questo il suo cammino, vivere come uomo tra gli esseri umani, dono per quanti incontra, fino al dono ultimo della sua vita? La sua visita non ha un obiettivo, non entra in quella casa perché deve dare un insegnamento, non entra per guarire o per mangiare. La sua visita è gratuita, è la visita di un amico che desidera godere dell’amicizia. “Il Dio di Israele che ha visitato il suo popolo” (cf. Lc 1,68.78), come cantiamo nel Benedictus, accade nella vita di queste due donne in Gesù. Gesù può accadere nelle nostre vite e dipende da noi il suo non essere più viandante ma ospite. Come lo è stato per Marta e Maria.
    Dio si comunica alla e nella storia che è libera, in divenire. Non è fissata, statica. Per noi che ci diciamo suoi discepoli questo significa che non basta imparare ed enunciare delle verità monolitiche che soddisfino una conoscenza intellettuale, ma è nella storia, attraverso le prove e le crisi che l’essere umano deve attraversare che queste verità vengono alla luce, che emerge il senso.
    E per Marta e Maria Dio si comunica nella visita inaspettata dell’uomo Gesù. Il Signore offre la sua visita e subito essa è accolta da queste due donne. Due donne libere, sole, e autonome nell’aprire la loro casa all’ospite e amico: un’immagine abbastanza insolita nell’ambiente storico di Gesù, anche se questa autonomia sembra caratterizzare tutte le altre discepole di cui ci parla il vangelo. Fanno spazio nella loro intimità, nell’intimità della loro casa e nella relazione che le lega: sono due sorelle. Marta infatti ci viene subito presentata come colei che accoglie e di cui è sorella Maria (cf. v. 39). Sono definite da questo loro rapporto di sororità, ed è proprio come sorelle che aprono il loro spazio comune all’altro. Contrapposte, in concorrenza? Questa lettura fatta nel corso dei secoli, a partire dalle nostre categorie, dalle dicotomie attraverso cui leggiamo il mondo e la realtà, non ci ha permesso, spesso, di sostare sulla buona notizia contenuta in questa pagina evangelica. Per lasciarsi provocare a fondo da questa pagina evangelica occorre affrancarsi il più possibile da quell’antitesi tradizionale nella quale sono state confinate queste due donne: vita attiva e vita contemplativa, tra preghiera e impegno concreto. Questa contrapposizione non appartiene all’intento dell’evangelista, appartiene a un’interpretazione tarda ed è estranea alla mentalità biblica. Marta e Maria non si escludono a vicenda ma sono accentuazioni di un comune e unico progetto di esistenza, sono relazione che esiste nell’unità delle differenze. Lo riassume bene un apoftegma dei padri del deserto di abba Silvano:
    Un fratello venne da abba Silvano al monte Sinai e, vedendo i fratelli che lavoravano, disse all’anziano: “Non lavorate per un pane che perisce, ma per quello che dura per la vita eterna. Maria, infatti, ha scelto la parte buona”. L’anziano non rispose nulla, ma disse semplicemente al suo discepolo Zaccaria: “Da’ un libro a questo fratello, e conducilo in una cella vuota”. Quando fu l’ora nona, il fratello guardava nella strada se qualcuno venisse a invitarlo a pranzo; ma non venne nessuno. Allora, poiché nessuno giungeva e la fame si faceva lancinante, il fratello andò a trovare l’anziano Silvano e gli chiese: “I fratelli non hanno mangiato oggi?”, Silvano gli rispose: “Sì. Ma tu sei un uomo spirituale e non hai bisogno di questo pane. Noi invece siamo esseri carnali, vogliamo mangiare, ed è per questo che lavoriamo. Ma tu hai scelto ‘la parte buona’ e leggi e preghi tutto il giorno, non vuoi mangiare un pane carnale”. Quando il fratello intese questo da Silvano, cadde ai suoi piedi e disse: “Perdonami abba”. L’anziano gli disse: “Anche Maria ha assolutamente bisogno di Marta: infatti, grazie a Marta anche Maria viene lodata”.

    La sapienza che nasce dalla prassi di questi primi monaci del deserto esprime bene l’originale legame nel quale dobbiamo leggere queste due figure evangeliche. Le due sorelle accolgono in due modi diversi ma la casa che accoglie è una, un’unità, un’unica circolazione di amore, vissuta nella loro sororità, che non teme di aprirsi alla presenza di un altro.
    In questo intrecciarsi di relazioni sorge tuttavia una domanda: chi ospita chi in questa casa di Betania? Sono certamente le due sorelle ad aprire la porta di casa, ma chi è l’ospite, l’hospes in quella casa? Teniamo questa domanda viva mentre rileggiamo assieme questi versetti.
    All’ingresso di Gesù nel villaggio corrisponde un’azione successiva di cui non è lui il soggetto. Al suo entrare corrisponde l’accoglienza riservatagli da una donna. Una donna di cui ci viene detto anche il nome, Marta, che significa “signora”. L’evangelista così la fa uscire dall’anonimato, le dona un’identità, un volto, e tuttavia il rilievo più importante è indicato dal verbo che precisa l’azione specifica: “lo ospitò”. Il verbo greco usato indica la calorosa accoglienza dell’ospite nella propria casa, in un lessico del Nuovo Testamento ho trovato questa icastica traduzione: “Ricevere sotto la propria protezione, sotto il proprio tetto, accogliere un ospite”. Ricordiamo ciò che ho accennato in precedenza: qui Luca non precisa che Marta accoglie in casa, anche se è sottinteso. Ma credo possiamo intendere questa ospitale accoglienza come un farci noi casa, tetto, protezione per l’altro che ci visita. L’azione di questa donna non può non interrogare la nostra prassi di incontro e di accoglienza, parole guida del prossimo anno sinodale. Cosa avviene in me quando incontro e accolgo l’altro? Che tipo di ospitalità offro? L’accoglienza di Marta è ancora più significativa perché sembra contrapporsi alla non accoglienza dei samaritani in Lc 9,52-56.
    Marta che ospita è pienamente donna del suo popolo, non dobbiamo dimenticare quanto l’ospite sia importante nelle tradizioni dell’oriente e anche tutto l’Antico Testamento ci dà testimonianza di questo.
    Potremmo infatti dire che Marta qui risuona dei rimandi di una pagina di Genesi che è paradigmatica dell’ospitalità vissuta nel popolo di Israele. L’episodio che troviamo in Genesi 18,1-16, la visita alla querce di Madre, quando il Signore visita Abramo. Se rileggiamo il brano possiamo trovare risonanze con i nostri versetti di oggi: mi limito a ricordarne alcuni. Vi è il “correre” (Gen 18,2) di Abramo appena vede i tre uomini, e li prega “di fermarsi dal suo servo”. Vi è il suo “andare in fretta” (v. 6), ordina anche a Sara e al suo servo di fare in fretta (cf. vv. 6.7), e poi egli stesso “corre e prepara” (cf. v. 7), e vi è infine il suo “stare in piedi presso di loro” (cf. v. 8), mentre quelli mangiavano. Ma troviamo nell’Antico Testamento molte altre narrazioni di accoglienza ospitale: Elia e la vedova di Sarepta (cf. Re 17,7-16); Eliseo e la sunammita (cf.2Re 4,8-11),… Marta si sta comportando nel modo migliore, sta offrendo ospitalità come prescritto dai costumi sociali del tempo e dalla cultura del suo ambiente.
    Ma l’evangelista ci offre anche altri elementi relativi alla sua ospitalità. Dopo averci presentato anche l’altra sorella, al versetto 39, torna a parlare di Marta. Il testo ci offre una seconda ondata di informazioni e fin dall’inizio notiamo che se prima le due sorelle erano definite dalla relazione, dallo stesso status di sorelle, ora vi è la presenza di un “invece” che dice che è creata una distanza, una sorta di defamiliriazzizazione e straniamento. “Marta invece” (v. 40a), era “occupata, distolta, sovraccaricata” ma anche “distolta, distratta”. Marta è occupata a servire. La sua ospitale accoglienza tuttavia è degenerata, è addirittura divenuta distrazione: la sua ospitalità diventa indiscreta e inospitale nei confronti di Gesù. Volendo esprime la migliore ospitalità, essendo eccessivamente preoccupata, in fondo si dimentica di Gesù. È strattonata attorno al “servizio” che desidera offrire al suo ospite. Per Marta questa diaconia consiste nel prendersi cura di Gesù in tutti i suoi bisogni, mettendo a sua disposizione la propria casa, i propri mezzi e tutto ciò che è necessario all’ospitalità.
    Il servizio, la diaconia però, dopo l’ultima cena, dopo la vita, passione e morte di Gesù, è segnato da una novità dalla quale non si può più prescindere: quella portata da Gesù. Lui che si è fatto servo, che ha scelto di essere servo e chi, come lui, vive questa diaconia, la sceglie e la assume non da schiavo ma da figlio. È Gesù il modello di ogni diaconia, il Figlio dell’uomo che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,16), lui che sta “in mezzo a noi come colui che serve” (Lc 22,27).
    Marta prende l’iniziativa di accogliere Gesù, lo ospita in sé, essa ama molto Gesù, ma il suo amore si esprime con il moltiplicarsi di servizi e preoccupandosi per questioni connesse alla vita materiale. Marta accoglie traducendo la sua ospitalità in gesti, in operatività, tende a fare qualcosa per lui, disperdendosi in “molti servizi”, che però non sono ancora “il servizio” di colui che si è fatto servo per noi. Il servizio che non è servitù ma che si può assumere solo una volta raggiunta la libertà.
    Marta l’ha riconosciuto, accolto, amato e ora gli rivela anche la sua sofferenza e rivolge a lui il suo lamento: “Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire” (v. 40). Marta ha un’idea precisa su come si serve, forte di ciò che la consuetudine sociale prevede, e quindi osa una parola verso il suo ospite. Una parola di lamentela, essa rimane attaccata alle sue idee, al suo pensiero su come si deve accogliere, e tutte queste diventano pretese nei confronti di ciò che dovrebbe fare sua sorella. Marta è amica dell’uomo Gesù, appartiene già alla sua comunità, ma forse l’entusiasmo per Cristo, che le ha permesso di accoglierlo con tanti servizi, non basta a liberarla dai suoi vecchi schemi, modi e modelli di relazione che non permettono l’incontro totale. Risulta frammentata tra “le tante cose”, completamente assorbita dal lavoro, e probabilmente questa frammentazione la vive anche interiormente. Il suo cuore è distratto tra i molti servizi, ciò che lo abita è la preoccupazione - le dirà Gesù - e non tanto l’essere serva.
    La sottolineatura di quella solitudine in cui sostiene di essere stata lasciata, e la postura che essa prende: “si fece avanti” (v. 40), esprimono bene i sentimenti di Marta. Si sente abbandonata, “lasciata sola a servire”, e in piedi, in una posizione predominante rispetto alla sorella e al Kyrios che sono seduti, non guarda, non parla alla sorella, ma si rivolge in modo brusco al Signore dandogli quasi un ordine.
    Marta in piedi, Maria seduta, sembrano indicare non solo un diverso atteggiamento delle due sorelle ma anche un certa incomunicabilità tra loro. Essendo su due posizioni diverse non si guardano negli occhi, c’è distanza, e Marta rimane schiava del suo sguardo, rimane aggrappata alle sue idee e scivola in ciò che tutti noi conosciamo molto bene: il giudizio. Giudica la sorella. Perché? Perché sta accogliendo in un modo diverso, una modalità che Marta non capisce e quindi giudica.
    Accogliente con il viandante non riesce ad accogliere la sorella nella sua diversità. E in questo cerca un alleato nel Signore: parlare a un terzo e non direttamente al fratello o alla sorella è già prendere distanza ed esprimere un giudizio. Cerca l’avvallo del Signore, convinta che lui condivida il suo punto di vista. Richiama la sua attenzione e si rivolge a lui con un imperativo: “Non ti importa … dille che mi aiuti” (v. 40). L’agitazione, le preoccupazione per i molti servizi diviene per Marta un peso, una catena che la acceca: le nostre idee e convinzioni rischiano di renderci cechi. Marta rivolge uno sguardo di indignazione verso la sorella e quindi non riesce a vedere e pensa di non essere essa stessa guardata, come se nessuno, sorella o Gesù, si interessasse del suo lavoro.
    Verso Marta va spesso la nostra simpatia perché la sua esperienza è stata, è o sarà, un giorno o l’altro, anche la nostra. Quando ci sentiamo persone sulle quali tutto poggia, dedite, a ciò che fanno., disponibili. Ma anche persone per le quali gli altri sono indispensabili: perchè abbiamo bisogno dello sguardo e della comprensione degli altri. Marta è l’individuo che, in ciascuno di noi, esiste attraverso quello che fa e per quello che fa. Abbiamo tutti un’immagine di noi da difendere, un posto nella famiglia, nella società, nella comunità, nella chiesa, da occupare. E desideriamo che coloro che ci circondano accettino quel posto, accettino quell’immagine che abbiamo di noi o che vogliamo dare di noi. La sofferenza nasce evidentemente quando ciò che siamo o che vogliamo essere, ciò che facciamo o che diciamo, sembra incontrare l’indifferenza, il fastidio, il rifiuto. La domanda allora è: come vogliamo essere guardati e quindi come vogliamo essere amati? Possiamo dire che Marta in fondo è libera, è libera di rivelare la sua verità profonda, di alzare la sua lamentela, il suo disappunto per essere lasciata sola proprio là dove lei ritiene sia importante esserci e fare. Non nasconde la sua irritazione, quell’irritazione che è come una catena e può trascinare reazioni che sfociano in conflitti. E Gesù la accoglie così, semplicemente chiamandola per nome. Gesù, di cui finora non abbiamo sentito la voce, ora, chiamato a “dire”, prende la parola anche con Marta.
    Dobbiamo in realtà notare che la risposta a Marta è data dal Kyrios, dal Signore, è quindi una risposta alla comunità cristiana post-pasquale, e quindi anche a noi.
    Gesù ha guardato Marta, ha visto la sua agitazione, la sua enorme generosità nei suoi confronti, è con lei in quell’affaccendarsi, Gesù vede tutte quelle donne che si prendono cura dell’umanità, nel corpo, che trasformano i doni della terra e del sole in cibo per quanti amano. Il Signore le vede e le chiama per nome. Gesù all’inizio ricorda a Marta l’essenziale, ciò che forse Marta ha dimenticato: il suo nome di figlia amata. Sembra quasi che egli voglia restituire unità a quell’identità frammentata che caratterizza Marta. Marta ha perso la direzione, il senso, e Gesù le ricorda chi è, le chiede di ascoltare perché le deve parlare di lei. La ripetizione del nome due volte risuona di nuovo in noi come un’eco del passato, quando Dio chiama Abramo due volte: “Abramo, Abramo!” (Gen 22,11), nel momento in cui fermerà la sua mano dal sacrificare il figlio Isacco. Dio, come Gesù ora, chiama i figli per rassicurarli della sua presenza, del fatto che egli c’è, ci vede, e ci comunica parole che richiedono di essere ascoltate, richiedono attenzione. Agostino commenta questa pagina affermando che “La ripetizione del nome è forse un mezzo per suscitare in Marta una maggiore attenzione” [3].
    “Tu ti affanni e ti agiti per molte cose” (v. 41). La traduzione italiana non rende pienamente ragione dell’originale greco che è nella forma verbale passiva e ci rimanda con forza l’idea di essere in balia di forze esteriori che ci sconvolgono. Il verbo che Luca utilizza qui per “affannarsi” (merimao) è un verbo molto usato dall’evangelista Luca, e sempre con un’accezione negativa (cf. Lc 8,14; 21,34). Pochi capitoli dopo questi nostri versetti lo ritroviamo in quella che potremmo definire la risposta più adeguata a Marta.

    Per questo io vi dico: non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi! Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? Se non potete fare neppure così poco, perché vi preoccupate per il resto? Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano. Eppure io vi dico: neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così bene l’erba nel campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più farà per voi, gente di poca fede. E voi, non state a domandarvi che cosa mangerete e berrete, e non state in ansia: di tutte queste cose vanno in cerca i pagani di questo mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta (Lc 12,22-31).

    Marta, e noi con lei, si affanna perché non ricorda, non fa esercizio di ricordare e dimentica chi è e quanto vale agli occhi del Padre, dimentica che il Padre non vuole servi ma figli e figlie, dimentica che il suo nome è quello di figlia. Paolo lo ricorda nella sua lettera ai cristiani della Galazia: “Non sei più schiavo, ma figlio, e, se figlio, sei anche erede” (Gal 4,7).
    Marta cercava la complicità di Gesù per richiamare Maria ai suoi doveri di donna che ospita e che quindi deve assicurare i servizi all’ospite, ma Gesù su questo non interviene. La sua risposta non si interessa del servizio in sé ma su come Marta l’ha assunto, sulla modalità. I “molti servizi” nei quali Marta era occupata, nelle parole di Gesù divengono le “molte cose” per cui lei è ansiosa e turbata. Gesù richiama Marta perché conosce il danno che può provocare questo agitarsi per le molte cose, perché questo le impedisce di accogliere il dono che il Signore, ospite a casa sua, le porta: la sua Parola, e il Regno che con lui avviene. È solo accogliendo primariamente questo dono, la sua Parola, che lo stesso servizio potrà essere plasmato e orientato.
    La domanda che il Signore rimanda anche a noi oggi è se c’è ancora spazio per l’accoglienza quando siamo completamente distratti, assorbiti e messi in agitazione dalle cose da fare? Distrazione per il troppo, preoccupazioni anche giustificate rischiano di distrarci dall’essenziale: Gesù ci richiama con insistenza all’attenzione. Per questo ho scelto di concludere con alcune righe di un’autrice che sull’attenzione ha riflettuto molto. Scrive Simone Weil a proposito dell’attenzione:

    Del resto non è solo l’amore di Dio che ha per sostanza l’attenzione. Della stessa sostanza è fatto l’amore per il prossimo … in questo mondo gli sventurati non hanno bisogno di altro che di uomini capaci di rivolgere loro la propria attenzione. Tale capacità di prestare attenzione a uno sventurato è cosa molto rara, molto difficile; è quasi un miracolo; è un miracolo [4].

    MARIA

    Ma rivolgiamo ora la nostra attenzione all’altra sorella. E subito dobbiamo evidenziare proprio questo aspetto: Maria viene definita prima di tutto come relazione. È definita in relazione a Marta, il greco dice precisamente: “A essa, Marta, era sorella Maria” (v. 39). Maria esiste come parte della sororità, della circolarità di amore che accoglie Gesù in quel villaggio. Null’altro ci viene precisato se non il loro status di sorelle, quindi una eguaglianza e parità, nessuno è padrone dell’altro, nessuno viene prima: questa è la fraternità.
    Sono entrambe nella casa in cui Gesù è accolto, entrambe accolgono. Sono in relazione ma ciascuna è autonoma nelle scelte e nella modalità di accogliere l’ospite che le visita. La differenza emerge al livello delle scelte personali, degli atteggiamenti, della modalità in cui si renderanno spazio ospitale per chi le visita. Per questo come si muovono, le posizioni che assumono, non sono ininfluenti per conoscerle e per entrare un po’ di più nella loro relazione e nel loro essere luogo ospitale per il Signore Risorto. Entrambe sono felici di accogliere Gesù in casa, ma sono diverse nelle priorità. Abbiamo visto come per Marta la priorità fosse quella del fare qualcosa per l’ospite, Maria intuisce che c’è qualcosa di più, che l’ospite porta con sé un dono prezioso che a sua volta va accolto e gli va data cura e attenzione.
    È il dono stesso di Dio che viene attraverso l’ospite. Questo può valere anche quando l’ospite non è Gesù e il dono, la parola che ci dona, talvolta è una parola senza parole, a volte senza nulla di appariscente e affascinante, come è spesso il messaggio della povertà, del bisogno, della sofferenza.
    Maria dal suo comparire nella scena comincia a compiere l’azione per lei essenziale: “ascoltare”. Con due verbi Luca ci descrive Maria nella sua totalità, perché a differenza della sorella Marta, Maria è tutta in queste due azioni: “si siede” e “ascolta” la parola di Gesù. Questo per lei l’essenziale, e lo persegue sempre, tanto da superare i limiti posti dalle regole sociali e da accovacciarsi, lei donna, ai piedi del maestro, posto riservato al discepolo. Non teme di esprimere quello che la abita, il suo desiderio profondo, la sua sete di Parola, della Parola del maestro, nella quale sente di trovare vita. Maria, a differenza di Marta, si ferma, sosta, dedica tempo all’ascolto, perché percepisce che è fondamentale anche per l’agire.
    Quindi Maria ha trovato la sua posizione adeguata, “ai piedi del Signore”. Ecco qui dove scopriamo, grazie al narratore, chi è quest’uomo che visita la casa delle due sorelle. È il Kyrios, nome che viene usato per indicare il Signore risorto dopo Pasqua: questo colloca l’episodio in ogni nostro oggi, ce lo rende contemporaneo. Queste due donne ricevono la visita del Risorto così come oggi anche noi possiamo essere visitati dal Signore Risorto, che è “con noi fino alla fine del mondo” (cf. Mt 28,20) e che continua a visitarci come ha visitato Marta e Maria duemila anni fa. Dove siamo noi? Siamo in casa? Siamo presenti a noi stessi tanto da poter diventare dimora accogliente per quell’ospite? Apriamo la porta, ci facciamo spazio in cui egli può sostare? Maria di fronte al Signore “si mette a sedere accanto, si accomoda”: questo verbo compare qui per la prima e unica volta, indica un gesto di umiltà, di semplicità, il gesto del discepolo che riconosce di avere tutto da imparare dal maestro. Maria è quindi figura del discepolo del Signore Risorto. A questa posizione di Maria si contrappone invece il “farsi avanti” (v. 40) di Marta accompagnato dall’altra particolarità di Marta: il suo rivolgere la parola al Signore. Il verbo che caratterizza Maria, declinato nel tempo della continuità, è “ascoltare”, Maria è ai piedi del Signore in umile atteggiamento di ascolto, Marta invece pretende di sapere ciò che è giusto e di poterlo insegnare lei stessa a Gesù. L’una attende, l’altra pretende. L’una desiderosa di ascoltare, l’altra incatenata e resa cieca dalle proprie convinzioni e dai propri schemi.
    Maria accoglie la Parola di vita, in modo diverso dalla sorella ma anch’essa mette in atto un’accoglienza ospitale. “Ascoltare la Parola” è un’azione che esprime non solo un udire ma la disponibilità interiore ad accogliere un annuncio. Ascoltare la Parola è l’ingresso nella comunità del Signore, addirittura rende suoi familiari (cf. Lc 8,21). Gesù annuncia la beatitudine per coloro che “ascoltano la parola di Dio” (Lc 11,28). L’ascolto continuato della parola di Dio da parte di Maria che si contrappone all’affanno di Marta ci rimandano all’interpretazione che Gesù fa della parabola del seme in Luca 8,11-15. Il seme è la Parola di Dio, i terreni sono il cuore, le vite, le scelte di ciascuno di noi: l’affanno di Marta richiama il terzo tipo di terreno: “Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione” (v. 14), mentre la scelta di Maria di sedersi e ascoltare corrisponde al terreno buono in cui la Parola può portare frutto: “Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza” (v. 15). Ed è proprio al termine di questa parabola, dopo averne dato spiegazione, che Gesù mette in guardia dicendo: “fate attenzione a come ascoltate” (v. 18).
    Maria sta ai piedi del Signore perché sente questa parola di beatitudine per la sua vita. Sente parole di vita, parole che la rivelano a sé stessa, le rivelano la sua verità di donna chiamata per nome e accolta all’interno di una circolarità di amore che Gesù con la sua visita le sta facendo sperimentare. Maria vive quell’esperienza che ciascuno di noi può vivere ponendosi in ascolto della Parola di Dio: ci scopriamo, scopriamo il mistero che noi siamo nell’ascolto della parola di un Altro, nell’ascolto di colui che “scruta il cuore e il profondo” (Sal 7,10; cf. Ap 2,23). Di fronte alla Parola, in un ascolto vero e sincero, ciascuno di noi può comprendersi perché la Parola di Dio ci rivela la verità dell’essere umano così come è stato creato da Dio, Padre di Gesù. Perché “la parola di Dio è viva ed efficace, scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).
    Maria in ascolto della Parola è “la chiesa in ascolto, che non deve muoversi da questa posizione neppure per rimproverare Marta”, scriveva il cardinal Martini [5]. L’ascolto costituisce una dimensione fondamentale e fondante della nostra vita. Gli studi lo dicono: l’essere umano cresce non solo grazie a qualcuno che lo nutre ma anche perché c’è qualcuno che gli rivolge la parola. Negare la parola è all’origine di traumi profondi, ma è anche una forma di violenza enorme: quando vogliamo punire qualcuno o comunicare il nostro disappunto o contrarietà, la nostra indifferenza, il silenzio, il negare la parola infligge ferite profonde. Ma anche nella nostra vita spirituale la dimensione dell’ascolto è centrale. Ripercorrendo i testi, le fonti della nostra fede nel Dio unico, “il Dio dei nostri padri, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Es 3,15), scopriamo che dal cielo, o dal fuoco, non uscì mai un libro, ma sempre una voce. La voce che chiamò Mosè e cambiò la sua vita al roveto ardente (cf. Es 3,1-6: vi faccio notare anche qui la ripetizione del nome), il Dio che accompagna il popolo in tutto il cammino dell’esodo si manifesta solo in una voce, e nel momento dell’alleanza sull’Oreb “Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura: vi era soltanto una voce” (Dt 4,6). Il popolo è “chiamato” a udire, questa è la sua vocazione, e infatti il primo comando dato al popolo è quello di “Ascoltare”, il comando dello Shema’: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio, il Signore è Uno” (Dt 6,4): questa è l’unica e sufficiente possibilità di rapporto tra l’uomo e Dio. Comando che per noi cristiani trova eco nel vangelo, nella scena della trasfigurazione, dove la voce che viene dal cielo indica il Figlio con le parole: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Lc 9,35). Anche per noi, in Gesù, è “una Parola che si è fatta carne” (Gv 1,4). Una carne, una vita, più da ascoltare che da contemplare. E Paolo ricorda ai cristiani della comunità di Roma che “la fede nasce dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10,17).
    Dio quindi preferisce la voce alla visione, e quindi l’ascolto più dello sguardo: nell’Antico Testamento la visione di Dio procura la morte. Il Dio della Scrittura non è visibile, si manifesta invece tramite la voce.
    Una voce che predilige toni discreti e umili: è solo nel “silenzio di una voce sottile” (1Re 19,12), che Elia sull’Oreb incontra Dio. L’ascolto permette una relazione meno superficiale, più elaborata, che va potenzialmente più in profondità: è una relazione più faticosa, l’ascolto, è più lento, meno immediato; più della visione consente un tempo di dilazione, di soffermarsi e pensare alle relazioni che viviamo.
    L’importanza dell’ascolto nella vita e nella vita spirituale di ogni battezzato ha suggerito, recentemente, a papa Francesco, di dedicare il Messaggio per la 56 giornata mondiale delle comunicazioni sociali al tema dall’ascolto: Ascoltare con l’orecchio del cuore. Scrive papa Francesco:

    L’ascolto corrisponde allo stile umile di Dio. È quell’azione che permette a Dio di rivelarsi come colui che, parlando, crea l’uomo a sua immagine, e ascoltando lo riconosce come proprio interlocutore. Dio ama l’uomo: per questo gli rivolge la Parola, per questo “tende l’orecchio” per ascoltarlo [6].

    Maria quindi, seduta ad ascoltare, è figlia del suo popolo e prima discepola nel popolo nuovo, in accogliente ascolto della Parola fatta carne. In questo ascolto, abbiamo visto, Maria si conosce, riceve nella parola di Gesù la rivelazione della sua umanità. Anche qui, mi sembra, possiamo trovare un elemento, non esplicito ma che differenzia le due sorelle. Abbiamo detto che Marta si presenta come una donna frammentata, quasi frantumata interiormente, dal “cuore diviso” (Gc 4,8): divisa, distratta da mille cose, tiranneggiata da tanti diversi “signori”, che in lei disturbano e offuscano la direzione, il senso e le fanno perdere l’orientamento della sua vita. Scrive Etty Hillesum nel suo Diario:

    A volte siamo così distratti e sconvolti da ciò che capita, che poi fatichiamo a ritrovare noi stessi. Eppure si deve. Non si può affondare, per un senso di colpa, in ciò che ci circonda. È in te che le cose devono venire in chiaro, non sei tu che devi perderti nelle cose [7].

    Ma il cuore è il centro dell’ascolto. È ciò che chiede il sapiente Salomone a Dio: “un cuore che ascolta” (1Re 3,9). E un cuore frantumato, distratto da mille voci non può farsi spazio accogliente perché la Parola penetri, né la parola di Dio, né la parola dell’altro. Maria, seduta ai piedi del Signore, dell’unico Signore, che ascolta l’unica Parola di vita, è invece, a differenza della sorella, la donna dal cuore unificato. Perché l’ascolto vero conduce a fare unità, a comprendersi, ad amarsi. Un cuore che non si frantuma, unificato, perché sempre si lascia sollecitare e muovere da una Parola di vita, una parola altra da quella che magari penseremmo noi ma che intuiamo parola vitale. Secondo la tradizione dei padri della chiesa e di molti autori medievali, uno degli effetti più importanti della lectio divina è precisamente quello di unificare i desideri, i pensieri, i sentimenti intorno all’unico amore.
    Il cuore unificato è ciò che chiede continuamente l’orante dei salmi:

    Insegnami, Signore, la tua strada
    potrò camminare nella tua verità
    donami un cuore unificato (Sal 86,11).

    Un cuore unificato è il cuore unito attorno all’unico amore di Dio, unico perché centrale, perché essenziale, perché vitale, perché ha la precedenza su tutto. È un cuore che non si interessa del giudizio esterno, di ruoli, di immagini da difendere perché ha incontrato la sorgente di un’acqua che disseta, che purifica e che sempre ci restituisce la nostra vera immagine: quella di figli e figlie amati.
    Ma c’è ancora una parola che ci manca di guardare. Un’ultima parola di questa buona notizia che ci raggiunge oggi e che forse continua a tormentarci: Gesù comunque esprime un giudizio. Nella sua risposta a Marta, che abbiamo visto ieri, c’è una conclusione. “Di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte buona, che non le sarà tolta” (v. 42). C’è un modo “buono” di accogliere che “non ci verrà mai tolto” (cf. v. 42). È una parola che viene lasciata dal Kyrios a ogni discepolo, di ogni tempo: l’ascolto della Parola, perché è la “parola di Gesù” che Maria ascolta, questo ascolto della parola che è forza, luce, consolazione, è lasciato anche a noi oggi come possibilità, come scelta. È così che Gesù, sarà con noi “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
    Gesù qui non esprime giudizi di merito semplicemente esprime una verità semplice e quasi banale ma che noi spesso, sempre, dimentichiamo. C’è un posto nella casa, nella nostra comunità, nella nostra famiglia, che mai, mai verrà meno: ai piedi di Gesù. Il posto di discepoli, di creature, figli e figlie chiamati per nome. Nome che nessuno ci toglierà mai.
    Gesù non dice che Maria è stata migliore di Marta, in nessun momento. Non dice neppure che Marta ha avuto torto a fare ciò che faceva. Egli constata semplicemente che l’una ha scelto qualcosa che non le sarà mai tolto. Il che lascia supporre che l’altra è in una situazione più precaria in questa circostanza.
    L’esistenza di Marta, come quella di ciascuno è precaria, quando riduciamo tutto alla buona volontà, all’agire, alla competenza.
    Il posto di Maria invece non le sarà mai tolto perché il nome che ha ricevuto, quella condizione di discepola, non si compra, non si difende gelosamente, non si ruba, non si perde, non si guadagna: la si riceve, ci è data da Dio stesso. Non sostituisce l’agire, la buona volontà, la competenza: li relativizza, certamente; e soprattutto evita che tutta la nostra esistenza sia incatenata alla logica del mondo (che ha spesso invaso la chiesa) che vuole che noi esistiamo unicamente in forza di ciò che facciamo e dello sguardo degli altri [8].
    Se di contrapposizione si vuole parlare, non si tratta tanto della contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa ma del difficile, e sempre da ricercare, giusto rapporto tra l’unum necessarium e i molti servizi, tra uno, unico e molti, tra la pace del cuore e la preoccupazione, tra l’apertura alla relazione che ci libera da noi – dalla tirannia dell’io – e la chiusura invece nel proprio spazio. Il confronto è tra chi cerca l’unico valore essenziale e chi invece è disperso tra mille possibilità, fra chi ha trovato il tesoro nascosto, la perla preziosa e chi vaga senza meta, disorientato. La soluzione non si pone nel liquidare l’una o l’altra cosa ma nel discernimento su come viverle in modo equilibrato e portando frutto per sé e per il Regno.
    Discernimento che ciascuno di noi è chiamato a fare personalmente e comunitariamente: quali sono i tempi di puro e semplice ascolto della Parola nella nostra vita di cristiani, impegnati, uomini e donne con “molti servizi” da fare? Discernimento, parola tanto amata da papa Francesco. Discernimento che ha dovuto fare anche Maria, perché di lei, in questo ultimo versetto ci viene detta un’altra particolarità, che la differenzia dalla sorella. “Maria ha scelto”: Maria è una donna che sceglie, che vaglia e discerne tra varie possibilità. Sa cosa vuole, sa cos’è importante, e opta per quel valore, relativizzando tutti gli altri valori, tutte le altre scelte. E in questa scelta è orientata: il suo orecchio del cuore tende verso Gesù, a lui indirizza la sua scelta, a lui e alla sua parola che parla al suo cuore. Il verbo che ci dice il suo scegliere è in una forma verbale che dice un’azione puntuale: è una scelta da rinnovare, istante per istante, tradotta in una molteplicità di atti concreti, mai definitiva, ma che non ci verrà mai tolta, che ci sarà sempre possibile.
    La scelta dell’unum necessarium, di cui parla sorella Maria all’amico Giovanni:

    Che cosa è la semplicità? È il fare a meno di tutto ciò che non è l’unum necessarium… Noi siamo insieme per semplificare tutto.

    Unum necessarium, è il gratuito e eterno amore che non perderemo mai. Gesù ricorda a Marta, a quella Marta che è in ciascuno di noi, questa verità che può liberarci dalla schiavitù nella quale spesso rinchiudiamo le nostre esistenze.
    E così, oggi, la buona notizia ci raggiunge infine con una parola di promessa da parte di Gesù, noi esistiamo in forza di un nome e dell’amore che ci viene donato, “questa è la parte buona che non ci verrà mai tolta”.
    Maria donna libera – tanto da superare i limiti posti dalle regole sociali e da accovacciarsi, lei donna, ai piedi del Signore e maestro, posto riservato al discepolo −, è libera di esprimere quello che la abita, il suo desiderio profondo, la sua sete di Parola, della Parola del maestro.
    Le due sorelle, abbiamo visto, accolgono in modo diverso, ciascuna nella sua verità. E Gesù lascia fare, non rimprovera Marta, non la chiama a sedersi con sua sorella, e non spinge Maria ad aiutare la sorella. Marta e Maria proprio in questa diversità, unita nell’unica casa, possono ospitare, servire, amare colui che riconoscono dono per le loro vite; assieme, accolgono colui che per primo le ha cercate.
    Nessuno è chiamato a essere solo Marta o solo Maria, ma, unificati, il vangelo ci chiede anche di unificare Marta e Maria, di farne una. Dobbiamo essere tutti la casa di Betania, casa di relazioni, aperta, dove il Signore è accolto da amici non servi, riconosciuto come vero uomo e come il Verbo di vita.
    Per concludere vorrei tornare alla domanda lasciata sospesa: chi ospita chi? Colui che ospita è colui che è ospitato. E tra Gesù, Marta e Maria avviene proprio questa reciprocità di accoglienza che è all’origine di ogni nostra relazione. Gesù entra nella casa ma è egli per primo a ospitare, diviene dono per ogni abitante di quella casa, e apre alle sorelle e a ciascuno di noi la possibilità e la capacità di accogliere chiunque altro. Gesù ospite accoglie per primo, nel rapporto con lui egli fa emergere chi siamo, ciò che cerchiamo, lascia lo spazio perché affiori l’identità umana e la verità di ciascuna delle due sorelle.


    NOTE

    1 Ch. Bobin, L’uomo che cammina, Qiqajon, Magnano 1998, p. 9.
    2 Francesco, Momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale. Discorso del santo padre Francesco, 9 ottobre 2021.
    3 Agostino di Ippona, Sermo 103,3.
    4 S. Weil, Attesa di Dio, Adelphi, Milano 2008, pp. 199-200.
    5 C. M. Martini, In religioso ascolto della Parola di Dio, Cittadella editrice, Assisi 2012, p. 11.
    6 Francesco, Messaggio per la 56 giornata mondiale delle comunicazioni sociali, Ascoltare con l’orecchio del cuore, 24 gennaio 2022, https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/20220124- messaggio-comunicazioni-sociali.html.
    7 E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 2003, p. 57.
    8 Cf. È. Cuvillier, La Parola e noi, Qiqajon, Magnano 2021, pp. 89-94.

     

    (Bose 17-18 settembre 2022 - Parrocchia di Longuelo)


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