Nostalgia
Il dolore del ritorno impossibile
Giorgio Ieranò
Una strana malattia affliggeva i soldati svizzeri. La Svizzera, oggi nota per la sua neutralità, fu per secoli un serbatoio di mercenari che si distinguevano per il loro carattere combattivo e spietato. Molte nazioni europee ne avevano approfittato, specie tra Medioevo e Rinascimento. Compreso il papa che, dal 1506, aveva arruolato gli elvetici come sua guardia personale. Ma, per quanto educati a una severa disciplina militare, anche questi mercenari avevano un cuore. Spesso soffrivano per essere lontani dalle loro amate valli, dalle loro care montagne. E andavano diventando sempre più malinconici, si smagrivano, si consumavano sospirando il ritorno. Talvolta arrivavano addirittura al suicidio. Il fenomeno era stato registrato soprattutto in Francia ed era stato perciò battezzato “Maladie du pays”. In tedesco si chiamava Heimweh: cioè, appunto, il dolore (Weh) di chi voleva tornare a casa (Heim).
Il 22 giugno 1688 uno studente di medicina alsaziano, Johannes Hofer, viene chiamato a discutere la sua tesi di laurea all’Università di Basilea. È appena un ragazzo, ha solo diciannove anni. Ma ha avuto un’illuminazione. Perché non dedicare la tesi a quella strana malattia degli svizzeri? Perché non cercare di definirla scientificamente? E, naturalmente, da bravo studente, si pone un problema preliminare di metodo: quale nome attribuire a questa patologia? Ovviamente, poiché si tratta di scienza, dovrà essere un nome greco. Ecco come Hofer ragiona nelle prime pagine della sua dissertazione:
Per affrontare con lo spirito giusto il compito, sarà opportuno considerare prima di tutto il nome che gli svizzeri nel loro dialetto diedero a quella malattia, pensando al dolore prodotto dalla perduta dolcezza della patria, das Heim-weh, quasi che coloro che ne sono afflitti manchino soltanto dell’aria soave della patria o si immaginino di non poterne mai più godere. Quindi, poiché gli svizzeri in Francia sono spesso preda di questo morbo, anche in quella nazione si parlò in proposito di Maladie du Pays. Sino a questo momento quella malattia non ha avuto un nome specifico in medicina, poiché, per quanto almeno mi è dato sapere, nessun medico l’ha sinora osservata con attenzione o descritta in modo convincente, cosicché, trovandomi a parlarne diffusamente per primo, ho ritenuto necessario darle un nome, come so che hanno dovuto fare prima di me tutti coloro cui è toccato in sorte di dover esporre un problema nuovo. E dopo attento esame non trovai nulla di più conveniente, e di più aderente all’oggetto, del vocabolo Nostalgia, di origine greca e composto di due altri vocaboli: nostos (νόστος), ritorno in patria, e àlgos (ἄλγος), dolore o tristezza. Cosicché per il significato della parola Nostalgia starà a significare la tristezza ingenerata dall’ardente brama di ritornare in patria. Che se poi qualcuno preferirà la forma nostomania (νοστομανία) o philopatridomania (φιλοπατριδομανία), a significare il turbamento indotto dall’impossibilità di ritornare per un motivo qualsiasi in patria, non avrò nulla da obiettare.
Fa impressione pensare che una delle parole più importanti della modernità sia stata inventata da un ragazzo appena diciannovenne nella sua tesi di laurea (citata qui nella traduzione dal latino di Alessandro Serra). Hofer non fa mai un riferimento esplicito all’Odissea. Ma certo sapeva che nostos è una delle parole chiave del poema. Lo scopo di Odisseo è il ritorno in patria. La sua dolorosa ossessione è il pensiero della terra lontana, il ricordo di Itaca, della sua casa, della sua famiglia. Uno dei passi più celebri dell’Odissea, nel quinto canto, descrive il pianto disperato dell’eroe che, prigioniero nell’isola di Calipso, se ne sta tutti i giorni seduto, solo e desolato, sulla spiaggia e guarda il mare sospirando il ritorno. Del resto, nell’epica antica, il racconto dei nostoi, dei travagliati ritorni in patria dei protagonisti della guerra troiana, era un vero e proprio sottogenere poetico. Quando creava la parola nostalgia, Hofer aveva senz’altro presente questa tradizione antica.
Ma, con il suo piglio un po’ scanzonato, Hofer non sembra neppure essere più di tanto affezionato a quella parola così decisiva che ha appena inventato. Se preferite chiamarla in un altro modo, dice in sostanza ai professori che devono esaminare la sua dissertazione, fate pure. E lui stesso suggerisce altri due nomi ricavati dal greco: nostomania (l’ossessione per il nostos) e philopatridomania (l’ossessione che nasce dall’amore per la patria). Sono, come ben si vede, definizioni assai meno efficaci. Eppure, per lungo tempo, la parola nostalgia resta in bilico, stenta ad affermarsi. Addirittura, nel 1710, quando la dissertazione di Hofer viene ristampata, il termine scompare persino dal titolo. Viene sostituito con patridopothalgia, nome quasi impronunciabile, che indica il dolore (àlgos) che nasce dal desiderio (pothos) della patria. Alla fine, però, nostalgia la spunta. Nel 1777, il termine viene consacrato dall’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. Il medico Albrecht von Haller, autore della voce relativa, contesta l’ipotesi che le sofferenze del nostalgico siano legate a differenze nel clima o nell’aria rispetto al luogo natio. Si resta ancorati al proprio Paese, e si soffre per la lontananza, argomenta von Haller, anche se si va a risiedere in luoghi più piacevoli e dal clima più mite. Come esempio decisivo, si cita il bizzarro caso dei groenlandesi: «È noto che i groenlandesi condotti in Danimarca sono stati colpiti da questa malattia in maniera così forte che, spinti dal desiderio intensissimo di rivedere la triste patria, si sono avventurati in mare con piccoli canotti, morendo nelle acque sterminate che li separavano dal loro paese».
Nostalgia, dunque, continua a essere soprattutto una malattia, una patologia da registrare nei dizionari medici. Come nella voce scritta da Philippe Pinel, un clinico specializzato nei disturbi mentali, per una Enyclopédie Méthodique pubblicata nel 1821 a Parigi: «Coloro ai quali si impedisce di far ritorno sono tormentati da angoscia, insonnia, anoressia e diversi altri gravi sintomi. Dagli animali ai selvaggi fino all’uomo civilizzato, tutti gli esseri che respirano provano questo bisogno. Per citare un esempio soltanto tra gli animali, guardate il cervo quando cacciatori spietati lo hanno spinto lontano dal suo tranquillo rifugio: vi ritorna a balzi veloci non appena si sente libero, e qui, ritrovando il suo ambiente, versa lacrime di gioia». La nostalgia non è, dunque, tanto un sentimento umano, quanto una malattia di «tutti gli esseri che respirano». Un disturbo dell’organismo che si esprime attraverso sintomi fisici, come l’anorexia, parola già usata dai medici greci antichi per una patologica assenza di appetito (òrexis). Essendo una malattia, però, la nostalgia può anche essere curata. Sebbene le terapie proposte fossero spesso abbastanza sconcertanti. Già Hofer, per esempio, raccomandava di somministrare prima di tutto un purgante. Mentre al tempo della Rivoluzione francese si curava la nostalgia dei soldati applicando un ferro rovente sul petto: pare che il sistema funzionasse.
Ancora nel 1908, uno dei più grandi filosofi del Novecento, Karl Jaspers, si laurea in medicina con una tesi sulla nostalgia. Che, però, tratta la questione da una prospettiva diversa. Jaspers analizza il rapporto tra la nostalgia e il crimine. Il nostalgico, sosteneva, era spesso spinto al delitto dal desiderio di distruggere la società che lo circondava, così diversa dalla patria lontana. Intanto, però, la nostalgia era diventata anche sentimento letterario. Un anno dopo che Jaspers aveva discusso la sua tesi, nel 1909, Aldo Palazzeschi pubblica la sua celebre poesia Chi sono? Dove scrive: «Non c’è che una nota / nella tastiera dell’anima mia: / “nostalgia”». In quello stesso anno Marcel Proust inizia a scrivere il suo Alla ricerca del tempo perduto, e a vagheggiare quelle madeleines che rievocano il ricordo, se non di un paese, di un’infanzia perduta. «La spina della nostalgia» di cui parlava un altro poeta, Giorgio Caproni, si è ormai conficcata nell’animo dell’uomo novecentesco. Possiamo, dunque, sostenere che nostalgia è una patologia dei moderni, ignota agli uomini antichi, così come ignota era la parola che la designava? Difficile dirlo. Anche a prescindere dal caso di Odisseo, momenti propriamente nostalgici non sono mai mancati nelle letterature antiche. Nell’Ifigenia in Tauride di Euripide, la protagonista e le ragazze greche del coro, prigioniere di una terra barbara, cantano con accenti commoventi il loro sogno di ritornare nella patria lontana, di abbracciare i loro cari, di rivedere le stanze in cui sono cresciute da bambine. E il poeta Ovidio, spedito da Augusto in esilio sul mar Nero, ha costruito sulla nostalgia di Roma un intero libro di poesie, i Tristia. Anche i sintomi che Ovidio denuncia nelle sue elegie, come l’insonnia o l’anoressia, sono gli stessi che poi verranno individuati dai medici moderni. E un grande esule come Dante, in fondo, non aveva già ben descritto il sentimento della nostalgia, quando parlava del cuore dei naviganti, lontani da casa, che s’intenerisce nell’ora del tramonto («l’ora che volge il disio»)?
Eppure è anche vero che, finché non esiste la parola, la cosa stessa non ha una sua forma riconoscibile. Lo ricordava Jean Starobinski, nel 1966, all’inizio del suo saggio Il concetto della nostalgia: «Non appena il nome di un sentimento viene messo in luce – come sa fare la moda – il termine, con l’efficacia che gli è propria, contribuisce a fissare, a propagare, a generalizzare l’esperienza affettiva di cui è l’indice. Il sentimento non è la parola, ma può diffondersi solo attraverso le parole». In fondo, vale per ogni sentimento quello che La Rochefoucauld osservava riguardo all’amore: «Ci sono persone che non si sarebbero mai innamorate se non avessero sentito parlare dell’amore».
(Giorgio Ieranò, Le parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda, Marsilio 2020)