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     Dag Hammarskjöld

    «In mezzo alle cose degli uomini il senso delle cose di Dio»

    Raccontato da Cristina Mustari

    (NPG 2005-08-57)


    Secondo Solone, considerato uno dei 7 saggi nella Grecia antica, per giudicare un uomo bisogna aspettare l’ultimo istante della sua vita. In virtù di questo insegnamento cerchiamo, come in uno di quei film in cui la narrazione parte dall’ultima scena, di guardare all’esistenza di Dag Hammarskjöld partendo dal momento della sua morte. Il suo aereo precipita il 17 settembre 1961, nella Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia). Per anni si è speculato sulle possibili cause dell’incidente. Ora documenti provenienti dal Sudafrica danno forza ai sospetti di un attentato. La mediazione nella quale Hammarskjöld era impegnato, finalizzata alla soluzione di una crisi politica internazionale in Congo, dava fastidio a interessi molto potenti. Egli era allora Segretario Generale dell’ONU. Ed è proprio subordinando la sua vita a questo compito e morendo per esso, che realizza il significato della sua esistenza.

    Il Diario

    Dag Hammarskjöld nasce nel luglio 1905 a Jokping, in Svezia, quartogenito di una delle famiglie più in vista del paese. Dopo aver completato gli studi di economia e giurisprudenza ricopre diversi incarichi di governo, tra i quali quello di ministro degli Esteri alla fine degli anni ’40. La sua carriera è fulminea e brillante. In breve tempo e ancora giovanissimo ricopre incarichi di rilievo nel suo paese finché nel 1953 viene eletto Segretario Generale dell’Onu. Durante il periodo del suo segretariato, che si svolge nell’arco di circa due mandati, Hammarskjöld si occupa delle crisi più importanti del suo tempo: quella del Medio Oriente, quella ungherese, quella libanese. Nel 1956 con l’invasione sovietica dell’Ungheria e la crisi di Suez crea la prima forza armata di peace keeping delle Nazioni Unite, da allora il più efficace strumento di controllo delle situazioni di conflitto. Egli descriveva l’organizzazione delle Nazioni Unite come il «sogno dell’umanità», ed era pronto a servirlo a qualsiasi costo personale per il bene del futuro del mondo.
    Ciò che sappiamo sulla sua persona si deve principalmente ad un suo diario pubblicato postumo. Dag lo aveva scritto indubbiamente per sé e non per altri: rappresentava il resoconto dei rapporti con se stesso e con Dio, e l’unico scopo era quello di fissare attraverso di esso le pietre miliari del suo cammino spirituale. Grazie a quelle pagine oggi noi abbiamo la possibilità di conoscere il suo ritratto più autentico. Così si scopre che Hammarskjöld, descritto come un politico freddo, abile, abituato a lunghe ore di lavoro ininterrotto, era anche un lettore appassionato dei maggiori maestri della spiritualità antica e moderna: San Giovanni della Croce, Blaise Pascal, Martin Buber. Testi la cui lettura rilevano uno spirito sensibile e intuitivo, ricco di umiltà. Ciò che egli scrive nel diario concerne infatti interamente la sua vita spirituale. Egli confessa la sua fede in Dio, e spiega il significato di questa fede.
    Il libro ha un carattere aforistico con brevi annotazioni, scritte probabilmente in solitudine, tramite le quali l’autore si «consegna» ad un ipotetico lettore. Ogni pensiero è una riflessione interiore, da cui trapela lo sguardo implacabile e lucidissimo con cui egli sapeva analizzare se stesso. Debolezze, difetti, tentazioni umanissime come l’ambizione e l’orgoglio, li riconosce in sé, li mette sotto una lente di ingrandimento, dandone definizioni brevi, significative e spesso inclementi. Il suo è un viaggio dentro se stesso. Con meditazioni talmente profonde e analitiche che ci riportano alle Confessioni Agostiniane: «Quanto più fedelmente porgerai orecchio al tuo interno, tanto meglio udirai quel che ti suona intorno. Solo chi ascolta può parlare».
    Da quegli scritti, che abbracciano diversi anni della sua esistenza, prima del mandato all’Onu traspare una grande solitudine. Dag è infatti per certi aspetti l’emblema dell’uomo occidentale, tormentato e spesso profondamente solo davanti alle sfide quotidiane. È un uomo colto, di successo, benestante. Sembrerebbe non mancargli nulla, eppure, negli scritti dei primi anni, sono frequenti immagini angosciose, mulinelli, vortici e turbinii, e il dibattersi disperato di un uomo che sente di non riuscire a cogliere il senso della propria vita.
    «Chiedo l’assurdo: che la vita abbia un senso. Mi batto per l’impossibile: che la mia vita ottenga un senso».
    Anche da quei primi brevi passi trapela però una spiritualità profonda, fuori dal comune. Fede «discreta», non sbandierata, libera da formulazioni dogmatiche o inquadramenti. Ma che rimane comunque la fede di un uomo che ha riposto se stesso nelle mani di Dio.
    «Abbi pietà dei nostri sforzi, così che noi dinanzi a te, in amore e fede, giustizia e umiltà, possiamo seguirti, in disciplina, lealtà e coraggio, e incontrarti, nella quiete. Dacci puri sensi per vederti, sensi umili per udirti, sensi d’amore per servirti, sensi di fede per viverti. Tu che io non conosco ma a cui appartengo, Tu che io non intendo ma che hai votato me al mio destino».
    Non molti erano a conoscenza, prima della sua morte e della pubblicazione del diario, di questa sua religiosità. È ipotizzabile che questo suo pudore sia dovuto al proprio ufficio di segretario generale delle Nazioni Unite, a causa del quale egli riteneva non gli fosse consentita l’adesione ad una Chiesa e neppure una precisa impostazione religiosa, che nell’ambiente internazionale dell’ONU lo avrebbe avvicinato ad alcuni e allontanato da altri. In effetti il giorno stesso del suo arrivo a New York, dopo la sua elezione egli dichiarò semplicemente: «Nel mio nuovo incarico ufficiale l’uomo privato deve scomparire e il funzionario civile internazionale deve prendere il suo posto».
    L’unico atto che rivela concretamente al mondo l’importanza che egli dà alla dimensione spirituale della vita umana è la sala meditazione da lui voluta nella sede dell’ONU a New York, e il discorso in occasione della sua inaugurazione: «Ciascuno di noi si porta dentro un nocciolo di quiete, circondato di silenzio. Questo palazzo, dedicato al lavoro e alla discussione al servizio della pace, deve avere una sala dedicata al silenzio, in senso esteriore, e alla quiete in senso interiore. L’obiettivo è stato creare in questa saletta un luogo le cui porte possano essere aperte ai terreni infiniti del pensiero e della preghiera. (….) Secondo un antico detto, il senso di un vaso non è il suo guscio, ma il vuoto. In questa sala è proprio così. La sala è dedicata a coloro che si recano qui per riempire il vuoto, con ciò che riescono a trovare nel loro centro interiore di quiete».
    Hammarskjöld riesce dunque a celare questo aspetto particolare della sua personalità.
    Anche il suo metodo diplomatico d’altra parte si fondava sulla riservatezza e sulla discrezione. Difficilmente faceva trapelare notizie o particolari su incontri o colloqui con i rappresentanti dei vari stati. La sua potremmo definirla la diplomazia della conciliazione poiché agiva quasi in sordina, cercando però di attivare tutti i canali a sua disposizione per favorire il dialogo delle parti in causa.
    L’impegno coerente nel perseguire la pace si rivela principalmente nel suo costante tentativo di mantenersi il più possibile neutrale nelle crisi internazionali. Questo perché nella sua visione la neutralità si poneva principalmente come problema etico, prima che politico. Ma era pur sempre una neutralità operosa che implicava comunque l’intervento, la decisione, la partecipazione del Segretario Generale nelle singole questioni.

    Vita come vocazione

    L’interpretazione luterana del lavoro, che è tipica dei paesi del nord Europa, lo portava ad intendere la sua professione come una missione, quasi una vocazione divina. La politica è vissuta come via crucis, come ascesi intramondana. Mistica attiva quella di Hammarskjöld dunque, che si realizza nell’azione e non nella contemplazione. La fede per lui non è un’adesione intellettuale ma è un modo di essere che non può esprimersi se non nella prassi. Una spiritualità vissuta nella solitudine e con riservatezza ma con la convinzione di servire l’uomo.
    «La mia vita senza valore per altri è peggio della morte. Quindi, in questa grande solitudine, servire tutti. Quindi: quanto grande è ciò che mi è stato donato e quale nullità ciò che io sacrifico».
    Dal giorno in cui disse il suo sì a Dio, infatti, egli interpretò la sua vita in termini di rinuncia personale e sacrificio per il bene degli altri. Da un certo momento in poi quella del «sì» diventa una tematica dominante del diario: sì a Dio, sì al suo destino, sì a se stesso, sì alla vita.
    «Non so chi, o che cosa, pose la domanda. Non so quando sia stata posta. Non ricordo che cosa risposi. Ma una volta risposi di sì a qualcuno o a qualcosa. A quel momento risale la certezza che l’esistenza abbia un senso e che dunque la mia vita, nella sottomissione, abbia un fine. Da quel momento ho saputo che cos’è ‘non volgersi indietro’, ‘non preoccuparsi del domani’».
    Mentre cerca la chiave del senso della propria vita infatti, struggendosi in questa ricerca, trova la risposta nell’incarico ONU, che vede come una missione. Grato della responsabilità che gli veniva affidata, scrive: «Gratitudine e prontezza. (…) Non esitare, quando ti si chiede, di dare tutto ciò che hai… (…) Nella condizione umana è un tradimento non essere in ogni istante il meglio di sé. Tanto più se gli altri credono in te!».
    Il senso della vita è dunque donarla, accettando incondizionatamente il proprio destino.
    Convinto che Dio intende servirsi di lui nella linea della pace, infonde nel suo compito una passione quasi messianica. Assertore della «santità nel quotidiano», nel suo diario riconosce che è solo nell’azione che è possibile porsi dalla parte di Dio, mettersi in condizione di essere uno strumento nelle sue mani: «Nella nostra era la via della santità passa necessariamente attraverso il mondo dell’azione.(…) Conoscerai la vita e ne sarai riconosciuto nella misura (…) della tua capacità di sparire come fine e restare come semplice mezzo».
    L’incarico all’Onu avrebbe potuto costituire per lui uno stimolo verso l’affermazione di sé. Ma egli lo considera come un dono gratuito che ha ricevuto. La sua è l’umiltà dell’uomo grande, che considera la propria attività come una vera e propria missione per gli altri, e se stesso come un mezzo di Dio. In ciò la vita di Hammarskjöld è un esempio di coerenza.
    Egli realizza compiutamente la sua scelta di fede. Questa scelta implica la negazione del proprio egocentrismo, e ciò nella sua esperienza personale si traduce nel riserbo, nell’umiltà e nel rifiuto di mettersi in evidenza, frutto di una incessante lotta con se stesso. Contro egoismo e orgoglio si accanisce il suo sguardo interiore: costantemente egli si prefigge la negazione di sé come esigenza fondamentale della propria vita, come condizione del giusto rapporto con Dio: «Con Te: nella negazione di sé, nella fede e nel coraggio».

    Essere strumenti

    Nel periodo del suo segretariato nasce l’UNEF (United Nations Emergency Force).
    Sarebbe naturale, per chi ha giocato un ruolo decisivo in questa creazione congratularsi con se stesso. Ma il suo sguardo interiore sempre vigile gli impedisce questo autocompiacimento. Se si compiacesse con se stesso, questo modificherebbe sostanzialmente la sua persona, la sua possibilità di agire nella linea chiaramente stabilita dell’umiltà, dell’esclusione di se stesso dalla propria azione. Per questo combatte contro la tentazione costante della vanità e dell’auto-approvazione: «Fu quando per la prima volta Lucifero si congratulò con se stesso per il suo comportamento angelico, che egli divenne lo strumento del male».
    Conseguenza della sua concezione è il suo sforzo di operare con piena dedizione ma in sordina, dissociando il proprio agire dalla propria persona.
    «Rallegrati se hai sentito che quanto facevi era ‘necessario’, ma nota che anche così eri solo lo strumento per chi con te aggiungeva un granellino alla totalità che andava creando per i suoi scopi».
    Anche per questo forse, nonostante la sua morte misteriosa e il valore effettivo della sua attività all’ONU, è così poco ricordato per il suo operato.
    Egli vedeva il risultato positivo dei suoi sforzi come un miracolo, un dono di Dio connesso all’operare nella fede. Il bene o il male, leggiamo tra le pagine del suo diario, non stanno oggettivamente nel successo o nello scacco, ma nell’uomo, nella sua possibilità di distorcere i doni di Dio o di riceverli quali essi sono.
    «Ebbi un tempo e un luogo in cui seppi che la via porta ad un trionfo che è rovina e a una rovina che è trionfo (...). Più oltre sulla via imparai, passo per passo, parola per parola, che dietro ogni detto dell’eroe dei vangeli sta un essere umano e l’esperienza di un uomo. Anche dietro la preghiera che il calice gli fosse distolto e dietro la promessa di vuotarlo. Anche dietro ogni parola detta sulla croce».
    Durante gli anni della sua attività all’ONU, anni indubbiamente difficili e tesi a livello internazionale, subì diversi attacchi soprattutto da parte di quegli stati che, a causa della sua neutralità, non venivano accontentati nelle loro richieste. Nemmeno in quei casi, in quei momenti di difficoltà e solitudine, la sua preghiera contiene lamenti, accuse o amarezza, ma una fiducia che va al di là del presente limitato, per quanto grave esso sia. La sua fede non è messa in discussione dalla prova, anzi acquista una maggiore lucidità e profondità seguendo una linea di coerenza e di saldezza. Il suo era un «avere il senso delle cose di Dio in mezzo alle cose degli uomini».
    La sua religiosità era strettamente legata al contesto degli avvenimenti storici e personali.
    «La fede è il matrimonio di Dio con l’anima» e questa unione si attua nel contesto e di fronte ai fatti e all’impegno nella storia e nell’azione. In questa unione ogni cosa acquista un senso. Dio ha un piano per il suo Universo, che non è chiaro ed evidente. Si tratta di entrare in questo piano, di entrare in comunione con lui, in modo da potersi trovare all’interno del senso delle cose. Ciò lo conduce all’accettazione fiduciosa di qualsiasi evento. È la porta del «sì» alla vita e alla morte, alla sofferenza e alla gioia, all’azione di Dio nella propria vita, al servizio, al dovere, potremmo dire con un altro termine alla vocazione del credente.
    Tra le pagine del suo diario altra tematica presente come principale tema di riflessione è la morte. I suoi pensieri spesso si soffermano sulla morte e sulla necessità di esserne preparati. Le righe scritte a riguardo sembrano quasi un presagio della sua terribile fine di cui non sembra avere paura: il suo è un darsi, consapevole della sua missione. Poco prima di morire, aveva scritto: «alla domanda se ho il coraggio di andare verso la fine io rispondo SÌ senza pensarci due volte». È come se si preparasse al sacrificio supremo, ed esprime infine la sua fermezza in queste parole: «Per colui che ha fede l’ultimo miracolo sarà più grande del primo».
    Aveva chiesto «qualcosa per cui vivere e abbastanza grande per cui morire», desiderava una fine che fosse compimento della vita e, alla luce degli avvenimenti, è stato accontentato.
    Anche attraverso la sua morte, Hammarskjöld ha dato un esempio di santità nella vita quotidiana che lo rende un testimone significativo della fede nel nostro tempo.


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