Etty e gli altri
"Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio.
Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di Te.
E cerco di disseppellirTi dal loro cuore, mio Dio".
È un modo vasto, quello di Etty, ricco di relazioni e di modalità diverse di relazione. Da sola non si basterebbe, nemmeno con la sua straordinaria vita interiore, perché gli altri non ne sono fuori, vi fanno parte, aiutano a costruirla e modellarla.
Questi altri potrebbero essere nominati per nome: le persone care e quelle conosciute dell'ambito familiare o relazionale, tra essi soprattutto Spier ovviamente), ma anche altre presenze assenti, i poeti, Rilke soprattutto. Ma sono anche semplicemente "gli altri", un termine collettivo per dire del suo atteggiamento verso chi fa parte e riempie il suo quotidiano, le sue azioni, i suoi pensieri, i suoi propositi.
Facile sarebbe declinare con proposizioni il rapporto con gli altri: appunto "con", ma anche "per", appunto per esprime la diversa relazionalità e intenzionalità, la reciprocità, il confronto... con diversi rischi a loro riguardo, la strumentalizzazione, le varie "pretese", insofferenze.
Anche i "verbi" sarebbero di aiuto, ma tre sono quelli che segnano i rapporto in modo inconfondibile: comprendere, aiutare, pregare (ma anche perdonare). Il lettore lo scoprirà in tante delle citazioni qui sotto riportate.
L'atteggiamento più comune verso di loro è quello della volontàò di comprensione e della responsabilità, e della condivisione in vista della comunicazione dei reciproci mondi interiori, o per abilitare gli altri a compiere questo passaggio.
Volendo dare un nome specifico alle diverse modalità di rapporto, potremmo percorrere il sentiero "amico" e "nemico", vicino/lontano...
All'interno di tali relazioni compare in sottofondo un velo, una specie di "dilemma" avvertito ma non tanto elaborato: quale rapporto tra il proprio sé, l'io, e l'altro? fino a che punto procedere e come?
Se forse l'elaborazione teorica del dilemma non è compiuta, la sua pratica ha comunque trovato piena realizzazione. Come espresso – anche poeticamente – nella testimonianza che immediatamente segue:
"Portare con sé l'altro, sempre e ovunque, chiuso in se stessi, e lì vivere con lui. E non solo con uno, ma con molti. Accogliere l'altro nel proprio spazio interiore e lì lasciare che fiorisca, dargli un posto dove possa crescere e svilupparsi. Vivere davvero insieme all'altro, anche se non lo si vede per anni, lasciare che l'altro ci continui a vivere dentro e vivere con lui, questa è la cosa essenziale. E così si può continuare a vivere insieme a qualcuno, al riparo dagli eventi esteriori di questa vita. Ciò è una grande responsabilità".
L'ALTRO
J.: “Quando pensi che l'altro non ti consideri abbastanza, significa che gli sei legato e, per via di questo legame, non sei indipendente. Quanto meno ti aspetti, tanto più ricevi”.
Quando qualcuno mi rivolge parole di odio - e questo, in ogni caso, non succede spesso - non provo mai la tentazione di rispondere con l'odio, ma sprofondo improvvisamente nell'altro, in una sorta di disorientamento doloroso e al contempo interrogativo, e mi chiedo perché l'altro sia così, dimenticando me stessa. Per questo spesso sembro inerme e timida, ma non penso proprio di esserlo: so maledettamente bene come misurare le parole dell'altro e di volta in volta me ne faccio un'idea, ma in genere non ritengo molto importante farmi valere immediatamente.
Ma, ancora una volta: non devi desiderare di possedere un'altra persona, non fare richieste all'altro. Devo impararlo ogni volta daccapo, nel mio rapporto con S.
Noi tre godevamo semplicemente l'uno dell'altro, e stavamo bene, perché l'elemento umano era predominante.
Se mi accorgo che qualcun altro è triste, dimentico la mia stessa tristezza e voglio capire e aiutare l'altro.
Forse devo ancora elaborare tutto quello che domenica pomeriggio è emerso dai profondi abissi interiori; che la mia strada forse non sarà quella di trovare un uomo per la vita. Che cosa significa allora abbandonare l'idea di cercare il proprio centro in un altro, se dentro di me sento con forza l'impulso di unirmi all'altro, fino a sciogliermi in lui? Ma questo impulso è, credo, solo finzione, non esiste, o esiste forse solo in alcuni momenti, quando provo il pungente desiderio di fondermi con un altro. Si tratta di una sensazione ormai nota, quella di volersi liberare di tutte le responsabilità, di non saper affrontare la vita con le proprie forze, pertanto non posso cedere a tale sensazione. Non è nient'altro che romanticismo da scolarette, eppure è radicato nel profondo, questo desiderio di perdersi nell'altro, per liberarsi di se stessi. Forse è questa la ragione per cui poi, nella vita reale, l'unione di due persone appare fittizia, si viene sempre rigettati in se stessi e ci si ritrova soli e più inermi che mai. Devi educarti a vivere con le tue forze, avendo fiducia in te stessa. Anche il tendere verso una posizione riconosciuta all'interno di una società ben strutturata è in realtà la stessa cosa: la ricerca di una certezza che non viene da noi stessi, ma si realizza in qualcosa al di fuori di noi: in un buon lavoro per l'uomo, nell'istituzione del matrimonio per la donna. E tutto questo serve solo a suggestionarci l'un l'altro e a convincerci che siamo al sicuro e protetti, mentre soltanto tu sai, e solo Dio sa, quanti vuoti e paure e ferite si muovono nella tua mente.
Ma sii cauta, nel dar voce a queste sensazioni. Forse negli ultimi tempi emozione e ragione, spirito e mente si sono di nuovo ostacolati a vicenda, oscurandosi e indebolendosi l'un l'altro.
Sembra che siano trascorse molte settimane e che io abbia di nuovo vissuto tantissimo, eppure a un certo momento mi ritrovo sempre alle prese con lo stesso dilemma:
il bisogno - fittizio o fantasioso, o come altro si voglia definirlo - di possedere un uomo per tutta una vita devi frantumarlo in mille pezzi. Quella brama di assoluto dev'essere disintegrata dentro di te. Non pensare che le persone per questo si impoveriscano, al contrario, si arricchiscono; di certo diventano più complicate, e si differenziano le une dalle altre. Devi accettare gli alti e bassi nelle relazioni, vederli come qualcosa di positivo, non di miserevole. Il non voler possedere l'altro non significa però allontanarsi dall'altro; bisogna lasciare all'altro la libertà completa, anche interiormente, il che non vuol dire rassegnarsi. Comincio solo ora a comprendere tutta quella passionalità nella mia relazione con Max. Era una forma di disperazione, perché consideravo l'altro in ultima istanza irraggiungibile, e tale consapevolezza mi incitava sempre più. Dipendeva di certo dal fatto che volevo raggiungere l'altro in un modo sbagliato: troppo assoluto. E l'assoluto non esiste. So che la vita e le relazioni umane sono infinitamente sfaccettate, e che da nessuna parte c'è qualcosa di assolutamente e obiettivamente valido, ma questa consapevolezza deve entrarti nel sangue, mia cara, deve albergare in te, e non soltanto nella tua mente: la devi vivere. Eccomi tornare sempre sulla stessa questione, perché occorre esercitarsi una vita intera per capire che, se si accetta una visione della vita, bisogna anche viverla; questa è probabilmente l'unica possibilità di ottenere un senso di armonia.
Questo è probabilmente l'aspetto più essenziale di un'amicizia: il riflettersi dell'uno nell'altro. E nell'amicizia con S., ne divento consapevole per la prima volta.
E mi dispero anche per le relazioni che le persone stringono l'una con l'altra, per quelli che si legano l'uno all'altro, senza tuttavia poter essere l'uno dell'altro.
Gli ho chiarito che quella depressione forse dipendeva dal fatto che, per un attimo, mi ero sentita legata a lui e dipendente da lui, e che per questo le mie forze si erano affievolite e io avevo ricominciato a “vacillare”. Bisogna ogni volta ristaccarsi totalmente da qualcuno. Grazie a quelle lettere di Hertha, d'un tratto avevo compreso con grande chiarezza che lui prima o poi mi avrebbe lasciata. Ma è una sciocchezza, ovviamente. Vista la natura della nostra relazione, lui ci sarà sempre, con o senza Hertha. Ho di nuovo inquadrato tutto in una prospettiva troppo materialistica. E la secolare questione dei legami senza schiavitù. E lui: Già, e quella schiavitù significa anche fare troppe richieste all'altro. E io: Oppure dispensare totalmente l'altro.
E ci deve essere comunque un equilibrio tra corpo e spirito. E nel momento in cui desideri tanto fortemente che qualcuno ti stringa tra le sue braccia, e quello evita di farlo, ti assale, come reazione estrema a tutto ciò, un'improvvisa sensazione di grande straniamento e abbandono, seguita da odio e rabbia nei confronti dell'altro. Oggi pomeriggio ero così infuriata e infelice e d'un tratto è sopraggiunta anche una profonda depressione; oltre a tutto ciò, anche uno sfinimento fisico, esaurimento e dolore alla schiena.
Ma ci sono momenti - per esempio, ieri e gli ultimi giorni - in cui si vorrebbe dismettere il proprio mondo e i propri limiti per potersi fondere nell'altro.
Niente “pretese” nei confronti dell'altro, non aspettarti niente, altrimenti rendi te stessa e l'altro meno liberi, mentre si forma un clima ostile e aspro, nel quale una relazione umana non può fiorire e prendere le sue forme più belle. Sei ancora molto piccola. O, forse, ho solo l'influenza.
E questo appunto, in qualche modo, dava gioia: il fatto che fosse rimasto tutto ciò, il buon scambio fiducioso dei nostri pensieri, il breve reciproco indugiare nell'atmosfera dell'altro, l'evocare ricordi che non facevano più male, mentre una volta ci eravamo letteralmente distrutti a forza di vivere intensamente; e anche il constatare per un momento, con la massima tranquillità: è vero, eravamo proprio degli esaltati.
E si sa che nell'altra parte del corpo - in caso di necessità, attraverso tutto il corpo - si stendono ampie e ricche aree di comunanza, ma bisogna essere in grado di fare i passi interiori e lasciare la libertà all'altro.
Portare con sé l'altro, sempre e ovunque, chiuso in se stessi, e lì vivere con lui. E non solo con uno, ma con molti. Accogliere l'altro nel proprio spazio interiore e lì lasciare che fiorisca, dargli un posto dove possa crescere e svilupparsi. Vivere davvero insieme all'altro, anche se non lo si vede per anni, lasciare che l'altro ci continui a vivere dentro e vivere con lui, questa è la cosa essenziale. E così si può continuare a vivere insieme a qualcuno, al riparo dagli eventi esteriori di questa vita. Ciò è una grande responsabilità.
Ma l'altro lato, l'umanità, lì risiede il nostro compito. Io mi apro a voi e voi entrate. Non temo più di rendermi ridicola o di essere considerata “sentimentale”; quando voi non mi capite ciò dipende solo da me. Dipende sempre da noi stessi; quando l'altro non mi comprende vuol dire che io non sono paziente o comprensiva o abbastanza aperta, oppure che non ho buona volontà a sufficienza. Questo è il modo in cui Leonie ha posto la questione, con una certa fatica, molti pomeriggi fa, accanto al fuoco; lo aveva imparato a sue spese in gioventù: dipende sempre da noi, siamo noi a non comportarci abbastanza bene, se non riusciamo a raggiungere l'altro.
Lui ha detto che questo sembra essere l'ideale per molti: un uomo e una donna che sono esclusivamente l'uno per l'altra, che, nell'amore, si lasciano totalmente assorbire dall'altro. Noi, invece, pensiamo che sia soltanto una limitazione. Così non arriva più alcuno apporto da fuori; ci si nutre a vicenda e questo, a lungo andare, porta comunque a un impoverimento. Se l'amore per tutte le persone non viene coinvolto, in una maniera o nell'altra, alla lunga il rapporto conduce a impoverimento e limitazione. E noi viviamo questa situazione, davvero.
L'onestà non consiste di certo nel raccontare tutto a tutti. Quello che conta è sentirsi responsabili l'uno per l'altro; e vivere la propria vita e non opprimere l'altro più di quanto sia necessario.
Dio, certe volte non si riesce a capire e ad accettare ciò che i tuoi simili su questa terra si fanno l'un l'altro, in questi tempi scatenati. Ma non per questo io mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinnanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di rintracciare il nudo, piccolo essere umano che spesso è diventato irriconoscibile.
È una tragedia eterna nelle relazioni fra le persone. La vita dà, la vita prende. A volte ti concede di amare molto qualcuno, di esserne follemente innamorata e affascinata, poi all'improvviso si porta via tutto. E quello per cui un tempo ti eri infiammata di passione sta là davanti a te, a un tratto, meschino e saccheggiato. Ma in genere non ci si può fare nulla. Forse hai amato troppo ciecamente, con scarsa attenzione alla realtà. Perciò compare all'improvviso una realtà nella quale l'amore non ha più spazio. E l'altro non ci può fare nulla. E tu stessa spesso non puoi farci molto. Ma non ci si deve biasimare a vicenda, anzi è necessario essere grati alla vita per i momenti di ispirazione che essa talvolta ci permette di vivere attraverso altri; bisogna rassegnarsi e accettare che tutto questo scompaia di nuovo, e soprattutto non si deve darne la colpa all'altro. Non è una questione dell'altro, è una questione della vita in sé. E qui non si può forzare nulla.
Ho letto ancora un po' di Rilke e ho trovato quanto segue - le parole mi venivano incontro allegre come fossero i miei più stretti familiari:
“... e all'improvviso hai la sensazione di cogliere, come attraverso la trasparenza delle lacrime, la vaga idea che tu stesso, in quanto amante, hai necessità di star solo, che stai patendo un dolore, ma non un torto, quando sei sopraffatto e cinto d'assedio nel bel mezzo di un sentimento che ti precipita verso una persona amata; sì, che persino questa in apparenza suprema condivisione chiamata amore può svilupparsi integralmente e trovare in qualche misura il suo compimento, solo quando si è soli, separati; e questo, anche perché nella fusione di affetti profondi si genera una corrente di piacere che ti trascina con sé e alla fine ti abbandona da qualche parte; mentre per chi è chiuso nel suo sentimento l'amore diventa un lavoro quotidiano, che lui stesso si è imposto, e una serie di audaci e generose richieste poste di continuo agli altri. Esseri che si amano l'un l'altro a tal punto scatenano infiniti pericoli attorno a sé, ma sono al sicuro da quelle modeste occasioni di pericolo, che hanno sfilacciato e sminuzzato al loro esordio tanti grandiosi sentimenti. Poiché essi sono pronti a desiderare e a pretendere sempre il massimo l'uno per l'altro, nessuno può far torto all'altro con una limitazione, al contrario, essi incessantemente generano, l'uno per l'altro, spazio e vastità e libertà...”.
GLI ALTRI
Mi crogiolo ancora troppo nel momento di transizione; ogni cosa deve diventare più spontanea e semplice, finché ci si ritrova infine adulti, forse, capaci di stare vicino agli altri mortali che popolano questa terra fra mille difficoltà, e di donar loro un po' di chiarezza grazie al proprio lavoro, perché si tratta comunque anche di questo.
Erano sentimenti piuttosto meschini, non certo elevati, ma me ne rendo conto soltanto ora. In quel momento mi sentivo infelicissima e sola, cosa che adesso capisco benissimo: avrei voluto andar via e mettermi a scrivere. Credo di capire anche questo. È un altro modo di “possedere”, di attirare le cose a sé con parole e immagini. L'impulso che mi spingeva a scrivere dev'essere stato soprattutto il desiderio di nascondermi agli altri con tutti i tesori che avevo accumulato - di annotare ogni cosa e di goderla tenendomela per me.
Un tempo, quando parlavo con gli altri o mi trovavo in compagnia di qualcuno, mi concedevo interamente, al punto che, dopo, ero costretta a rimettere insieme tutti i pezzetti. Le persone se ne andavano rinforzate dalla mia vitalità, mentre io restavo con i miei brandelli, spossata. Oggi, invece, mi arricchisco e mi rafforzo grazie a ogni contatto umano, e anche gli altri traggono maggiori benefici dalla mia compagnia: lo vedo ogni giorno, da una serie di piccole cose.
Una volta, sulle scale dell'università, Hans du Puis mi ha detto: “Sei una persona davvero radiosa”. Credo sinceramente che potrei esserlo, potrei anche dare un po' di forza alla vita degli altri ed essere davvero felice, perché anche l'autentica felicità è un traguardo: essere davvero felice dentro, accettare il mondo di Dio e goderne senza voltare le spalle a tutta la sofferenza che vi regna.
Va sempre tenuto presente. Se ti leghi a qualcuno, questi assorbirà le tue energie con il risultato che tu avrai sempre meno da dargli. Bisognerebbe essere un mondo a sé, con un proprio centro; è da questo centro che si possono poi trasmettere agli altri energie o forze, e così via.
Bisogna fare in modo che nessuno si arricchisca a danno di un altro. Per riuscirci è necessario avere proprio tanto amore dentro di sé. Quando l'attenzione è attratta da un viso nuovo, non si possono di punto in bianco dimenticare tutti quelli vecchi. Se nasce un forte sentimento verso una persona sconosciuta, i sentimenti nei confronti dei vecchi amici non possono affievolirsi. Lo si può imparare. Quando si tiene tanto a qualcuno, bisogna stare attenti a non investire su di lui tutte le proprie energie, altrimenti non resta nulla per gli altri. Nelle relazioni umane davvero buone, si trae forza in egual misura sia dall'amore sia dall'amicizia che si prova per gli altri. Si deve essere giusti con tutti, non si può deprivare uno a causa di un sentimento troppo intenso nei confronti di un altro. Questo richiede molta forza e una grande quantità di amore.
Sono di nuovo diventata un po' più forte; riesco a combattere i problemi dentro di me. Il primo impulso è sempre quello di cercare l'aiuto degli altri: penso di non farcela, ma poi d'un tratto mi rendo conto che ho lottato per trovare una soluzione, che me la sono cavata da sola, e questo mi rende più forte.
Devo abbandonare ogni pigrizia, e soprattutto le inibizioni e le insicurezze per poter arrivare, alla lunga, a me stessa e, attraverso me stessa, agli altri. Devo fare chiarezza e accettarmi.
Penso davvero di non essere proprio una persona socievole, non sono fatta per garbate occasioni sociali e per i convenevoli. È una sciocchezza, ovviamente, vista la mia vitalità, la mia vivacità e la capacità di divertirmi in compagnia. Ma è come se mi costasse sempre più fatica. In base a come mi sento in questo istante, credo di essere buona solo per le conversazioni a due, in cui qualcuno mi racconta tutta la sua vita in una volta sola. Sono interessata all'essenziale, al fulcro dell'essere umano, il resto mi annoia. Mi chiedo quanto sentimentalismo ci sia in tutto questo, in che misura io cerchi sempre le emozioni e le passioni molto forti.
In realtà, quello che ho appena scritto non è vero. Infatti amo la compagnia degli altri, in quei momenti riesco a godere di una singola parola, un gesto, un sorriso, l'espressione particolare del volto di qualcuno. E soprattutto dell'umorismo che si incontra da tutte le parti. Forse volevo solo dire che sento sempre meno il bisogno di parlare di me stessa o di rivelare qualcosa di essenziale su di me, e questo è probabilmente il motivo per cui ho la sensazione di essere una persona poco socievole.
Conosco due forme di solitudine. L'una mi fa sentire terribilmente infelice, perduta e quasi sospesa; l'altra mi rende forte e felice. La prima è sempre presente quando non mi sento in contatto con i miei simili, quando in genere non ho il benché minimo contatto con alcunché: allora sono completamente tagliata fuori da tutti e da me stessa, non afferro il senso di questa vita né vedo ciò che unisce le cose, non avverto il mio posto in questa esistenza. Nell'altro tipo di solitudine mi sento invece forte e sicura, in contatto con tutti, con tutto e con Dio, e so di poter affrontare la vita da sola senza dipendere dagli altri. In quei momenti mi sento parte di un tutto ricco di significato, immenso, e mi sembra di poter ancora dare molta forza anche agli altri.
La prima forma di solitudine è quella pericolosa. È quella a cui mi devo opporre. Tutto deriva dal non avere ancora il coraggio di confrontarsi con se stessi e con gli altri. Ieri la lettera di S. è stata così importante: all'inizio non sentivo alcun tipo di contatto con quella missiva, ed ero ancora distaccata da S.; dopo di che mi sono buttata sul letto. Sono rimasta lì, sdraiata a pancia in su, e all'improvviso è giunto un nugolo di pensieri essenziali e produttivi. Mi sono sentita di nuovo piena di vita e calore, e ho avvertito un vero contatto con quell'uomo caro e buono. La mia malattia è che, in ultima istanza, ogni essere umano mi rimane estraneo. Nessuno mette davvero radici nel mio animo, per sempre. Ma ieri lui mi è sembrato d'un tratto molto meno estraneo. Si tratta di un problema serio, l'ho capito ieri, e va trattato con serietà.
Nessuna persona dev'essere il fine di un'altra, bensì il mezzo, lo strumento per raggiungere uno stadio superiore della vita, per svincolarsi da questa terra troppo pesante e dalle sue creature. Con gli altri e attraverso gli altri bisogna imparare a liberarsi reciprocamente, in modo da vivere insieme in una più completa libertà. Le tue intenzioni sono buone, ma non l'hai ancora detto bene: ci vuole una vita intera per vivere queste cose in maniera chiara e limpida e per formularle lucidamente, affinché un altro possa trarne beneficio per la sua esistenza. Mi sento di nuovo bloccata. E tuttavia oggi ho fatto dei progressi rispetto a ieri, anche se persiste il medesimo mal di testa e un principio di mal di stomaco. Eppure sono maturata ancora un po'; ho coltivato un ulteriore segmento di campo, ma la distesa è incommensurabilmente vasta. Ciò di cui più soffro è il fatto che non riesco ancora a dire le cose, a formularle in modo tale che le parole diventino trasparenti e vi si scorga dietro l'anima. Ti sei espressa in modo troppo forbito, ragazza!
Sai una cosa? In fondo prendo sul serio le mie crisi depressive solo perché, tentando di capirle, in un secondo tempo riuscirò a capire anche quelle degli altri e potrò magari aiutarli nelle loro ore difficili. Tutte le volte che mi sento psicologicamente a terra, provo il desiderio di prestare aiuto, di mostrare agli altri la via per uscire dall'oscuro labirinto della loro anima, affinché possano risparmiarsi molte ore di infelicità. Ma per poter offrire chiarezza agli altri, devo prima far chiarezza in me stessa”.
Quello che faccio è hineinhorchen (mi sembra una parola intraducibile). Hineinhorchen, “prestare ascolto” a me stessa, agli altri, al mondo. Ascolto molto intensamente, con tutto il mio essere, e cerco di tendere l'orecchio fin nel cuore delle cose. Sono sempre tesa e piena di attenzione, cerco qualcosa ma non so ancora cosa. Cerco una verità profonda, ma non ho ancora idea di che cosa si mostrerà.
Ma ieri sera, di punto in bianco, è arrivata l'illuminazione: io pretendo che gli altri mi prendano sul serio e, quando non lo fanno, mi sento “incompresa”, non avverto il contatto. Ma in realtà non è necessario che io venga compresa; quel che voglio è solo comprendere gli altri. Ognuno desidera sempre sentire se stesso negli altri e perciò vuole che gli altri lo comprendano. Ma bisogna riuscire a prendere le distanze da una simile pretesa. In via teorica l'ho fatto, ma non “vivo” ancora del tutto in accordo con ciò. Desidero ancora troppo che mi si dedichi piena attenzione, che mi si comprenda. Eppure a volte mi sembra di essere composta di mille persone e di non poter pretendere che gli altri stian dietro ai miei umori e ai miei turbamenti interiori. Proprio perché così tante cose si agitano dentro di me, e mi accorgo via via che nessuno stato d'animo mi è ormai estraneo, riesco a sentire e a capire gli altri, sempre più a fondo, e questo deve bastarmi. Credo di non essere destinata all'unione con un unico uomo. La maggior parte delle persone, d'altronde, si convince di qualcosa di simile e poi si accontenta. Io invece non credo di dover dipendere da un'altra persona nella mia vita, ma da me stessa e da Dio.
Non dimenticare che sei sola e che nessuno ti può aiutare, ma ringrazia di avere dentro di te ricche sorgenti, grazie alle quali puoi sempre aiutare te stessa e persino fare a meno degli altri. Hai ancora troppo bisogno di farti conoscere dagli altri, eppure sei così timida.
Non sai mai quale effetto puoi avere sugli altri. E poi ancora, in relazione a quella conversazione telefonica: Come puoi aspettarti che un altro ti capisca, se non riesci neanche tu a capire te stessa? Questo e molto altro. E lui trova “sorprendente” che io sia comunque tanto in salute, se si considera da quale strano nido vengo. Stasera Mischa sarà la ciliegina sulla torta.
Questo rende la vita a volte così pesante, e non solo per me, ovviamente: in realtà io non scrivo perché trovo me stessa oltremodo interessante - o forse sì? - ma perché posso capire gli altri solo attraverso me stessa. Solo se ti immergi nei sogni, e in te stessa, e grazie al bisogno di immedesimarti negli altri e nel mondo, li ascolti in profondità, e senti al contempo in te stessa amore infinito e forza, solo così puoi capire tutto. Ma in realtà questa è un'attitudine passiva, o meglio, improduttiva per la vita sociale. No, non è neanche così. Dare forma ai sogni; comunicare agli altri quello che hai capito, dare forma. Godere da sola di ciò che hai compreso, da una parte, e l'istinto a concretizzare, dall'altra. E poi, devi anche guadagnarti da vivere, dare lezione e rammendare calze. A volte è tutto così tremendamente difficile. Oh, insomma, il sole splende così glorioso, lasciamoci un po' andare e viviamo semplicemente sotto il sole, dormiamo e dimentichiamo per un momento tutti i doveri e i rapporti e i temi di russo e i dentisti, tu goditi la Duse e il tuo sognare.
Non devi mai pretendere da un altro quello che tu stessa non puoi dare. Nei momenti in cui io mi sento giù e stanca, mi irrito molto più velocemente del normale per la stupidità e la mancanza di spirito degli altri. Per esempio, con Tide. Ieri sera l'ho trovata fastidiosa e infantile, noiosa come una maestrina di scuola. Io stessa ero terribilmente stanca e depressa. Eppure un paio di giorni fa pensavo: ho spirito a sufficienza, almeno quello non devo cercarlo negli altri; negli altri cerco un po' di anima e calore umano e vero amore.
Nei giorni in cui non riesco a voler bene a nessuno a causa della mia mancanza di energia, pretendo che gli altri mi amino il doppio. O, per esprimermi meglio, non lo pretendo più. In passato lo facevo. Quanto meno potevo dare agli altri, tanto più irragionevole diventavo nelle mie richieste nei loro confronti.
Da qualche parte in me ci sono una malinconia, una tenerezza e anche un po' di saggezza che cercano una forma. A volte mi passano dentro dialoghi, immagini e figure, atmosfere. Questo improvviso affiorare di qualcosa che dovrà diventare la mia verità. Questo amore per gli altri che dovrà esser conquistato - non nella politica o in un partito, ma in me stessa.
Non so se potrò essere un'amica per gli altri. E se non potrò esserlo perché non è nel mio carattere, bisogna che affronti anche questo. In ogni caso non devi mai illuderti. Devi aver misura. E tu sola puoi essere misura di te stessa.
Ora non riesco a concentrarmi. Una sensazione molto spiacevole. Non appena smetto di sentirmi pura dentro, non riesco neanche più ad aprirmi con gli altri.
Sembra che in me si sia creato un completo equilibrio. Non sento più il bisogno di raggomitolarmi in un angolino accanto all'armadio per ascoltarmi dentro; adesso presto ascolto tutto il giorno a ciò che accade dentro di me, anche quando sono in mezzo agli altri; non c'è più bisogno che mi isoli e traggo di continuo forza dalle sorgenti più nascoste e più profonde.
Imparo sempre più come tenere le mie forze a disposizione degli altri.
Jan chiedeva con amarezza: cosa spinge l'uomo a distruggere gli altri? E io: gli uomini, dici - ma ricordati che sei un uomo anche tu. E inaspettatamente, quel testardo, brusco Jan era pronto a darmi ragione. Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove.
Sono tanto grata per questa vita, sento la mia crescita, conosco i miei errori e le mie piccolezze, ogni giorno di nuovo, ma conosco anche le mie possibilità. E amo così tanto, amo alcuni buoni amici ma quell'amore non forma un ostacolo per gli altri; amo in modo ampio, onnicomprensivo e senza confini tante persone, in realtà anche quelle che non mi piacciono affatto.
È un bene poter di nuovo passare questi momenti di tristezza e doverli sopportare fino a una positiva conclusione. Nel frattempo mi pesano moltissimo dentro e fanno male. Non si devono mai far scontare agli altri, sarebbe irresponsabile: gli altri non devono ricevere sofferenza da parte nostra quando noi dobbiamo soffrire la nostra tristezza. Eppure c'è sempre quella tentazione infantile di sentirsi affranti e di pensare che nessun altro abbia una vita dura come la nostra.
E io gli ho detto anche che era così difficile conservare dentro di sé un desiderio grande, puro e nitido, e che si trattano gli altri tanto ingiustamente quando si soffre. E lui ha detto: Ho scritto a Hertha che, quando un profondo anelito ci coglie, bisogna cercare di trasformarlo in amore per gli altri. E io: Sì, ma ci sono momenti in cui tutto diventa davvero troppo e non ne puoi più. E lui: Be', questo è ovvio.
Perché anche questa è una nuova verità per me: non si deve “lavorare” solo alla propria vita interiore, ma anche a quella di coloro che si è voluto accogliere in se stessi. In realtà noi diamo uno spazio ai nostri amici in noi stessi, uno spazio dove possono crescere, e cerchiamo di definirli più chiaramente, e questo dovrebbe aiutare anche gli altri alla lunga, anche se noi non raccontiamo loro nulla. Accogliere in sé i gesti, gli sguardi, le parole, i problemi e la vita degli altri, e lasciare che quella vita altrui continui a svilupparsi in noi, diventando sempre più delineata: questo è il nostro compito essenziale.
Devo ancora imparare a dispormi meglio nei confronti degli altri.
...
Non solo ascoltare dentro se stessi, ma anche dentro gli altri. E devi farlo almeno fino a che non ci sarà così tanto caos e rumore in te stessa, caos e rumore che nascono da te, fino a che non sarà tanto difficile per gli altri avvicinarsi a te, se non per coloro che riescono a guardare oltre e che avvertono continuamente la corrente sotterranea, la corrente della vita che là, nel tuo profondo, scorre senza sosta. Ma non devi rendere le cose troppo difficili ai tuoi simili. E non devi essere troppo ingenua e inconsapevole nel relazionarti con loro: cerca piuttosto di entrare in sempre maggiore sintonia e di sapere cosa esattamente ognuno di loro può ricevere e rielaborare dentro di sé.
Bisognerebbe restare sempre in sintonia con gli altri, ricordando continuamente quant'è difficile l'accesso alla realtà interiore e come sia necessario ritrovarlo di continuo.
Si deve anche avere la forza di soffrire da soli, e di non pesare sugli altri con le proprie paure e con i propri fardelli. Dobbiamo ancora impararlo e ci si dovrebbe reciprocamente educare a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con la severità. Quando dico: in un modo o nell'altro ho chiuso i conti con la vita, non è per rassegnazione. “Tutto è proprio un malinteso”. Se mi capita di dire una cosa del genere, viene intesa altrimenti. Non è rassegnazione, non lo è di certo. Cosa voglio dire? Forse, che ho già vissuto questa vita mille volte, e altrettante volte sono morta, e dunque non può più succedere nulla di nuovo?
Ma ero di nuovo triste e preoccupata all'idea di pesare sugli altri, di render la loro vita ancora più difficile. Una volta non facevo mai vedere se mi stancavo troppo per le mie forze: non volevo pesare, facevo tutto come gli altri - passeggiate, festeggiamenti, le ore piccole. Forse c'era un po' di presunzione nel mio atteggiamento: la paura di perdere la simpatia e la compagnia degli altri se avessi disturbato i loro divertimenti con la mia stanchezza.
Che mi prende in questo momento? Una gioia così leggera, quasi scherzosa? Ieri è stato un giorno pesante, molto pesante; ho dovuto soffrire molto dentro di me, ma ho assorbito tutte le cose che mi sono precipitate addosso, e mi sento già in grado di sopportare qualcosa in più. Probabilmente questa serenità, questa pace interiore mi vengono dalla coscienza di sapermela cavare da sola ogni volta, dalla constatazione che il mio cuore non s'inaridisce per l'amarezza, che i momenti di più profonda tristezza e persino di disperazione mi lasciano tracce positive, mi rendono più forte. Non mi faccio molte illusioni su come le cose stiano veramente e rinuncio persino alla pretesa di aiutare gli altri, partirò sempre dal principio di aiutare Dio il più possibile e se questo mi riuscirà, bene, allora vuol dire che saprò esserci anche per gli altri. Ma su questo punto non dobbiamo farci delle illusioni eroiche.
Quando prego, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo “Dio”. Non so, trovo così infantile che si preghi per ottenere qualcosa per sé.
Ogni giorno imparo qualcosa sugli uomini e mi rendo sempre più conto che non si può trovare aiuto negli altri, che dobbiamo sempre più contare sulle nostre forze interiori.
Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di Te. E cerco di disseppellirTi dal loro cuore, mio Dio.
In ogni persona che viene da me io mi metto a esplorare, con cautela. I miei strumenti per aprirTi la strada negli altri sono ancora ben limitati. Ma esistono già, in qualche misura: li migliorerò pian piano e con molta pazienza. E Ti ringrazio per questo dono di poter leggere negli altri. A volte le persone sono per me come case con la porta aperta. Io entro e giro per corridoi e stanze, ogni casa è arredata in modo un po' diverso ma in fondo è uguale alle altre, di ognuna si dovrebbe fare una dimora consacrata a Te, mio Dio. Ti prometto, Ti prometto che cercherò sempre di trovarTi una casa e un ricovero.
Bisogna vivere con se stessi come con un popolo intero: allora si conoscono tutte le qualità degli uomini, buone e cattive. E se vogliamo perdonare agli altri, dobbiamo prima perdonare a noi stessi i nostri difetti.
È forse la cosa più difficile, come constato così spesso negli altri e un tempo anche in me, ora non più: sapersi perdonare per i propri difetti e per i propri errori. Il che significa anzitutto saperli generosamente accettare.
Non devo proprio essere infantile o impaziente. Che fretta ho di condividere tutte le miserie degli altri dietro quel filo spinato? E che cosa sono sei settimane in una vita intera? Il mio cranio è stretto in un cerchio di ferro e sul mio capo pesa un'intera città di rovine. Non voglio essere una foglia malata e avvizzita che si stacca dal tronco della comunità.
NEMICO